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Il sole a mezzanotte (eLit): eLit
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E-book345 pagine5 ore

Il sole a mezzanotte (eLit): eLit

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Info su questo ebook

Una porta che si apre, un passo felpato... Ma ad aggirarsi per le stanze della Casa delle Ombre non è uno dei fantasmi che secondo alcune voci abiterebbero la leggendaria villa, teatro in passato di drammi e passioni consumati nel sangue. L'intruso è un bellissimo sconosciuto che dietro l'apparente cortesia cela un bruciante desiderio di vendetta. Non esistono né ostacoli né remore per lui. La sua missione conta più di qualunque altra cosa, anche del sacrificio di persone innocenti. E i figli del suo nemico, in fondo, non sembrano poi tanto innocenti. Ma le apparenze ingannano, e se la vita e il destino ancora una volta rimescolano le carte...

LinguaItaliano
Data di uscita29 ago 2014
ISBN9788858927939
Il sole a mezzanotte (eLit): eLit
Autore

Anne Stuart

Anne Stuart è nata a Filadelfia, poco dopo la fine della Seconda Guerra Mondiale. Attualmente scrive romanzi ricchi di suspense per MIRA, romanzi rosa per Harlequin American Romance e anche romanzi storici.

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    Anteprima del libro

    Il sole a mezzanotte (eLit) - Anne Stuart

    Titolo originale dell’edizione in lingua inglese:

    Shadows At Sunset

    Mira Books

    © 2000 Anne Kristine Stuart Ohlrogge

    Traduzione di Mirco Caniglia

    Questa edizione è pubblicata per accordo con

    Harlequin Books S.A.

    Questa è un’opera di fantasia. Qualsiasi riferimento a fatti o

    persone della vita reale è puramente casuale.

    © 2002 Harlequin Mondadori S.p.A., Milano

    eBook ISBN 978-88-5892-793-9

    www.harlequinmondadori.it

    Questo ebook contiene materiale protetto da copyright e non può essere copiato, riprodotto, trasferito, distribuito, noleggiato, licenziato o trasmesso in pubblico, o utilizzato in alcun altro modo ad eccezione di quanto è stato specificamente autorizzato dall’editore, ai termini e alle condizioni alle quali è stato acquistato o da quanto esplicitamente previsto dalla legge applicabile. Qualsiasi distribuzione o fruizione non autorizzata di questo testo così come l’alterazione delle informazioni elettroniche sul regime dei diritti costituisce una violazione dei diritti dell’editore e dell’autore e sarà sanzionata civilmente e penalmente secondo quanto previsto dalla Legge 633/1941 e successive modifiche.

    Questo ebook non potrà in alcun modo essere oggetto di scambio, commercio, prestito, rivendita, acquisto rateale o altrimenti diffuso senza il preventivo consenso scritto dell’editore. In caso di consenso, tale ebook non potrà avere alcuna forma diversa da quella in cui l’opera è stata pubblicata e le condizioni incluse alla presente dovranno essere imposte anche al fruitore successivo.

    Prologo

    Uno dei più interessanti edifici di Hollywood è la celebre Casa de sombras, la Casa delle ombre. Costruita dai fratelli Greene nel 1928, è un perfetto esempio di rivisitazione dello stile ispano-coloniale mescolato a influenze mediterranee e arabe. Il parco, un tempo sontuoso nella perfezione di giardini e viali, è vastissimo, ma l’incuria ha ormai compromesso ogni passato splendore e l’intera proprietà rischia di essere rasa al suolo.

    La Casa de sombras deve parte della sua notorietà anche a un macabro episodio di cronaca di cui fu teatro nei primi anni cinquanta. Brenda de Lorillard, diva del cinema ormai in declino, uccise con un colpo di pistola il proprio amante, il regista Ted Hughes, prima di rivolgere l’arma contro se stessa. Sebbene una scia di sangue conducesse dall’interno della ricca dimora alla terrazza, entrambi i cadaveri furono scoperti nella fastosa camera da letto padronale. Si racconta che i fantasmi dei due personaggi continuino ad aggirarsi in quel luogo e che nei decenni successivi siano stati visti in diverse circostanze, talvolta impegnati in accese discussioni o intenti a danzare sulla terrazza al chiaro di luna, e di quando in quando, con grande imbarazzo di alcuni noti agenti immobiliari di Hollywood, in atteggiamento inequivocabilmente erotico sull’enorme tavolo per banchetti della sala da pranzo. Il motivo della loro tragica fine rimane tuttora avvolto nel mistero.

    La villa fu acquistata dalla Meyer Enterprises e rimase disabitata fino alla metà degli anni sessanta, quando ebbe inizio il suo definitivo degrado, dopo che il luogo fu trasformato in una sorta di rifugio per hippy da alcuni famigerati giovani attori e musicisti di Hollywood. Di recente, gli attuali proprietari hanno cercato di restituire al vecchio edificio l’antico splendore, ma come sta accadendo per gran parte del patrimonio architettonico di Hollywood, i suoi giorni sono probabilmente contati. Resta soltanto da chiedersi dove andranno i fantasmi quando la barocca residenza verrà demolita. Da: Hollywood Haunts, Hartsfield Books, 1974.

    Brenda de Lorillard, regina del palcoscenico, dello schermo e dei giornali scandalistici, stirò il corpo flessuoso con un piccolo movimento felino poi, arricciando il naso, si rivolse al suo amato. «Sono trascorsi più di quindici anni da quando quell’orribile libro è stato pubblicato, caro. Credo che ormai si saranno dimenticati completamente di noi.»

    Ted abbassò il giornale e le lanciò un’occhiata attraverso i suoi occhiali dalla montatura metallica. Quando aveva cominciato a portarli, lei lo aveva preso in giro impietosamente. Dopo tutto, perché mai un fantasma avrebbe dovuto usare degli occhiali da vista? Loro erano morti, per amor del cielo. Come era possibile che la sua capacità visiva fosse peggiorata? E dove diavolo li aveva trovati quegli occhiali, in ogni caso?

    Ma lui le aveva riservato semplicemente il suo consueto sorriso benevolo, e per Brenda non c’era stata via di scampo, come era successo quando lo aveva visto per la prima volta oltre la barriera di riflettori quasi accecanti di un set cinematografico, quando lui era un semplice direttore della fotografia e lei una grande star. Lo aveva amato da quel giorno, per quanto illogico potesse sembrare. Fino ad allora aveva dedicato quasi tutta la sua vita, trentatré... ehm... trentotto anni, esclusivamente alla sua carriera, e d’un tratto aveva messo tutto in gioco per un’assurda passione che non si era più spenta a dispetto dei rovesci di fortuna, a dispetto del passare del tempo, perfino a dispetto della morte stessa.

    «Non me ne preoccuperei, bambolina» rispose lui, bevendo un sorso del suo caffè. «Questa casa è ancora in piedi, anche se a mala pena, e le visite guidate agli edifici famosi della città si fermano ancora davanti ai cancelli ogni tanto.»

    «Si tratta di gente attirata dallo scandalo. La stessa che va a vedere la tomba di Rodolfo Valentino o il luogo del regolamento di conti tra qualche famigerato criminale. Persone indegne di una villa magnifica come La Casa de sombras!» aggiunse Brenda con un piccolo singhiozzo. «E la cosa non è molto lusinghiera per noi due. Detesto pensare che tutto ciò per cui veniamo ricordati è la nostra morte.»

    Ted posò gli occhiali accanto al giornale, voltandosi a guardarla con quei suoi stupendi occhi grigi. Il quotidiano era il Los Angeles Times del 27 ottobre 1951, il giorno prima che loro morissero. Non cambiava mai, e Ted lo leggeva ogni mattina con l’espressione dell’uomo che lo avesse davanti per la prima volta.

    «Bambolina, chiunque veda i tuoi film ti ricorderà per il tuo talento. Soprattutto in quelli che io ho diretto» precisò con un largo sorriso malandrino. «Gli scandali sbiadiscono, l’arte sopravvive. Ars longa, vita brevis, lo sai.»

    «Smettila di citarmi slogan da cinematografaro» replicò lei in malo modo. «Non ho mai lavorato per la MGM e me ne rallegro.»

    «La citazione è un tantino più vecchia....»

    «E non trattarmi nemmeno in maniera condiscendente, sottolineando la tua prestigiosa istruzione universitaria» lo interruppe Brenda, fissando con aria torva le proprie unghie. Le limava ogni giorno, correggeva ogni più piccola imperfezione, e ogni giorno ne trovava di nuove. C’era tuttavia un grande vantaggio nella sua situazione. Lei non invecchiava mai. Non aveva la possibilità di studiare il proprio riflesso negli specchi che riempivano ogni stanza della casa, e ne sentiva la mancanza, ma le bastava vedere l’espressione nello sguardo di Ted per capire che la sua bellezza era intatta. Era tutto ciò di cui aveva bisogno.

    «Questa villa non la abbatteranno» disse lui pazientemente. «È scampata agli anni Sessanta e all’invasione di quelle disgustose creature che vivevano qui. È sopravvissuta a tanti anni di abbandono, e per lo meno adesso abbiamo qualcuno che la ama quanto noi. Lei si prenderà cura di questo posto. E di noi due.»

    «Ma se non dovesse farlo?» gridò Brenda. «E se finissero col buttarla giù per costruire un moderno palazzo per uffici? Noi rimarremmo sulla terra a vagare smarriti...»

    «Bambolina» la interruppe Ted con voce calda e confortante, e lei si abbandonò fra le sue braccia in maniera assolutamente naturale, trovando la serenità che esse puntualmente offrivano. «Supereremo anche questo. Non è sempre stato così, tu e io insieme?»

    Brenda guardò l’uomo che amava, così caro, così dolce, così esasperante, così eterno. «Sempre» disse, e la voce le tremava.

    Si sporse in avanti per premere le labbra color carminio contro la bocca di lui, e lentamente entrambi cominciarono a dissolversi.

    1

    Jilly Meyer non si recava mai nell’ufficio di suo padre senza che qualche assurda fantasia prendesse forma nella sua mente. L’ultima volta che si era presentata in quel luogo non era riuscita a scacciare l’immagine di un’aristocratica francese che su una carretta riservata al trasporto dei condannati alla ghigliottina veniva condotta al proprio tragico destino. Nella realtà, quel colloquio con suo padre si era rivelato altrettanto sgradevole della sua fantasia, e nei diciotto mesi trascorsi da allora Jilly non aveva scambiato con lui che una manciata di parole civili.

    E tuttavia eccola di nuovo lì, solo che in questa occasione lei non incarnava la fiera e nobile martire che si avviava verso una morte prematura. Questa volta lei era un guerriero alle porte di una città da espugnare, pronto a battersi contro le forze del male. Doveva soltanto convincere Caronte a permetterle di attraversare l’Acheronte per potere affrontare Lucifero in persona.

    Era terribile paragonare suo padre al demonio, si disse distrattamente. E l’algida signora Afton dagli occhi d’acciaio non meritava l’appellativo di Caronte, benché proteggesse il proprio datore di lavoro con una diligenza che era del tutto sovrumana.

    «Suo padre è un uomo molto impegnato, Jilly» la informò la donna con quel suo tono reciso e gelido che l’aveva terrorizzata quando era bambina. «Dovrebbe sapere che non è il caso di presentarsi qui senza preavviso e pretendere che lui possa abbandonare ogni cosa per trovare tempo da dedicare a lei. Mi faccia consultare l’agenda per vedere quando posso inserirla...»

    «Non intendo andarmene finché non gli avrò parlato.» La voce di Jilly non tradì nessuna incertezza, fortunatamente. La signora Afton sapeva sempre minare la sua padronanza di sé, ma suo padre aveva cessato di esercitare qualunque potere su di lei. Semplicemente non le piacevano le discussioni, e quella che l’attendeva si preannunciava molto combattuta.

    Le labbra sottili della donna si serrarono in una sorta di taglio che esprimeva una profonda disapprovazione, ma Jilly non si mosse. Ancora tre porte la separavano dall’ufficio privato, il luogo sacro e inviolabile, e quelle porte erano controllate elettronicamente. Se lei avesse tentato di entrare con la forza si sarebbe soltanto resa ridicola.

    «Può aspettare nel salottino grigio» le disse infine la signora Afton, ma non si trattava affatto di una resa. «Vedrò se suo padre può trovare qualche minuto per lei, ma non ho molte speranze.»

    Abbandonate ogni speranza o voi che entrate, pensò Jilly. «Non mi dispiace aspettare.»

    Dopo tutto, erano le tre e dieci. Da quando suo padre aveva sposato Melba, il lavoro non lo assorbiva più in maniera così maniacale. Lei non sapeva se fossero la gelosia o la concupiscenza che impedivano a Jackson Dean Meyer di piantare la terza moglie come aveva fatto con le prime due, e non voleva soffermarsi sull’argomento. Ciò che contava era che Melba era forse riuscita ad ammorbidire un poco il vecchio bastardo. Tanto da renderlo meno intransigente e indurlo ad accogliere la disperata richiesta che lei doveva presentargli.

    Nella sala d’attesa grigia c’era un raffinato assortimento di riviste, in gran parte dedicate all’arte del sigaro e ai suoi cultori, tema che non riuscì a catturare l’interesse di Jilly. I divani rivestiti in pelle erano abbastanza comodi, e le finestre offrivano una splendida vista della città di Los Angeles. In una giornata limpida si sarebbero potute distinguere le colline di Hollywood, forse perfino i pinnacoli della costruzione di Sunset Boulevard. La Casa de sombras, la Casa delle ombre. Il mausoleo in rovina che era il suo improbabile domicilio.

    Ma quel giorno l’aria era densa di smog che saliva dalla valle e la foschia autunnale avvolgeva Century City. Lei era prigioniera in un guscio di vetro, climatizzato e senza vita.

    Si era vestita in maniera adatta all’occasione, un completo in lino nero illuminato da tocchi di colore beige. Suo padre aveva criteri assai rigidi in materia di eleganza, e per una volta lei aveva ritenuto opportuno adeguarsi. Poiché il gioco, ribaltando un detto assai sfruttato, in questo caso valeva la candela.

    Tuttavia, se lui l’avesse fatta aspettare a lungo, l’abito si sarebbe irrimediabilmente riempito di grinze. Amen. Jackson l’avrebbe dovuta comunque ascoltare, grinze comprese.

    Jilly si sfilò le scarpe e si raggomitolò nell’angolo del divano in pelle grigia, tirando la corta gonna per coprire le cosce il più possibile. Frugò nella borsa in cerca del portacipria, ma aveva preso la sacca che Melba le aveva regalato per Natale l’anno prima, non quella che usava di solito, e vi aveva trasferito soltanto il portafoglio e i documenti. Niente cipria, niente cosmetici, soltanto un pettine che si sarebbe rivelato del tutto inutile con i suoi lunghi e folti capelli. Chiuse di nuovo la borsa, si lasciò andare contro lo schienale del divano e fece un sospiro, cercando di scaricare un po’ della tensione che la dominava.

    Era ridicolo. Lei aveva quasi trent’anni, era una donna forte, indipendente e con una buona istruzione e suo padre le faceva ancora paura. Nel corso degli ultimi due decenni lei aveva provato con qualunque mezzo, dalla meditazione trascendentale ai sedativi, dalla psicoterapia al training autogeno. Ogni volta che si illudeva di avere infine sconfitto la sua paura, Jackson Dean Meyer gliela serviva di nuovo su un piatto d’argento. E ora rieccola lì, pronta per un’altra razione.

    Il senso di responsabilità affettiva era una brutta bestia. Era stato relativamente facile svincolarsi dall’influenza di suo padre. Jackson provava scarso interesse o simpatia per lei e probabilmente non si accorgeva se passavano anni senza che loro si incontrassero. Suo padre aveva fatto delle scelte e viveva la vita nel modo che preferiva. Lei non poteva salvarlo, nemmeno se lui lo avesse voluto.

    Ma quando si trattava di sua sorella e di suo fratello la faccenda era diversa. Anche se nel caso di Rachel-Ann lei poteva fare ben poco per aiutarla, oltre a volerle bene.

    Era appunto per suo fratello Dean che lei si trovava in quel luogo, nella tana del leone, pronta a battersi. Per loro era disposta a fare qualunque cosa, anche ad affrontare il tiranno che li aveva generati, benché per Rachel-Ann la paternità fosse soltanto adottiva, non biologica.

    In quel momento Dean era a casa con il broncio, seduto nel buio della sua stanza in compagnia del suo prezioso computer. Ancora una volta Jackson era riuscito a mortificarlo e a sminuirlo; ancora una volta Dean aveva piegato la testa, rifiutandosi di reagire.

    Jackson lo aveva rimosso dal suo posto di responsabile dell’ufficio legale dell’azienda, sostituendolo con il suo nuovo pupillo, un certo Coltrane. Evidentemente Jackson si fidava più di un estraneo che del proprio figlio. A Dean era stato concesso il contentino di un simbolico aumento di stipendio senza tuttavia avere una mansione specifica, il massimo dell’umiliazione secondo i criteri del loro implacabile padre.

    Jilly era pronta a combattere al posto di suo fratello. Non poteva permettere che Dean si isolasse davanti a un computer, cedendo a un intruso ogni cosa, in particolare la fiducia di Jackson.

    Per dovere di giustizia doveva ammettere che Dean si lasciava passivamente vittimizzare da suo padre. Non aveva mai tentato di trovare un altro posto di lavoro e superato l’esame di ammissione all’esercizio della professione forense aveva accettato un assai remunerativo impiego presso la società immobiliare di suo padre, che vantava un giro d’affari miliardario, e da allora era rimasto lì, accettando i maltrattamenti di Jackson ed eseguendone gli ordini, un perfetto tirapiedi che continuava a cercare l’approvazione e l’affetto del proprio genitore. Jilly ormai da anni considerava Jackson irrecuperabile, ma Dean aveva maggiori difficoltà ad arrendersi all’evidenza dei fatti.

    Naturalmente, neppure in questa occasione aveva pensato di ribellarsi, o per lo meno di far sentire le proprie ragioni. Se ne era tornato semplicemente a casa, aveva bevuto troppo e pianto sulla spalla di sua sorella. Per questo motivo lei era venuta alla Meyer Enterprises a cercare di riparare un’ingiustizia, pur sapendo di non avere alcuna probabilità di riuscirci.

    Ma per amore di Dean lei doveva tentare.

    Appoggiò la testa all’indietro contro lo schienale del divano e chiuse gli occhi. Aveva bisogno di una buona manicure. Sua nonna diceva sempre che nessuna donna poteva sentirsi insicura se aveva unghie perfette e curate. Lei dubitava che delle unghie finte potessero rappresentare una buona difesa contro la personalità di suo padre, ma a quel punto era pronta a usare tutte le armi cui poteva ricorrere. Forse sarebbe stato più opportuno andarsene, fissare un appuntamento ufficiale con suo padre come quel mostro della signora Afton le aveva consigliato, e ripresentarsi alla data stabilita con una bella manicure e magari anche una nuova acconciatura. Jackson detestava i suoi lunghissimi capelli ormai fuori moda. Lei avrebbe potuto optare per un taglio corto e mosso, come quello di Meg Ryan.

    Con la sola differenza che lei non era un tipo minuto e sbarazzino, e nulla avrebbe trasformato il suo fisico robusto in un esempio di adorabile femminilità. Nemmeno una manicure sarebbe servita.

    Respira profondamente, ordinò a se stessa. Calmati, non consentirgli di metterti in agitazione. Immagina di scendere una scalinata, lentamente, lasciando che il tuo corpo si rilassi. Dieci, nove, otto...

    Qualcuno la stava osservando. Lei si era assopita mentre cercava con la meditazione di raggiungere uno stato di maggiore calma, ma d’un tratto si rese conto che non era più sola. Forse, se avesse tenuto gli occhi chiusi, quella persona se ne sarebbe andata. Non poteva essere Jackson, lui non avrebbe mai lasciato che un estemporaneo sonnellino interferisse con la sua tabella di marcia.

    Non poteva essere neppure la signora Afton, che le si sarebbe avvicinata per scrollarla energicamente.

    Ma tenere gli occhi chiusi per non vedere la realtà non era il modo migliore di affrontare la vita.

    Jilly aprì gli occhi e batté le palpebre, sconcertata dalla penombra calata sulla stanza. Era tardi, la luce all’esterno si stava stemperando nell’annuncio di una serata di inizio autunno, e l’uomo che la stava fissando era fermo nel vano della porta, avvolto dalle ombre.

    Il felpato brusio di attività della Meyer Enterprises era cessato. Evidentemente era molto tardi, e lei si trovava da sola con uno sconosciuto. Se fosse stata un tipo più impressionabile, quella situazione l’avrebbe spaventata.

    Ma Jilly era una donna molto razionale. «Ha intenzione di restare lì in eterno?» chiese in tono pungente, imponendo a se stessa di alzarsi con estrema calma dal divano, senza cedere all’impulso di abbassare la gonna sopra le cosce slanciate. Il gesto sarebbe soltanto servito ad attirare l’attenzione dell’uomo.

    Lo sconosciuto accese la luce, e lei batté di nuovo le palpebre, per un attimo disorientata. «Mi rincresce che l’abbiano fatta aspettare così a lungo. La signora Afton mi ha lasciato un appunto sulla scrivania per informarmi che lei voleva parlare con me, ma io l’ho notato soltanto al momento di lasciare l’ufficio.»

    «Non stavo aspettando lei. Non la conosco nemmeno. Volevo vedere Jackson.»

    L’uomo entrò nella stanza, sulle labbra un mezzo sorriso sprezzante, carico di fascino e totalmente artificiale. «Suo padre mi ha chiesto di occuparmene, Jillian. Io sono...»

    «Coltrane» concluse lei seccamente. «Avrei dovuto immaginarlo.»

    «Perché?»

    «Mio fratello mi ha raccontato tutto di lei.»

    «Nulla di lusinghiero, ne sono sicuro» osservò l’uomo allegramente.

    La sua voce era priva della rilassata cortesia californiana, lei non riusciva del tutto a identificare il suo accento, e ciò significava che Coltrane probabilmente era originario del Midwest, unico indizio che lui non apparteneva all’ambiente popolato da squali nel quale Jackson Meyer prosperava.

    «Dipende dalla sua definizione del termine lusinghiero» gli disse, desiderando che esistesse un modo per poter infilare le scarpe senza che lui se ne accorgesse. L’uomo era già troppo alto senza che lei aggiungesse l’ulteriore svantaggio di rinunciare a qualche centimetro di tacco.

    Come lo aveva descritto Dean? Un bellissimo ragazzo con l’animo di un serpente? Il giudizio sembrava accurato. Coltrane era davvero bellissimo, benché gli mancasse quella femminea mollezza che solitamente accompagnava una simile straordinaria avvenenza. Lei non era in grado di dire se fosse omosessuale oppure no, e non le interessava particolarmente saperlo. Comunque fosse, quell’uomo era territorio rigorosamente proibito. Chiunque avesse un rapporto di qualsiasi natura con suo padre apparteneva a quella categoria.

    Tuttavia, lui era estremamente piacevole da guardare. Tutto nella sua persona era perfetto: i capelli leggermente lunghi e schiariti dal sole, il completo di Armani, la camicia in cotone egiziano col colletto aperto che metteva in risalto il collo abbronzato. L’uomo aveva il fisico slanciato e muscoloso di un atleta, di un centometrista. Gli occhi erano socchiusi mentre la osservavano, perciò lei non riusciva a vederne né il colore né l’espressione, ma era quasi certa che fossero azzurri e apertamente voraci.

    Jilly si chinò e infilò i piedi nelle scarpe, infischiandosene del fatto che Coltrane la stesse osservando, o che la sua blusa di seta probabilmente scoprisse in maniera eccessiva il solco tra i seni. Quello non doveva essere il tipo di uomo che si lasciava confondere da una scollatura, per quanto generosa. «Le sono grata di avere infine trovato il tempo di ricevermi» disse, «ma è con mio padre che volevo parlare, non con uno dei suoi tirapiedi.»

    «Sono diversi anni che non mi danno del tirapiedi» ribatté lui, strascicando le parole.

    Jilly raddrizzò la schiena per sfruttare tutta la propria altezza. Restava assai più piccola dell’uomo, ma le scarpe a tacco alto la facevano sentire meno vulnerabile. «Dov’è mio padre?»

    «È già andato via.»

    «Allora dovrò semplicemente cercarlo alla casa di Bel Air...»

    «È fuori città. Lui e Melba sono partiti per una breve vacanza in Messico. Sono spiacente, ma non ho modo di mettermi in contatto con lui.»

    «Vedo infatti che la cosa la addolora» borbottò Jilly, senza più timore di sembrare sgarbata.

    La sua reazione parve lasciarlo indifferente. Il sorriso di Coltrane era distaccato, esasperante. «Ascolti, io sono qui per aiutarla. Se lei ha qualche problema di natura legale sarò lieto di occuparmene. Una contravvenzione? Qualche difficoltà con il suo ex marito? L’ufficio legale può sistemare tutto e...»

    «L’ufficio legale può sbarazzarsi di un intruso che ha soffiato il posto di lavoro a mio fratello?»

    A quel punto lui sollevò gli occhi, e per Jilly fu quasi uno choc. Non erano affatto azzurri, bensì di un abbagliante verde smeraldo. Così verdi da indurla a sospettare che lui portasse lenti a contatto cosmetiche. E non esprimevano rapace avidità, ma valutavano con calma ogni cosa.

    «È quello che suo fratello le ha raccontato? Che io gli avrei rubato il posto?» L’idea sembrava divertirlo, e la collera di Jilly si fece ancora più risentita.

    «Non soltanto il suo posto. Ma anche suo padre» specificò con voce altrettanto fredda.

    «Suo padre? Non il vostro? Jackson Meyer non è un uomo sentimentale. Non credo che gliene importi un fico secco di me o di suo fratello. Lui vuole soltanto che il lavoro sia fatto bene. Io svolgo quel lavoro per lui.»

    «Ah, sì?» replicò Jilly con voce flautata. «E che altro fa per mio padre?»

    «Omicidi a sangue freddo, occultamento di cadaveri, qualunque cosa lui mi chieda» rispose Coltrane con disinvolta ironia. «Che progetti ha per cena?»

    «Non ne dubito» mormorò lei, prima di rendersi conto che le aveva fatto una domanda. «Come ha detto?»

    «Le ho chiesto che programmi ha per cena. Sono le sette passate e io avrei fame, ma lei sembra avere in serbo per me come minimo un’altra ora di rampogne da scaricarmi addosso per avere rovinato la vita al suo fratellino. Mi permetta di portarla fuori a cena così potrà farmi a pezzi comodamente.»

    Jilly rimase senza parola di fronte a tanta impudenza. «Io non voglio uscire con lei» ribatté, agitata.

    «Possiamo farci portare qualcosa qui, allora. Suo padre può contare su un servizio di ristorazione disponibile ventiquattro ore su ventiquattro.»

    «E Dean non è il mio fratellino. Ci sono soltanto due anni di differenza fra noi due» aggiunse Jilly in tono seccato.

    «Dia retta a me» insistette Coltrane, «lui si merita la definizione di fratellino

    Sarebbe stato impossibile non cogliere l’ammirazione vagamente beffarda nel suo tono, ma ciò servì soltanto a indispettire Jilly ancor di più. Lei aveva fallito, suo padre era irraggiungibile. Come al solito.

    «Parlerò con Jackson quando sarà di ritorno» dichiarò con simulata indifferenza, allungando la mano per prendere la borsa. «La ringrazio del suo aiuto, signor Coltrane.»

    «Solo Coltrane» la corresse l’uomo. «E lei ha ancora bisogno del mio aiuto. Non potrà uscire da questo posto senza di me.»

    «Che cosa intende dire?»

    «L’edificio è dotato di un sofisticato sistema di sicurezza. Nessuno può entrare o uscire senza l’apposito codice dopo le diciannove. In questo momento sono le diciannove e quindici, e io non credo che lei conosca quel codice, giusto?»

    «Infatti.»

    «E dove ha lasciato l’auto? Nella rimessa all’interno dell’edificio, vero? Non c’è altro posto dove parcheggiare qui intorno. Lei non riuscirà a riprenderla senza conoscere il codice che controlla gli ingressi del garage. Se vuole rientrare a casa stasera le servirà il mio aiuto.»

    Un’altra persona avrebbe potuto sospettare che quello fosse un piano perverso del destino, ma Jilly non era propensa a credere che il destino si interessasse tanto di lei. Rimase immobile a fissare Coltrane, gli occhi socchiusi mentre valutava le possibili soluzioni. Avrebbe potuto chiamare Dean, ma spesso suo fratello non rispondeva al telefono. C’era anche il rischio che lui fosse troppo ubriaco per farlo, e lei di sicuro non voleva che si mettesse al volante in quello stato per venire a prenderla. Quanto a Rachel-Ann... Dio solo sapeva dove si trovasse. Ed era trascorso così tanto tempo da quando lei aveva messo piede nella sede della Meyer Enterprises che ormai non conosceva più nessun dipendente cui fare ricorso, a eccezione della signora Afton, e in confronto a quella donna perfino Coltrane appariva preferibile.

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