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Mille canzoni d'amore. The Mixtape
Mille canzoni d'amore. The Mixtape
Mille canzoni d'amore. The Mixtape
E-book395 pagine5 ore

Mille canzoni d'amore. The Mixtape

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Info su questo ebook

Un'autrice bestseller
Pubblicata in 18 Paesi

Una storia d’amore coinvolgente, travolgente, straripante. Semplicemente perfetta.

Emery non si è mai sentita più sola. Crescere una figlia è la cosa più bella della sua vita ma anche la più difficile: deve lottare per non perdere il lavoro di barista perché, senza nessuno che le aiuti, senza nessuna ancora di salvezza, qualsiasi spesa imprevista potrebbe farle perdere tutto ciò che conta per lei. 
Sconvolto dalla morte del fratello gemello e compagno di band, la rockstar Oliver Smith sta cercando di risolvere i suoi problemi. Purtroppo non gli riesce granché: i fan lo seguono ovunque vada, i paparazzi immortalano i suoi momenti peggiori. Il caso ha portato Oliver proprio nel bar in cui lavora Emery. E quando lei lo aiuta a seminare la folla, si ritrovano soli: due persone i cui percorsi sono segnati dalla perdita e dal dolore. Entrambi hanno un’incrollabile speranza. Ma il loro amore può resistere al mondo?

Oltre 17 milioni di visualizzazioni su TikTok
Brittainy Cherry
È rimasta incantata dalle parole fin dal momento in cui ha fatto il primo respiro. Si è laureata alla Carroll Uni­versity in Teatro e in Scrittura creati­va. Vive a Milwaukee, nel Wisconsin, con la famiglia. È un’autrice di culto del genere Young e New Adult. La Newton Compton ha pubblicato con successo L’amore arriva sempre al mo­mento sbagliato, Ti amo per caso, In­finite volte, Un posto accanto a te, Hai bussato al mio cuore, Non pensavo fosse amore, Al di là delle stelle, Un amore disastroso e in ebo­ok Come pioggia su di me, Un infinito istante di noi e Voglio che sia per sempre.
LinguaItaliano
Data di uscita7 lug 2021
ISBN9788822756633
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    Anteprima del libro

    Mille canzoni d'amore. The Mixtape - Brittainy Cherry

    1

    Oliver

    Presente

    Mi svegliai accanto a una donna che avevo amato, ma che non mi piaceva più molto. Non era sempre stato così. C’era stato un tempo nella mia vita in cui Cam Jones era solita lasciarmi a bocca aperta. Ci ispiravamo l’un l’altra. Avevamo conversazioni profonde, eloquenti. La adoravo. Pensavo persino che un giorno sarebbe diventata mia moglie. Col tempo, però, stava diventando sempre di più un’estranea per me.

    Giorni dopo la morte di Alex, erano cominciate a circolare voci che Cam mi stesse tradendo, anche se lei giurava che non era vero. Quella era l’esatta ragione per cui non avevo mai voluto che la nostra relazione diventasse pubblica, perché quando gli avvoltoi affondano gli artigli nella tua vita, non ti lasciano più finché non ti hanno squartato.

    Dopo che lei ebbe smentito quelle voci, non avevo indagato oltre. Era il lavoro dei paparazzi quello di diffondere bugie. E poi la mia mente non era al meglio. La mia anima non riusciva a concepire l’idea di una rottura con Cam perché avevo bisogno di lei. Cam era con me quasi tutte le sere, sdraiata al mio fianco, e forse ero uno stronzo ad averne bisogno, ma odiavo l’idea di restare solo.

    I miei pensieri erano troppo gravi per restare da solo.

    Cam, accanto a me, sbadigliò e stiracchiò le braccia, colpendomi in faccia. Brontolai per quel movimento e voltai la schiena verso le sue dita gelate. Mi sconvolgeva come si potesse sentire tutto quel freddo, pur essendo avvolti in un milione di coperte.

    Mentre mi spostavo alla mia sinistra, Cam strattonò il piumone verso destra, tirandolo via da me e avvolgendocisi dentro. Borbottai un po’ e mi misi a sedere sul mio letto king-size, mentre mi massaggiava le tempie. Sporgendomi in avanti per alzarmi, il mondo cominciò a girare sempre più veloce dietro i miei occhi, quindi mi fermai.

    Caffè.

    Avevo bisogno di caffè e di circa altri quindici anni di sonno. Non riuscivo a ricordare l’ultima volta che mi ero fatto una bella dormita, eccetto quando mi era capitato di perdere i sensi. Non riuscivo a dormire da sobrio; i miei pensieri erano troppo forti.

    «È ora di svegliarsi, principessa», cinguettò una voce facendomi sollevare leggermente il capo in direzione della porta della mia camera. L’occhio sinistro si aprì leggermente e mi permise di mettere lentamente a fuoco la figura davanti a me.

    Tyler era in piedi con una tazza di caffè e una bottiglietta con ibuprofene. Ringraziavo il cielo per la sua abilità di sapere di cosa avessi bisogno prima ancora che me ne rendessi conto io stesso. Tyler era un tipo basso, calvo, di quasi quarant’anni, muscoloso come un supereroe; con un pesante accento del Bronx, che non aveva lasciato a New York quando si era trasferito nella costa occidentale.

    Si vestiva sempre con abiti delle migliori marche e rovinava il suo look con il peggior paio di occhiali da sole del mondo. In tutta onestà, sembravano molto anni Settanta. Sono quasi certo di aver visto lo stesso paio in qualche replica de I ragazzi del sabato sera che guardavo con mio padre. Se Tyler fosse stato un cane, sarebbe stato un incrocio tra un chihuahua e un pitbull. Muscoloso e sempre ad abbaiare, ma con un aspetto un po’ ridicolo. In qualche modo, su di lui funzionava.

    Borbottai qualcosa nella sua direzione e continuai a massaggiarmi la fronte con le dita.

    Cam si mosse sotto le coperte e sbadigliò rumorosamente mentre si metteva seduta e si passava le mani sul viso. «Quel caffè è per me?», chiese, voltandosi verso Tyler.

    «Mai», sbuffò lui, raccogliendo il reggiseno di Cam e lanciandoglielo.

    «È un piacere anche per me vederti, Tyler».

    «Perché non te ne vai, Satana?», replicò lui, per niente divertito dal mio reiterato errore. Non era un segreto che si odiassero. Già prima delle voci del tradimento, Tyler l’aveva ritenuta indegna della sua attenzione. Lui e Alex la pensavano allo stesso modo su di lei: mi stava usando per accrescere la propria fama.

    Io non riuscivo a crederci. Da qualche parte dentro di lei c’era l’anima buona che avevo conosciuto anni prima. O almeno queste erano le bugie che mi raccontavo per arrivare a fine giornata.

    «Ci penso io al mio caffè. Dovevo comunque andarmene. Devo trovare un ente di beneficenza a cui fare una donazione per farmi pubblicità», affermò Cam.

    «Non si fa beneficenza per la pubblicità», mormorai.

    Lei alzò gli occhi al cielo. «È l’unico motivo per fare beneficenza. Altrimenti, a che serve?».

    Cam strisciò sul letto fino a posare il petto nudo contro la mia schiena. La sua fredda pelle color caffè si premette contro il nero della mia e per un attimo sembrò che i nostri corpi si fossero connessi, anche se sapevamo entrambi che stavamo forzando i pezzi di un puzzle formato male.

    «Hai parlato con il tuo manager per lasciarmi esibire durante il tuo show di stasera?», mi chiese, ricordandomi che avevo uno show quella sera.

    «Sono io il suo manager e la risposta è Col cavolo», commentò Tyler.

    Cam sbuffò infastidita. «Quando ti deciderai a licenziarlo?»

    «Mai», risposi.

    «Sentito? Mai. Sto solo aspettando il giorno in cui si deciderà a licenziare te», disse Tyler.

    Lei sibilò verso di lui e lui sibilò verso di lei.

    Cam portò le labbra al mio orecchio e il mio corpo si contorse per quel semplice tocco. Ero quasi certo che i suoi occhi fossero fissi su Tyler per dimostrargli qualcosa. Che era lei ad avere il controllo su di me, non lui. «Ieri notte è stata divertente», commentò, con voce fumosa e secca. Divertente? Davvero? Avevo bevuto troppo per ricordare qualsiasi cosa. I suoi capelli dondolavano avanti e indietro, accarezzandomi la base del collo. «Ho degli appuntamenti. Ci vediamo stasera».

    Io non le dissi niente. Lei non si aspettava nessuna forma di comunicazione da me. Io e Cam non parlavamo. Be’, lei parlava e io no, il che le stava bene. Voleva solo avere qualcuno che si sedesse e ascoltasse tutto quello che diceva. Lei aveva bisogno di qualcuno che la ascoltasse, mentre io avevo bisogno di qualcuno che restasse. La notte si sdraiava al mio fianco e, per qualche momento della mia vita, fingevo che il mondo non stesse cadendo a pezzi intorno a me e che mi sentissi meno solo.

    È assurdo come la solitudine conduca le persone verso posti che probabilmente non appartengono loro più.

    Cam si infilò il suo vestito con un’espressione compiaciuta e lanciando uno sguardo di controllo su di me. «Ciao, Ty», disse, strappandogli il caffè di mano e ondeggiando i fianchi a destra e sinistra mentre usciva dalla stanza.

    Tyler sembrò disgustato alla vista di tutto ciò. «Questo è il tuo monito quotidiano che non hai bisogno di condividere il letto con il diavolo», commentò. «Comunque, muoviti. Dobbiamo andare. Dovevi già esserti fatto la doccia».

    Si mosse verso le ante della cabina armadio e le aprì, rivelando uno spazio enorme pieno di molti più abiti firmati di quanti una persona dovrebbe possedere. Nel mezzo della cabina, c’era un’enorme isola come quelle delle cucine, con cassetti che davano mostra di costosi orologi, calzini di marca e gioielli di un valore superiore a un mutuo di un normale essere vivente.

    «Stavo pensando che forse dovremmo rimandare il concerto».

    «Stai scherzando, vero?», chiese, uscendo dall’armadio con un completo per me. «Sei stato tu ad accettare l’esibizione di questa sera».

    Non era una bugia. Il concerto era stato una mia idea. Dopo aver letto così tanti articoli su come stessi crollando e fossi un disastro, avevo deciso di dover dimostrare di stare bene, anche se non era così. La mia carriera non era soltanto mia: avevo un team di persone che dipendevano da me per continuare a fare musica. Dal mio manager, il mio team di pr, Kelly, a Ralph, che per fortuna era sopravvissuto all’incidente con ferite lievi. La qualità della vita di quelle persone dipendeva da me. La mia etichetta discografica mi aveva dato la possibilità di diventare un artista solista, e quella era stata l’occasione per far sì che nessuno del mio team restasse disoccupato.

    Però… non sapevo come essere un artista solista.

    Cavolo, non sapevo nemmeno come esistere senza mio fratello.

    «Questa è un’ottima opportunità, Oliver», disse Tyler, come se riuscisse a leggere nei miei turbati pensieri. «So che non sarà facile, e se potessi prendere il tuo posto su quel palco ed esibirmi, lo farei. Ma il meglio che possa fare è stare dietro le quinte con te, sostenendoti insieme a Kelly – che, a proposito, ti sta preparando la colazione mentre parliamo. Perciò, va’ a farti la doccia e togliti dal corpo quel che resta di Chucky».

    Mi diressi verso la doccia del bagno in camera, che aveva tre soffioni – problemi da ricchi – e feci come mi aveva detto Tyler. Avrei voluto discutere ancora sul perché la performance di quella sera non avesse importanza, perché davvero non capivo. Io ero stato parte di un duo e fin da quando Alex era morto mi era stato chiaro che i giorni di Alex & Oliver fossero finiti.

    Come avevano sostenuto diversi articoli, chi voleva un Oliver senza un Alex?

    Mentre ero in piedi nella doccia, speravo che l’acqua avrebbe lavato via quel mal di testa pulsante, ma non lo fece. Speravo che avrebbe lavato via anche i miei rumorosi pensieri, ma non lo fece. Non fui così fortunato. Era da tanto che non riuscivo a trovare un modo per silenziare la mia mente, senza l’alcol.

    Quando uscii dalla doccia, non mi guardai allo specchio. La maggior parte degli specchi in casa mia erano coperti da lenzuola. Non mi guardavo allo specchio da tantissimo tempo perché, ogni volta che lo facevo, era Alex a fissarmi di rimando.

    2

    Emery

    Cosa c’è per colazione?

    Rovistai nella credenza alla ricerca di qualcosa – qualunque cosa – da preparare a Reese. Avevamo usato le ultime uova e salsicce per la cena la sera prima e avevamo accuratamente ripulito i bordi del barattolo del burro d’arachidi per uno snack post-cena mentre leggevamo i libri della biblioteca.

    Pensa, pensa, pensa, Emery.

    Tirai fuori del pane insieme a un barattolo quasi finito di marmellata e li posai sul bancone.

    Della pagnotta era rimasto solo un pezzo oltre alle due estremità. Ma Reese si rifiutava di mangiare le estremità, indipendentemente da quanta marmellata ci spalmassi sopra.

    «Non è vero pane, mamma», contestava sempre. «Quelli sono i sederi del pane. È quello che mangiano gli uccelli al lago».

    Anche se aveva ragione, non aveva molta scelta quella mattina. Avevo solo 12,45 dollari nel mio conto in banca e mancavano ancora ventiquattr’ore al giorno di paga. Metà dei soldi se ne sarebbero andati per l’affitto, mentre avrei usato il resto per dei pasti economici. In quel periodo, non avevamo un grande spazio di manovra nella nostra vita, visto che avevo perso l’ultimo lavoro all’hotel come chef di linea.

    Da allora, lavoravo di notte in un buco di locale sporadicamente affollato di nome Seven. Inutile dirlo, quel lavoro non mi portava molti soldi, e stavo ancora aspettando notizie dall’ufficio di collocamento circa le entrate dovutemi per aver perso il lavoro.

    Presi un coltello e tagliai via quanto più potevo del sedere per farlo sembrare un pezzo di pane normale. Poi, lo ricoprii di marmellata d’uva.

    «Reese, la colazione!», urlai.

    Lei si affrettò fuori dalla sua stanza e arrivò correndo al tavolo della cucina. Mentre scivolava sulla sedia, arricciò il naso e borbottò. «Questa è l’estremità, mamma!», disse impertinente, per nulla impressionata dal mio pasto gourmet.

    «Mi dispiace, piccola». Mi avvicinai e le arruffai gli ondulati capelli color carbone. «Siamo un po’ strette questa settimana».

    «Siamo sempre strette», brontolò, dando un morso prima di gettare il resto del sandwich sul piatto. «Ehi, mamma?»

    «Sì, tesoro?»

    «Noi siamo povere?».

    Quella domanda riecheggiò nelle mie orecchie e mi colpì nelle viscere. «Cosa? No, certo che no», risposi, un po’ scioccata dalle sue parole. «Perché lo pensi?»

    «Be’, Mia Thomas al campo estivo ha detto che solo i poveri fanno la spesa negli empori solidali ed è lì che noi prendiamo tutti i nostri vestiti. E poi, Randy può sempre mangiare McDonald’s a colazione mentre tu non me lo lasci mai fare. E poi, e poi, e poi», esclamò concitata, come se fosse pronta a elencare la più grande prova per dimostrare il nostro livello di povertà, «mi hai dato i sederi del pane!».

    Le sorrisi, ma il mio cuore cominciò a spezzarsi. Era una cosa che mi succedeva continuamente ormai da cinque anni, da quando Reese era venuta al mondo. Si spezzava perché ogni giorno mi sentivo come se la stessi deludendo. Come se non fossi abbastanza e non le stessi dando la vita che meritava davvero. Essere un genitore single era la cosa più difficile che mi fossi mai trovata a fare; tuttavia, non avevo avuto molta scelta. Il padre non avrebbe decisamente mai fatto parte della nostra vita, così avevo imparato da subito a gestire tutto da sola.

    Anche se avevo lavorato sodo per sbarcare il lunario, in quel periodo sembrava che l’autobus delle difficoltà stesse sfrecciando sempre più veloce giù per la strada. Ogni giorno sembrava che fossi a pochi secondi dallo schiantarmi.

    Odiavo come ci fossimo ridotte in ristrettezze, ma gli affari andavano a rilento al bar in cui lavoravo, il che significava meno mance. In più, tutti i colloqui di lavoro che mi capitavano non conducevano a niente. Ero in ritardo anche con l’affitto e non avevo ancora informato Reese del fatto che non mi sarei potuta permettere la successiva tariffa del campo estivo; ergo, niente più campo estivo. Ne sarebbe stata devastata, e anch’io per averle spezzato il cuore. Mi domandavo se i bambini sapessero che quando i genitori spezzano loro il cuore, i primi a infrangersi sono i loro.

    Chissà quando avremmo avuto un attimo di respiro.

    Fissavo la mia bambina, che mi somigliava così tanto. Alcune caratteristiche, ne ero certa, appartenevano al padre, ma ero grata del fatto di non riconoscerle. Non vedevo che una bellissima bambina, perfetta in ogni modo.

    E il suo sorriso?

    Quel sorriso era un po’ come il mio. Più come quello di mia madre. E anche la profonda fossetta nella guancia sinistra.

    Grazie, Dio, per il suo sorriso.

    Aveva avuto anche la benedizione della mia pessima vista, che era la ragione per cui quegli spessi occhiali tondi risiedevano sul suo viso. Amavo tantissimo quel viso. Era quasi impossibile ricordare un giorno in cui lei non fosse stata nella mia vita.

    Avete presente come mi si spezzasse il cuore ogni volta che mi sentivo un fallimento per lei? Ogni volta che Reese sorrideva, le crepe cominciavano a richiudersi. Lei, il mio angelo sulla terra, la mia ragione d’esistere; ogni frattura sofferta dal mio cuore, il suo amore la riparava.

    Mi mossi verso di lei e le scompigliai i già arruffati e annodati capelli castani. Avrei dovuto scioglierglieli, darle una bella passata di balsamo e arricciarli per bene quanto prima, ma la mia preoccupazione più urgente era la cena di quella sera, e quale aspetto avrebbe avuto. Era una preoccupazione privata, una lotta mentale segreta che non potevo permettere che arrivasse a Reese. «Non puoi dare ascolto a tutto quello che dicono al campo estivo, Reese».

    «Incluse la signora Monica, la signora Rachel e la signora Kate?», esclamò, entusiasta di aver quasi avuto il permesso di ignorare le sue istruttrici del campo estivo.

    «Eccetto le istruttrici».

    «Quindi», disse inarcando un sopracciglio e prendendo il sandwich, «non siamo povere?»

    «Be’, vediamo. Hai un letto in cui dormire?».

    Annuì lentamente. «Sì».

    «E una casa in cui vivere?»

    «Ah, ah».

    «Un’auto che ci porta in giro?»

    «Sì…».

    «E anche se si tratta dei sederi del pane, hai sempre qualcosa da mangiare?»

    «Sì».

    «E hai una mamma che ti ama?».

    Fece il suo solito sorrisetto. «Sì».

    «Allora non siamo affatto povere. Abbiamo dei vestiti addosso, un tetto sopra la testa, un’auto da guidare e il nostro amore reciproco. Nessuno può essere povero finché ha amore». Lo dissi e ci credevo davvero. Quando Reese è entrata nella mia vita, ho imparato che la vera ricchezza era avvolta nel suo amore.

    E con il suo amore, mi sentivo ricca. Con il suo amore, non avrei mai perso la speranza nel domani.

    Reese abbassò le sopracciglia e mi rivolse uno sguardo severo. «Quindi stai dicendo che Mia e Randy dicono solo stupidaggini?»

    «Oh sì, solo stupidaggini».

    «Mmm, stupidaggini fritte non suona male», disse, addentando il suo sandwich. «Me le fai per cena?», chiese.

    «Forse, tesoro. Vedremo».

    Sentimmo bussare, così mi alzai e mi diressi verso la porta. Quando la aprii, vidi un volto familiare in piedi sull’uscio.

    «Buongiorno, Abigail», sorrisi alla mia vicina. Abigail Preston aveva vissuto nell’appartamento di fronte al mio fin da quando io e Reese ci eravamo trasferite lì cinque anni prima. Aveva poco più di sessant’anni, viveva da sola ed era una vera santa, sia con me che con Reese. Nei giorni in cui dovevo lavorare di notte, era sempre disponibile a badare a Reese. E non chiedeva mai nulla in cambio. Anche quando provavo a pagarla per la sua gentilezza, mi diceva che le persone non dovrebbero essere gentili per raccoglierne i frutti.

    Il bene si fa per amore del bene, Emery. È così che il mondo riesce ad andare avanti: perché ci sono brave persone che fanno cose buone per il solo piacere di farlo.

    Abigail era un’ottima cosa. Incredibile, addirittura.

    Non era solo buona, ma era una terapista in pensione, il che mi era tornato utile cinque anni prima quando ero una neomamma. Abigail mi aveva aiutato a superare l’ansia e le paure, tutto gratuitamente.

    Una volta le avevo chiesto come mai vivesse nel nostro palazzo quando era chiaro che avesse abbastanza soldi per vivere in un posto più bello. La storia dietro la sua scelta era stata una ragione sufficiente per farmi sorridere il cuore. Mi aveva detto che quell’appartamento era stato il primo posto in cui avesse vissuto con il defunto marito. Dopo la sua morte, Abigail aveva cercato un nuovo posto dove vivere e quando aveva visto che il loro vecchio appartamento era disponibile per l’affitto, aveva sentito che sarebbe dovuta tornarci.

    Aveva detto che non era solo un appartamento, era la storia della sua vita e senza quella storia non avrebbe mai incrociato il cammino mio e di Reese.

    Ringrazio il cielo per le storie di vita delle persone e per come a volte si mischino con quelle di altre.

    «Ehi, cara». Mi rivolse il suo dolcissimo sorriso. Era vestita da capo a piedi in vibranti sfumature di giallo. I capelli d’argento erano raccolti in una coda e i suoi occhiali erano appesi a una catenina che aveva intorno al collo. Teneva anche una scatola tra le mani. «Ho pensato di passare a portarti delle ciambelle avanzate dalla cena di ieri sera. Ne avevo voglia, ma non potevo mangiarne una dozzina intera da sola, così ho pensato di lasciarne qualcuna a voi due». Aprì la scatola per farmi vedere le dolci leccornie.

    Lei non lo sapeva, ma i suoi colpi sulla porta arrivavano sempre al momento giusto.

    «Ciambelle!», urlò Reese, affrettandosi verso la porta e prendendo la scatola dei miracoli dalle mani di Abigail. So che la maggior parte delle persone non considererebbe una scatola di ciambelle un miracolo, eppure quando il frigorifero è vuoto e il giorno di paga è ancora lontano, una scatola di ciambelle è un dono dal cielo.

    Reese corse verso il divano del salotto sprofondandoci sopra e io le urlai dietro: «Come si dice, Reese?»

    «Grazie, Abigail!», gridò, con la bocca già piena di quella zuccherosa bontà.

    «Mangiane una sola, Reese. Dico sul serio».

    Quelle ciambelle sarebbero bastate per farci andare avanti fino all’arrivo del mio stipendio la sera successiva.

    Mi voltai di nuovo verso Abigail e strinsi gli occhi. «Per qualcuno che ieri aveva voglia di ciambelle, è strano che ce ne sia ancora una dozzina nella scatola».

    Mi rivolse un sorriso furbo. «Devono avercene messa una in più».

    Sì, certo.

    Una brava donna che faceva cose buone.

    Mi spostai un po’ e incrociai le braccia. «Grazie. Non hai idea di quanto ne avessimo bisogno stamattina».

    Corrugò la fronte. «Forse un’idea ce l’ho». Tirò fuori un pezzo di carta da dietro la schiena e me lo porse. «Questo è stato messo nella mia cassetta, anziché nella tua».

    Presi il foglietto piegato dalla sua mano e lessi l’avviso.

    Ero in ritardo con l’affitto.

    Di nuovo.

    Ero in ritardo di due mesi poiché avevo perso il lavoro e a causa di alcuni problemi di salute di Reese; ma per fortuna l’amministratore di condominio, Ed, era stato così gentile da lasciar correre. Solo che, a giudicare da com’era formulata la lettera, pareva proprio che ormai fossimo appese a un filo. Non potevo biasimarlo. Quello era il suo lavoro e il fatto che mi avesse permesso di avere due mesi arretrati di affitto mi aveva stupita.

    Avevo visto Ed cacciare persone per ritardi di poche settimane. Era un tipo spietato, uno che morde ma non abbaia. Tranne che con Reese e me. Ero completamente consapevole delle regole, e sapevo che la situazione non poteva andare avanti così per sempre. E poi, non c’è sensazione peggiore che sapere di dovere qualcosa a qualcuno. Non volevo debiti sul mio nome, né per me né per Reese. Per il momento, ringraziavo per la generosità di Ed. Aveva una specie di debole per Reese e mi diceva sempre che io gli ricordavo sua madre. Anche lei era stata una mamma single, per cui forse rivedeva sé stesso in Reese.

    Non poteva avere pietà di noi molto più a lungo, però, e io dovevo trovare un modo per fargli avere quasi duemila dollari entro due giorni. Non avrei ricevuto lo stipendio prima di venerdì e, persino allora, l’affitto avrebbe portato via la maggior parte dell’assegno per le prime due settimane, lasciandoci poco per cibo e benzina.

    Feci un respiro profondo e cercai di non crollare. Sembrava una battaglia infinita. Se rattoppavo una cosa, un’altra cadeva giù.

    «Se hai bisogno di soldi, Emery…», cominciò a dire Abigail, ma scossi velocemente la testa.

    Avevo già accettato un prestito da lei in passato e non potevo farlo di nuovo. Non potevo continuare a fare affidamento sugli altri per poter respirare. Dovevo imparare a reggermi sulle mie gambe. Avrei solo voluto saper camminare meglio.

    «Va tutto bene, sul serio. Tutto si sistemerà. Come sempre».

    «Hai ragione. Ma se dovesse servirti una mano per arrivare a domani, io ci sono».

    In un attimo, il mio cuore si spezzò e si risanò. Le lacrime contro cui lottavo ogni giorno cominciarono a scorrermi giù lungo il viso e mi voltai per non farmi vedere da Abigail. Mi vergognavo di me stessa, imbarazzata dalle mie difficoltà.

    Ma Abigail non avrebbe mai permesso una cosa simile. Mi asciugò le lacrime, scuotendo la testa. Poi disse cinque parole, così semplici, eppure ricche di significato. «Non sei debole. Sei forte».

    Non sei debole. Sei forte.

    Come? Come faceva a sapere quello che avevo bisogno di sentire?

    «Grazie, Abigail. Davvero. Sei una santa».

    «Non sono una santa, solo un’amica. A proposito... devo vedermi con un’amica per un caffè. Buona giornata!». Si voltò e svanì via come la fata madrina che aveva sempre dimostrato di essere.

    Corsi verso Reese e le tolsi la scatola di ciambelle di mano. Ne mancavano due e mezzo e, onestamente, mi sorprese che non ne mancassero di più.

    «Scusa, mamma. Non riuscivo a fermarmi. Sono buooonissime! Dovresti mangiarne una anche tu».

    Sorrisi e fui quasi inebriata dall’odore di quella delizia. Ma rifiutai perché, se non ne avessi mangiata neanche una, ce ne sarebbero state di più per lei. Avevo imparato in fretta che essere madre significa dire no a sé stesse per poter dire poi sì ai propri figli.

    «Sto bene così, piccola. Adesso, va’ a lavarti. Dobbiamo arrivare in orario al campo estivo».

    Saltò giù dal divano e corse in bagno per lavarsi.

    Mentre lei era occupata, studiai l’avviso dell’affitto che tenevo in mano, e la mia mente cominciò a volteggiare cercando di capire cosa potevo lasciare indietro per potermi portare avanti con l’affitto.

    Non rimuginarci troppo sopra, Emery. Tutto si risolverà. Lo ha sempre fatto e sempre lo farà.

    Quella era una convinzione concreta che tenevo nelle profondità della mia mente perché ero una donna di statistiche, e i grafici erano dalla mia parte. Quando ripensavo ai momenti più difficili della mia vita, quelli in cui credevo che non ce l’avrei fatta, in qualche modo avevo fatto proprio quello: ero sopravvissuta.

    La nostra situazione momentanea non era neanche lontanamente brutta quanto ciò che mi era capitato in passato, quindi non mi sarei abbattuta; avrei continuato ad andare avanti. Non mi trovavo in una grotta buia, avevo solo un cielo coperto sopra di me.

    Un giorno, le nuvole si sarebbero diradate e il sole sarebbe tornato a splendere. Le statistiche non mentono mai, o almeno questa era la mia speranza.

    In più, c’era il conforto di sapere che il sole non se ne andava mai per davvero; semplicemente, alcuni giorni, si nascondeva. Finché le nuvole non si fossero rischiarate, avrei contato sulla musica. Alcune persone usano lo yoga o l’allenamento per schiarirsi la mente. Altre passeggiano o scrivono diari. Ma io? La mia chiave per respirare erano la musica e i testi. La musica mi parlava in un modo diverso da qualsiasi altra cosa. I testi delle canzoni mi ricordavano sempre che le mie emozioni valevano la pena di essere provate e che non ero sola nelle mie paure. Da qualche parte là fuori, qualcun altro avvertiva la mia stessa

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