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Washington Square
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E-book249 pagine3 ore

Washington Square

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Edizione integrale

È la storia di Catherine Sloper, figlia di un ricco e affermato medico di New York, che ama e crede di essere amata dall’attraente avventuriero Morris Townsend, il quale si rivelerà un cacciatore di dote. Ma è soprattutto la storia drammatica dell’inganno e dell’illusione, di cui Catherine è tragicamente vittima. Washington Square prelude al periodo culminante dell’arte di James, incentrato sul tema del denaro e su quello della rinuncia. Il denaro, infatti, mostra già in questo romanzo tutta la sua forza distruttiva e fatale, la sua capacità di corrompere l’armonia del mondo (come quella della piazza newyorkese che dà il titolo al romanzo e in cui James aveva dimorato con la famiglia), di far esplodere le qualità negative che albergano nell’uomo. Ma quest’opera è anche uno dei primi esempi – il più tangibile – del passaggio da un realismo della vita esterna a quel realismo della coscienza che è il grande contributo di James alla narrativa moderna. Dal romanzo sono stati tratti i film L’ereditiera (di William Wyler, del 1950, protagonista Olivia De Havilland) e Washington Square (di Agnieszka Holland, del 1997, con Jennifer Jason Leigh, Ben Chaplin e Albert Finney).

La signora Penniman lo guardò pensierosa un momento. «Mio caro Austin», gli domandò poi, «pensi che sia meglio essere brillante o buona?»
«Buona a che cosa?», chiese il dottore. «Non sei buona a niente se non sei brillante».
Henry James
(New York 1843-Rye 1916), uno dei più importanti e originali scrittori contemporanei, trascorse l’infanzia e l’adolescenza tra Europa e Stati Uniti, per stabilirsi poi a Londra (prima di morire prese la cittadinanza britannica). Ottenuta la fama con i suoi romanzi e racconti, volle cimentarsi con il teatro, ma l’insuccesso del suo esordio fu quasi traumatico. Ebbe allora inizio la fase “sperimentale” della sua attività letteraria, con opere intense ma di difficile comprensione. Di James la Newton Compton ha pubblicato Giro di vite, Ritratto di signora, Washington Square e la raccolta I grandi romanzi.
LinguaItaliano
Data di uscita17 set 2021
ISBN9788822761521
Washington Square
Autore

Henry James

Henry James (1843-1916) was an American author of novels, short stories, plays, and non-fiction. He spent most of his life in Europe, and much of his work regards the interactions and complexities between American and European characters. Among his works in this vein are The Portrait of a Lady (1881), The Bostonians (1886), and The Ambassadors (1903). Through his influence, James ushered in the era of American realism in literature. In his lifetime he wrote 12 plays, 112 short stories, 20 novels, and many travel and critical works. He was nominated three times for the Noble Prize in Literature.

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    Anteprima del libro

    Washington Square - Henry James

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    609

    L’Editore rimane a disposizione di eventuali aventi diritto

    che non è stato possibile identificare e contattare

    Titolo originale: Washington Square

    Traduzione di Marianna Battistella ed Emanuele Moca

    Prima edizione ebook: ottobre 2021

    © 1998 Newton & Compton editori s.r.l.

    © 2021 Newton Compton editori s.r.l.

    ISBN 978-88-227-5711-1

    www.newtoncompton.com

    Edizione elettronica a cura di Punto a Capo, Roma

    Henry James

    Washington Square

    A cura di Agostino Lombardo

    Edizione integrale

    marchio.front.tif

    Newton Compton editori

    Indice

    Capitolo primo

    Capitolo secondo

    Capitolo terzo

    Capitolo quarto

    Capitolo quinto

    Capitolo sesto

    Capitolo settimo

    Capitolo ottavo

    Capitolo nono

    Capitolo decimo

    Capitolo undicesimo

    Capitolo dodicesimo

    Capitolo tredicesimo

    Capitolo quattordicesimo

    Capitolo quindicesimo

    Capitolo sedicesimo

    Capitolo diciassettesimo

    Capitolo diciottesimo

    Capitolo diciannovesimo

    Capitolo ventesimo

    Capitolo ventunesimo

    Capitolo ventiduesimo

    Capitolo ventitreesimo

    Capitolo ventiquattresimo

    Capitolo venticinquesimo

    Capitolo ventiseiesimo

    Capitolo ventisettesimo

    Capitolo ventottesimo

    Capitolo ventinovesimo

    Capitolo trentesimo

    Capitolo trentunesimo

    Capitolo trentaduesimo

    Capitolo trentatreesimo

    Capitolo trentaquattresimo

    Capitolo trentacinquesimo

    Capitolo primo

    Durante la prima metà di questo secolo e più particolarmente nell’ultima parte di esso, viveva ed esercitava la sua professione nella città di New York un dottore che godeva in modo forse eccezionale di quella considerazione che negli Stati Uniti è sempre stata concessa ai membri più eminenti della categoria dei medici. In America questa professione è stata tenuta sempre nel massimo onore: e più felicemente che altrove si è conquistata il diritto all’appellativo di liberale. In un paese in cui, per essere considerati favorevolmente dalla società, bisogna guadagnarsi la vita, o almeno farlo credere, l’arte del curare gli ammalati è apparsa come la migliore combinazione di due riconosciute fonti di credito. Appartiene al regno della pratica, il che negli Stati Uniti è una grande raccomandazione; ed è toccata dalla luce della scienza, merito apprezzato in una comunità in cui l’amore per il sapere non è stato accompagnato sempre dall’agio e dal favore delle circostanze.

    Un elemento della stima che circondava il dottor Sloper era il perfetto equilibrio tra la sua sapienza teorica e la sua capacità pratica; egli era ciò che si può chiamare un medico dotto; nello stesso tempo le sue prescrizioni non avevano nulla di astratto: ordinava sempre di prendere qualche cosa. Quantunque lo si sentisse estremamente accurato, non era tuttavia fastidiosamente teorico, e se qualche volta illustrava le cose con un linguaggio più minuzioso di quello che potesse parere utile a un comune paziente, non andava mai così lontano (come alcuni professionisti di cui si è sentito parlare) da affidarsi alle sole dissertazioni; e dopo ogni sua visita lasciava sempre all’ammalato una inscrutabile ricetta. Vi sono dei dottori che compilano le ricette senza dare alcun chiarimento; ma egli non apparteneva nemmeno a quella categoria, che dopo tutto è quella più comune. Sarà chiaro che sto descrivendo un uomo abile; ed è proprio questa la ragione per cui il dottor Sloper era diventato una celebrità locale.

    Nell’epoca in cui ci occupiamo di lui egli aveva circa cinquant’anni, e la sua popolarità era al massimo. Era molto arguto, e passava nella migliore società di New York per un uomo di mondo, il che egli era in misura davvero sufficiente. Mi affretto a precisare, per evitare fin da ora possibili malintesi, che non era affatto un ciarlatano. Era realmente un uomo integro, integro al punto da essergli forse mancata l’opportunità di dimostrarne la completa misura; e, a parte l’ottima indole del cerchio di persone presso cui esercitava, che si gonfiavano d’orgoglio al pensiero di possedere il più brillante dottore del paese, ogni giorno dimostrava di aver diritto al talento attribuitogli dalla voce popolare. Era un osservatore, persino un filosofo, ed essere brillante era così naturale in lui e (secondo la voce popolare) così spontaneo, ch’egli non mirava mai al semplice effetto e non usava nessuno dei piccoli trucchi e artifizi degli uomini la cui reputazione è di bassa lega. Bisogna ammettere che la fortuna lo aveva favorito, e che la strada della prosperità gli si era aperta davanti. A ventisette anni aveva sposato, per amore, una graziosissima ragazza, la signorina Catherine Harrington, di New York, che, in aggiunta alle sue grazie, gli aveva portato anche una solida dote. La signora Sloper era amabile, aggraziata, garbata, elegante, e nel 1820 era stata una delle più belle ragazze della piccola ma promettente capitale che cresceva attorno alla Battery e si affacciava sulla Baia, e il cui limite superiore era segnato dai margini erbosi di Canal Street. Anche a ventisette anni la fama di Austin Sloper era già così diffusa da attenuare l’anomalia del fatto ch’era stato scelto tra una dozzina di corteggiatori da una fanciulla dell’alta società, che aveva diecimila dollari di rendita e i più incantevoli occhi dell’isola di Manhattan. Quegli occhi e alcune delle cose che li accompagnavano erano stati per circa cinque anni fonte di estrema soddisfazione per il giovane medico, che si era dimostrato un marito devoto e felice.

    Il fatto di aver sposato una donna ricca non aveva mutato la linea di vita che si era tracciato, ed egli coltivava la sua professione con un preciso proposito, come se non possedesse altre risorse che la parte del modesto patrimonio che alla morte di suo padre aveva diviso coi fratelli e le sorelle. Questo proposito non era in misura preponderante quello di far denaro: era quello di imparare e di fare qualche cosa: imparare qualche cosa di interessante, e fare qualche cosa di utile, questo era, in poche parole, il programma che si era prefisso, e di cui la circostanza di avere una moglie con una rendita non gli pareva in alcun modo che dovesse mutare la validità. Egli amava la sua professione e amava esercitare una maestria di cui era gradevolmente conscio; ed era così evidente che se non avesse fatto il dottore non avrebbe potuto fare altro, che dottore continuò ad essere, nelle migliori condizioni possibili. Naturalmente la sua agevole situazione familiare gli risparmiava un’infinità di fastidi, e il fatto che sua moglie appartenesse alla società migliore gli portava una buona quantità di quei pazienti i cui sintomi di malattie, se non sono più interessanti di quelli della gente di categoria inferiore, sono almeno più vistosamente sfoggiati. Desiderava fare esperienza, e nel corso di vent’anni ne acquisì molta. Bisogna aggiungere che questa gli arrivò sotto forme, alcune delle quali, indipendentemente dal loro intrinseco valore, la resero tutt’altro che benvenuta. Il suo primo figlio, un bambino che prometteva molto bene – come il dottore, non proclive ai facili entusiasmi, credeva fermamente – morì a tre anni, malgrado tutto ciò che la tenerezza della madre e la scienza del padre misero in opera per salvarlo. Due anni dopo la signora Sloper diede alla luce una seconda creatura, una creatura il cui sesso la rendeva, agli occhi del padre, un inadeguato sostituto del compianto primogenito, di cui egli si era ripromesso di fare un uomo meraviglioso. L’arrivo della bimba fu una delusione; ma non fu questo il peggio. Una settimana dopo la sua nascita, la giovane mamma, che si stava già rimettendo, manifestò improvvisamente dei sintomi allarmanti, e prima che fosse passata un’altra settimana, Austin Sloper era rimasto vedovo.

    Per un uomo il cui compito era quello di tenere in vita la gente, egli aveva fatto certamente ben infelice prova nella sua famiglia; e un brillante dottore che nello spazio di tre anni perde la moglie e un bambino dovrebbe essere preparato a vedere messa in dubbio o la sua abilità di medico o la sua sollecitudine di marito e di padre. Il nostro amico, tuttavia, sfuggì alla critica, cioè fu risparmiato dalla critica di tutti tranne che dalla propria, che era la più competente e la più aspra. Egli visse sotto il peso della propria censura per il resto dei suoi giorni e portò per sempre i segni di una punizione che la mano più forte che egli conoscesse gli aveva inflitto la notte che seguì la morte di sua moglie. Il mondo che, come ho detto, lo apprezzava, ebbe per lui un senso di compassione troppo forte per essere ironico; la sfortuna lo rese più interessante e lo aiutò persino a diventare il dottore di moda. Si osservò che nemmeno le famiglie dei medici potevano sfuggire a certe insidiose forme del male e che, dopo tutto, il dottor Sloper aveva perso altri pazienti oltre a quelli che ho ricordato, il che costituiva un precedente onorevole. Gli restava la bambina, e, sebbene ella non fosse ciò che aveva desiderato, si propose di ricavarne il meglio che poteva. Disponeva d’una riserva di autorità non utilizzata, di cui la bambina, nei suoi primi anni, godé largamente. Naturalmente le aveva dato il nome della sua povera mamma, e fino dalla più tenera infanzia non l’aveva chiamata altro che Catherine. Essa cresceva sana e robusta e suo padre, guardandola, si diceva spesso che, così com’era, per lo meno non aveva alcun timore di perderla. Dico così com’era perché, a dire la verità…

    Ma questa è una verità che dirò più tardi.

    Capitolo secondo

    Quando la bambina ebbe circa dieci anni, il dottore invitò sua sorella, la signora Penniman, a venire ad abitare con loro. Vi erano state soltanto due signorine Sloper, e tutte e due si erano sposate presto. La più giovane, la signora Almond, era moglie di un ricco mercante e madre di una fiorente famiglia. Molto fiorente lei stessa, era una donna graziosa, piacevole e piena di giudizio, ed era la preferita del suo illustre fratello che, in materia di donne, anche quando erano legate a lui da vincoli di parentela, era un uomo che faceva nette preferenze. Egli preferiva la signora Almond a sua sorella Lavinia, che aveva sposato un povero pastore dalla costituzione debole e dallo stile eloquente, e che, all’età di trentatré anni, era rimasta vedova – senza figli, senza fortuna, senza altro che il ricordo di una eloquenza, il cui vago sentore perdurava nella conversazione di lei. Tuttavia il fratello le aveva offerto un rifugio sotto il proprio tetto e Lavinia lo aveva accettato coll’entusiasmo di una donna che era stata costretta a trascorrere i dieci anni della sua vita coniugale nella città di Poughkeepsie. Il dottore non aveva proposto alla signora di vivere con lui indefinitamente; le aveva offerto asilo in casa sua finché ella non avesse trovato un alloggio non ammobiliato. Non è certo che la signora Penniman si sia mai messa alla ricerca di un alloggio siffatto, ma è fuori discussione che non lo trovò mai. Si sistemò col fratello e non se ne andò più, e quando Catherine raggiunse i vent’anni, zia Lavinia era ancora uno degli elementi più notevoli del suo immediato entourage. In casa del fratello la signora Penniman era rimasta, a suo dire, per prendersi cura dell’educazione della nipote. Per lo meno aveva fornito questa versione a tutti, tranne che al dottore, il quale non aveva mai chiesto delle spiegazioni che poteva divertirsi in ogni momento a inventare lui stesso. D’altra parte, sebbene la signora Penniman possedesse abbastanza faccia tosta, non tentava, per ragioni indefinibili, di apparire al cospetto del fratello come un’arca di scienza. Non aveva molto spirito, ma ne aveva abbastanza da non commettere un errore simile, e suo fratello, da parte sua, ne aveva abbastanza da perdonarla, nella sua situazione, per essergli stata a carico durante una parte considerevole della sua esistenza. Così egli accettò tacitamente il parere, tacitamente espresso dalla signora Penniman, che era assolutamente necessario per la povera orfanella avere accanto a sé una donna brillante. Il suo assenso non poteva essere che tacito, poiché certo egli non era mai stato abbagliato dalla luce intellettuale di sua sorella. Ad eccezione di quando si era innamorato di Catherine Harrington, egli non era mai stato veramente abbagliato da nessuna qualità femminile, e sebbene fosse in un certo senso ciò che si suol dire un medico per signore, la sua opinione privata sul sesso debole non era molto alta. Egli ne considerava le complicazioni più una curiosità che un oggetto edificante, e aveva un concetto della bellezza della ragione che trovava, nel complesso, scarsa soddisfazione in ciò che osservava nelle sue pazienti. Sua moglie era stata una donna ragionevole, ma era una rara eccezione; fra tutte le cose di cui egli era sicuro, questa era forse la principale. Naturalmente tale convinzione non riusciva ad addolcire o a far cessare la sua vedovanza, e metteva un freno alle sue pretese circa le possibilità di Catherine e le capacità della signora Penniman. Nondimeno il dottore dopo sei mesi accettò la permanente presenza di sua sorella come un fatto compiuto, e col crescere di Catherine si accorse che vi erano effettivamente delle buone ragioni perché ella avesse permanentemente al fianco una compagna del suo stesso imperfetto sesso. Era estremamente cortese con Lavinia, scrupolosamente, formalmente cortese; ed essa non lo aveva visto adirato che una sola volta nella sua vita: cioè quando aveva perso la calma durante una discussione teologica col suo defunto marito. Con lei egli non discuteva mai di teologia; veramente non discuteva di niente, e si accontentava di esprimere, chiaramente, in forma di perentorio ultimatum, i suoi desideri a proposito di Catherine.

    Una volta, la bambina aveva a quell’epoca dodici anni, egli disse:

    «Cerca di farne una donna brillante, Lavinia; non vorrei che fosse una donna insipida».

    La signora Penniman lo guardò pensierosa un momento.

    «Mio caro Austin», gli domandò poi, «pensi che sia meglio essere brillante o buona?»

    «Buona a che cosa?», chiese il dottore. «Non sei buona a niente se non sei brillante».

    La signora Penniman non trovò nulla da ribattere a questa asserzione; forse pensò che se essa si rendeva molto utile in questo mondo, ciò era dovuto alla sua versatilità.

    «Naturalmente desidero che Catherine sia buona», disse il dottore il giorno dopo, «ma questo non vuol dire che sarà meno virtuosa se non sarà stupida. Non ho paura che diventi cattiva; non ci sarà mai della malvagità nel suo carattere. Essa è buona come il buon pane, come dicono i francesi, ma fra sei anni non voglio paragonarla ancora al buon pane e burro».

    «Hai paura che sia insipida? Caro fratello mio, sono io a fornirle il burro, e quindi non devi aver paura!», disse la signora Penniman, che s’era incaricata di rifinire la bambina. E cominciò a darle lezioni di pianoforte, perché Catherine dimostrava un certo talento per la musica, e ad accompagnarla alla scuola di ballo, dove invece, bisogna confessarlo, la ragazza faceva una figura modesta.

    La signora Penniman era una donna alta, magra, bionda, alquanto sciupata e sfiorita, di disposizione amabile, di modi altamente educati, con un certo gusto per la letteratura amena e con qualcosa di scioccamente indiretto e obliquo nel carattere. Era romantica; era sentimentale; aveva un debole per i piccoli segreti e i piccoli misteri, una passione molto innocente del resto, poiché i suoi segreti erano finora stati inconsistenti come un guscio d’uovo. Non era del tutto sincera, ma le conseguenze di questo difetto non erano state gravi, perché ella non aveva mai niente da nascondere. Le sarebbe piaciuto avere un innamorato e potergli scrivere, con un nome fittizio, delle lettere da lasciare in qualche bottega; ma devo confessare che la sua immaginazione non portò tale intimità oltre questo punto. La signora Penniman non aveva mai avuto un innamorato, ma suo fratello, che era molto perspicace, aveva compreso questa sua disposizione.

    Quando Catherine avrà diciassette anni, diceva fra sé, Lavinia cercherà di persuaderla che qualche giovanotto coi baffi si sarà innamorato di lei. Non sarà vero: nessun giovanotto, con baffi o senza, si accenderà mai d’amore per Catherine, ma Lavinia lo crederà, gliene parlerà e forse, se la sua passione per le operazioni clandestine non avrà il sopravvento, ne parlerà anche a me. Catherine non ci baderà, fortunatamente per la sua pace; la mia povera Catherine non è romantica.

    Essa era una bimba piena di salute, senza alcuna traccia della bellezza di sua madre. Non era brutta; aveva semplicemente un aspetto dolce, opaco, scialbo. Il più che si poteva dire di lei era che aveva un visetto grazioso, e sebbene fosse un buon partito, nessuno aveva mai pensato di considerarla una bellezza. L’opinione di suo padre sulla sua purezza morale era abbondantemente giustificata: lei era eccezionalmente, imperturbabilmente buona; era affettuosa, docile, ubbidiente e molto sincera. Nei suoi anni più giovani era stata una ragazzina vivace e, sebbene sia poco romantico definire in questi termini un’eroina da romanzo, devo aggiungere che era stata ingorda e golosa. Che io sappia, non rubò mai la marmellata dalla dispensa, ma impiegava tutti i soldini che riceveva nell’acquisto di dolci e ghiottonerie.

    A tal proposito, comunque, un atteggiamento critico non s’accorderebbe con un veritiero rendiconto degli annali giovanili di qualsiasi biografo.

    Catherine decisamente non era un’aquila, non dimostrava prontezza nello studio né, in verità, in nessun’altra cosa. Non che fosse deficiente, ma si accontentava di imparare quel tanto che le evitava di sfigurare nella conversazione coi suoi conoscenti – tra i quali, tuttavia, occupava un posto di secondaria importanza. Si sa che a New York anche una ragazza può occupare un posto eminente. Catherine, che era estremamente modesta, non desiderava brillare, e nella maggior parte delle riunioni di società, la si sarebbe potuta trovare confusa nello sfondo. Amava moltissimo suo padre e moltissimo lo temeva; lo considerava l’uomo più intelligente, più bello e più famoso del mondo. La poverina trovava una così completa soddisfazione nel volergli bene, che il lieve senso di timore che si mescolava al suo affetto filiale, invece di attutirlo glielo rendeva più caro. Il suo più profondo desiderio era di fargli piacere e il suo concetto della felicità era

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