Scopri milioni di eBook, audiolibri e tanto altro ancora con una prova gratuita

Solo $11.99/mese al termine del periodo di prova. Cancella quando vuoi.

I ladri, i furti e le truffe più celebri della storia
I ladri, i furti e le truffe più celebri della storia
I ladri, i furti e le truffe più celebri della storia
E-book605 pagine9 ore

I ladri, i furti e le truffe più celebri della storia

Valutazione: 0 su 5 stelle

()

Leggi anteprima

Info su questo ebook

Da Barbanera a Bonnie e Clyde, da Jesse James ad Arsenio Lupin: i personaggi e i colpi più famosi di sempre

Il furto esiste da quando esiste l’uomo. Che si tratti di rubare del cibo per mera sopravvivenza o di una truffa architettata con espedienti raffinati, la società ha da sempre fatto i conti con crimini di questo tipo, tant’è vero che la figura del ladro, nelle sue varie accezioni, è entrata prepotentemente a far parte dell’immaginario culturale e letterario di tutto il mondo. Alessandro Moriccioni ripercorre la storia del furto nelle varie epoche storiche, raccontandone l’evoluzione, descrivendo i colpi più celebri ed eclatanti e tracciando i ritratti dei ladri e dei truffatori che sono entrati di diritto nella storia del crimine mondiale.
Dai briganti dell’antica Roma a Thomas Blood, che rubò i gioielli della corona inglese nel 1671; dal famigerato Mucchio Selvaggio che imperversava nel West al pirata Edward Barbanera; dalle fi gure leggendarie e letterarie come Robin Hood e Arsenio Lupin ai moderni hacker informatici: uno straordinario excursus lungo la storia di un crimine vecchio quanto il mondo.

Dagli assalti alle diligenze alle truffe informatiche: i ladri attraverso le epoche

John Nevison
Louis Mandrin
Edward Barbanera
Robin Hood
Jesse James
Charles Ponzi
Frank Abagnale
Carl Gugasian
Alessandro Moriccioni
Nato a Roma nel 1980, è scrittore e divulgatore. Ha scritto C’era una volta. Riti, miti e vicende storiche di tutto il mondo; Pionieri degli oceani. Viaggi intorno al mondo dall’alba dell’uomo a Cristoforo Colombo; Behind the Museum. La vita segreta dei musei. Ospite di diverse trasmissioni televisive, ha condotto per due stagioni il programma online Terra Incognita ed è stato inviato della trasmissione Nero Toscana. La Newton Compton ha pubblicato Le grandi dinastie che hanno cambiato l’Italia, I pittori maledetti e I ladri, i furti e le truffe più celebri della storia.
LinguaItaliano
Data di uscita16 giu 2023
ISBN9788822767752
I ladri, i furti e le truffe più celebri della storia

Correlato a I ladri, i furti e le truffe più celebri della storia

Titoli di questa serie (100)

Visualizza altri

Ebook correlati

True crime per voi

Visualizza altri

Articoli correlati

Recensioni su I ladri, i furti e le truffe più celebri della storia

Valutazione: 0 su 5 stelle
0 valutazioni

0 valutazioni0 recensioni

Cosa ne pensi?

Tocca per valutare

La recensione deve contenere almeno 10 parole

    Anteprima del libro

    I ladri, i furti e le truffe più celebri della storia - Alessandro Moriccioni

    Introduzione

    Qualche millennio fa, Mosè fu invitato da Dio a salire, tra fulmini e foschia, sul monte Sinai per ricevere le leggi imposte al suo popolo. Conoscete tutti questa storia, Dio scrisse il Decalogo, cioè i Dieci Comandamenti, su due lastre di pietra. Solo che le prime furono fatte a pezzi dallo stesso Mosè quando, scendendo dalla montagna, si era accorto che il popolo aveva deciso di spassarsela in sua assenza con balli e canti attorno a un lucido vitello d’oro. Piuttosto risentito per questo peccato di idolatria obbligò un gruppo di fedelissimi a compiere un massacro di congiunti per punirli del loro delitto, e, per questa prova di coraggio, da quel giorno essi furono consacrati al Signore come una sorta di guardiani della fede. Poi Mosè si preoccupò di tornare sulla montagna per riferire a Dio che giustizia era fatta e che si aspettava che il suo popolo venisse perdonato dall’Altissimo. Dio mugugnò un po’ ma poi accettò di redigere nuovamente altre due tavole di pietra sulle quali scrisse, tra le varie cose, che non si poteva rubare. Almeno questo è quanto ci racconta la Bibbia, il libro più venduto della storia. In genere, da un punto di vista diciamo religioso, queste sono le uniche nozioni di cui in maggior parte quasi tutti disponiamo sulla questione.

    Ma la Bibbia rivela altre informazioni interessanti sui vari divieti e doveri elencati in quei dieci essenziali passaggi. A noi ne interessa solo uno, quel non rubare perentorio che il Signore aveva scritto di suo pugno sulle lastre di pietra affidate a Mosè. A quanto si legge nel libro sacro per eccellenza, Dio fu piuttosto preciso sulla questione, proponendo una serie di linee guida a cui attenersi. Per esempio: «Se qualcuno dà ad un altro dei danari, o degli oggetti da custodire, ed essi vengano rubati dalla casa di questo, se il ladro viene trovato, restituirà il doppio. Ma se il ladro non si trova, il padrone della casa comparirà davanti a Dio, e giurerà che egli non ha messa la mano su la roba del suo prossimo»1. E ancora, «In ogni caso di appropriazione, sia d’un bove, di un asino, di una pecora, di un vestito, o di qualsiasi cosa perduta, di cui uno dica: Sì, è questa, la causa d’ambedue le parti sarà portata davanti a Dio. Chi sarà condannato da Dio, pagherà il doppio al suo amico»2.

    Oggi, se un ladro vi entra in casa e lo fate fuori finite in gattabuia, o quantomeno in guai seri, indipendentemente dall’ora del giorno o della notte in cui avete commesso il fatto; ma al tempo delle tavole della legge era un tantino diverso. Infatti «Se il ladro, di notte, è colto nell’atto di scassinare ed è percosso e muore, non vi è delitto di sangue; ma se il sole s’era già levato, vi è delitto di sangue». A ogni modo, la legge stabiliva che: «Il ladro deve del tutto indennizzare; se non ha di che, sia venduto per il suo furto. Se il furto, bove, asino, o agnello che sia, gli è trovato vivo in mano, restituisca il doppio»3.

    Dal punto di vista giuridico moderno queste disposizioni risultano come minimo rozze e sbrigative, tuttavia, rispetto alla classica legge del taglione, si possono certamente considerare più umane. Per esempio: «Se qualcuno ruba un bove o una pecora, e li ammazza o li vende, restituirà cinque bovi per ogni bove, e quattro pecore per ogni pecora»4. Il testo da cui sono tratti questi brani, cioè l’Esodo, è molto antico e fa riferimento a un tempo in cui buoi, pecore, asini e altri animali rappresentavano la fonte di maggior ricchezza di un individuo o di una famiglia, dal momento che producevano tutto ciò di cui essi avevano bisogno per sfamarsi, vestirsi, muoversi e commerciare. Ecco perché la Bibbia insiste così puntigliosamente su questi beni e non su altri. Tuttavia il concetto è piuttosto chiaro, Dio non ti farà tagliare le mani, è vero, ma la roba degli altri non si tocca lo stesso.

    Ma perché l’uomo ruba e ha sempre rubato?

    Uno dei motivi per cui è nato il furto come atto contrario alle regole sociali è sicuramente il bisogno, la necessità di sfamarsi, di coprirsi o altro, una necessità che può essere dovuta alla povertà e all’indigenza. Tuttavia questo non è sempre vero. L’essere umano è un animale complesso che può sviluppare forme patologiche di vario genere non ancora completamente spiegate che, a quanto pare, sono legate al suo sviluppo. Non è poi così raro imbattersi nei cosiddetti cleptomani che rubano non per necessità e nemmeno per avidità o smania di possesso. La cleptomania è una tendenza irrefrenabile che spinge un soggetto ad appropriarsi delle cose altrui per il semplice piacere che egli trae dall’atto stesso, come se si sentisse gratificato nel compierlo. Addirittura, «In alcuni casi la cleptomania ha un carattere ossessivo per cui il soggetto si trova in preda a un conflitto fra l’impulso a rubare e una tendenza altrettanto forte che lo contrasta, cosicché il furto provoca nel contempo sollievo e senso di colpa»5, nelle personalità psicopatiche, quelle che presentano disturbi patologici, «che hanno uno scarso senso morale, il furto non produce apparentemente sentimenti di consapevolezza»6. Sorprendentemente, a differenza di quanto si potrebbe immaginare, i comportamenti cleptomani si manifestano più di frequente nelle donne, anche se non ne sono esenti gli adolescenti. Questo perché, secondo la scienza, l’oggetto sottratto alla proprietà altrui, rappresenterebbe simbolicamente il latte, il pene o addirittura le feci in quanto le donne e i ragazzi non vedrebbero l’ora di ottenere il magico potere sociale dell’organo maschile. In effetti, la psicologia ha sempre cercato di interpretare e comprendere le derivazioni di questo curioso fenomeno, c’è chi, come lo psicanalista Otto Fenichel, crede che l’atto di impossessarsi di un oggetto sia un modo per combattere inconsciamente la bassa autostima o la mancanza di affetto; chi, come lo psichiatra Karl Abraham e lo psicanalista Franz Alexander, che l’impulso inarrestabile dei cleptomani abbia a che fare con la «frustrazione subita durante il periodo dell’allattamento e consiste in una rivincita sul rifiuto del seno da parte della madre»7.

    Quale che sia il motivo che spinge un cleptomane a fare la spesa gratis, bisogna ammettere che il detto popolare L’occasione fa l’uomo ladro non necessita affatto di una patologia per essere considerato una grande verità. Basta aprire un semplice giornale per verificarne l’esattezza. Scorrendo le pagine del quotidiano sarà difficile che non vi capiti di leggere di un qualche scandalo di appropriazione indebita, di fondi fatti sparire a danno di qualche risparmiatore, di una grossa truffa o di una rapina in banca. Non passa giorno in cui non si inciampi in notizie di questo genere annunciate dal telegiornale, lanciate da una testata online o postate sui social.

    Facciamo qualche esempio. Nel 2012 venne fuori che presso l’antica biblioteca dei Girolamini di Napoli qualcuno aveva sottratto con una certa nonchalance la bellezza di duemila libroni. Sembra che l’allora direttore, non faccio nomi ma la vicenda è di dominio pubblico, avesse una grande passione per le antichità, tale da portarsele a casa, magari per il piacere di godersi una personale sindrome di Stendhal comodamente stravaccato sul divano. Nel 2020 è stato presentato al pubblico un documentario intitolato Il ladro di libri, dedicato alla curiosa vicenda, da cui si evince chiaramente l’inclinazione al furto e alla fregatura dell’assoluto protagonista; infatti di nobili imprese il nostro ne aveva compiute altre, una su tutte la falsificazione di due editio princeps dello scienziato Galileo Galilei8.

    Se scorrete la pagina Facebook della trasmissione di Rai 3 Chi l’ha visto? scoprirete decine di post con filmati di telecamere a circuito chiuso in cui vengono mostrati i momenti salienti di furti e rapine a danno di vari soggetti. La domanda della redazione agli spettatori è quasi sempre la stessa: «Ci sono altre vittime?»⁹, come a dire Se sei una di queste segnalacelo. Rapine, furti seriali, truffe e una serie di altri reati correlati incredibilmente accadono ogni giorno sotto l’occhio vigile delle telecamere di sicurezza che più di una volta hanno permesso alle forze dell’ordine di acciuffare il malvivente, o i malviventi, di turno.

    Il 2021, oltre a essere stato il secondo anno della pandemia di Covid-19, sembra sia stato anche quello dei furti di gratta e vinci. Per esempio, un tizio entra in un alimentari e se ne va con un mazzetto di biglietti non pagati solo per grattarseli tutti sul tavolo della cucina (senza risultato alcuno, per giunta); un altro ne ruba una certa quantità in un bar e poi va a schiantarsi contro l’auto di un’anziana signora durante la fuga e finisce arrestato; mentre il più famoso di tutti è quello che ha sfilato il biglietto vincente, ben 500.000 euro, dalle mani di una donna di sessantanove anni pensando di potersela filare col primo aereo disponibile10. Come sappiamo, nessuno di questi ladruncoli è riuscito a tenersi il malloppo.

    Quindi non si tratta di eventi rari e certamente nessuno può dirsi al sicuro di fronte a questo fenomeno.

    Prima di intraprendere il nostro viaggio alla scoperta della storia dell’Homo furem è necessario fare chiarezza sull’oggetto della nostra indagine. Tutti sappiamo cosa siano un furto, una falsificazione oppure una truffa, e doveva averne cognizione anche Mosè quando scalò il monte Sinai per ritirare le tavole della legge, ma un ripassino di diritto penale for dummies non ci farà certamente male. Quindi domandiamocelo anche se lo sappiamo già, giusto per sottrarci a qualsiasi dubbio: In cosa consiste il furto per la legge?.

    Il termine furto è un sostantivo maschile che proviene dal latino furtum, ovvero una derivazione di fur o furis, ladro, originatosi nel XIII secolo. Come riporta l’Enciclopedia Treccani online, il furto è un «Delitto commesso da chiunque si impossessa della cosa mobile altrui sottraendola a chi la detiene, al fine di trarne profitto. Disciplinato dall’art. 624, il furto appartiene alla categoria dei delitti contro il patrimonio mediante violenza alle cose o alle persone»¹¹. Si tratta quindi di un illecito piuttosto mal visto dalla società. Si può rubare in tanti modi, per esempio forzando una porta e svaligiando una casa, oppure scippando un’anziana per strada. In realtà ogni azione ha un suo ambito legale corrispettivo, delle sanzioni e delle definizioni a parte. Ma per semplificare e non complicarci troppo la vita, abbiamo deciso di occuparci solo di alcuni reati specifici raccontando quelle storie che possono essere comprese in una sorta di categoria generica del prendere senza chiedere, del gabbare il prossimo e cose così. In questo libro narreremo una storia diversa dal solito, fatta di furti, rapine, truffe e falsificazioni eclatanti. Per quanto mi riguarda, e credo che si possa affermare a livello di immaginario comune, tutti questi atti esecrabili fanno parte dell’arte della fregatura. Non per niente il termine fregare, nato nel XIV secolo, deriva dal latino frĭcare che tra i suoi significati – tra cui persino avere un rapporto sessuale – indica l’inganno, la truffa, il «farla in barba a qualcuno»¹² e ha anche il significato di rubare.

    Apriamo le danze, dunque, e immergiamoci in questa nuova avventura. Saranno molti i delinquenti che ci affiancheranno in questo viaggio, dunque, come si legge sui cartelli esposti sugli autobus: «Occhio al portafogli», mi raccomando! E non sto facendo dell’ironia; pensate che, fino a qualche anno fa, una delle mascotte del servizio pubblico romano era proprio un ladro mascherato chiamato Rubicchio, tanto il problema dei furti sui mezzi di trasporto era una piaga13…

    1 Esodo, 22,6, Edizioni Paoline, Roma 1963.

    2 Ivi, 22,8.

    3 Ivi, 22,1.

    4 Ivi, 21,37.

    5 Umberto Galimberti, Enciclopedia di psicologia, Garzanti, Torino 1999, p. 195.

    6 Ibidem.

    7 Ibidem.

    8 Biblioteca dei Girolamini e i libri rubati: un viaggio (incredibile) tra Borges e Napoli, in «Corriere della Sera», edizione online, 15 dicembre 2020. Articolo consultabile al link: https://video.corriere.it/cultura/borges-napoli-libri-rubati/f0ee811e-3e4b-11eb-9065-1ec87c08befd.

    9 Vedi la pagina ufficiale della trasmissione Chi l’ha visto?: www.facebook.com/chilhavisto/.

    10 Rubò il gratta e vinci, non era capace di ‘intendere e volere’, Ansa, 7 febbraio 2022. Articolo consultabile al link:

    www.ansa.it/campania/notizie/2022/02/07/furto-gratta-vinci-parziale-incapacita-intendere-e-volere_1839772c-10c0-492b-9f23-f662a36723e0.html.

    11 https://www.treccani.it/enciclopedia/furto/.

    12 https://www.treccani.it/vocabolario/fregare/.

    13 Umberto Croppi, Rubicchio: è un ladro la mascotte dell’azienda dei trasporti di Roma!, Huffington Post, 30 settembre 2014. Articolo consultabile al link: www.huffingtonpost.it/umberto-croppi/rubicchio-mascotte-atac_b_5639404.html.

    Ladri, briganti, fuorilegge e pirati dell’Antica Roma

    Ai tempi dell’impero romano tutti sapevano che non era saggio uscire di notte. Decimo Giunio Giovenale, un poeta satirico romano, ironizzava, e neanche tanto, che sarebbe stato meglio redigere un testamento prima di affrontare il buio delle strade brulicanti di creature della notte. Per creature intendo ladri, assassini e criminali vari. Nella Satira III descriveva in modo divertente tutta una serie di accidenti che potevano capitare gironzolando per Roma, tra cui il finire derubato e malmenato o, peggio, sgozzato per le vie della città. «Se ti rechi a cena senza aver fatto testamento», scriveva Giovenale, «potresti esser considerato uno sciocco ed uno sconsiderato (non pensando di poter subire) un improvviso incidente: è in agguato la morte, da ognuna di quelle finestre aperte (da cui) osservano il tuo passaggio. Perciò esprimi una speranza ed una pietosa preghiera, affinché si contentino di versarti addosso solo il contenuto dei lor catini»¹⁴.

    E ancora poco più avanti: «Nondimeno non c’è da aver paura sol di questo; infatti, (una volta che) le case (son) chiuse, e dopo che ovunque gl’ingressi di tutte le taverne ormai silenziose sono assicurati saldamente dalle catene, spunta chi ti deruba (d’ogni cosa)»¹⁵.

    Cosa potesse accadere a quei tempi al folle che avesse osato percorrere le strade notturne della Città Eterna lo racconta vividamente in una ricostruzione Alberto Angela nel suo Una giornata nell’antica Roma:

    A lato del tempio si apre un vicolo molto stretto e buio, e ci addentriamo. […] Di colpo inciampiamo contro qualcosa. Sembra un sacco contenente stracci e bastoni sporgenti. Cosa può essere? Chi lo ha buttato qui? Ci abbassiamo per capire meglio […]. I nostri occhi cominciano ad abituarsi alla semioscurità e progressivamente dal buio emerge un volto, legnoso, con le orbite profondamente scavate, il colore innaturale… È un cadavere! […] Ora riusciamo a vedere meglio e compiendo un ultimo sforzo gli tocchiamo il braccio: la tunica è di buona fattura, segno che era un benestante, forse non un ricco ma qualcuno che aveva mezzi. Ha un dito mozzato: gli hanno portato via un anello d’oro. Probabilmente tutto è accaduto di notte. […] Quest’uomo forse tornava a casa da un banchetto, da un incontro galante, o forse era ubriaco. […] Il suo errore fatale è stato quello di camminare da solo. Nel buio della strada è stato aggredito, […] il suo assassino lo ha finito e spogliato dei suoi averi…¹⁶

    Certo, la scena descritta è frutto della fantasia dell’autore, ma si basa su quanto narrano le fonti e delinea certamente una realtà terrificante. Erano tempi difficili, la luce artificiale dei lampioni non esisteva e Roma, oltre a essere popolosa, era anche una città piuttosto grande. Nell’oscurità dei vicoli poteva succedere di tutto e si era molto, molto fortunati se ci si imbatteva in una pattuglia di vigilantes proprio nel momento del bisogno. Per questo motivo era fortemente sconsigliato, diciamo così, uscire da soli, senza una scorta e senza alcun genere di protezione. Chiunque si recasse a un banchetto serale tornava a casa con le sue guardie e i suoi servitori. Chi non poteva permetterselo semplicemente evitava di mettere il naso fuori casa dopo il tramonto. Tutte queste precauzioni chiaramente non valevano per i malintenzionati e per quanti, come il tizio del racconto di Angela, erano ubriachi o fuori di testa.

    Una soluzione al problema

    La situazione della capitale imperiale era forse più complessa e grave che nelle altre città, ma in fin dei conti tutti avevano gli stessi problemi. Anzi, in alcune zone pare si fossero formate delle comunità, passatemi il termine, dove abbondavano i ladri e i malviventi che poi infestavano le città. Si racconta, per esempio, che nella zona di La Verna, in Umbria, dove oggi sorge il santuario francescano della Verna, vi fosse una sorta di punto di incontro nel bosco un tempo sacro alla dea Laverna, un’antica divinità latina degli inferi poi passata a far parte del pantheon romano e che non a caso era la dea protettrice dei ladri¹⁷. Come racconta uno storico francescano del Seicento, padre Salvatore Vitale, il luogo era «frequentato da molti crassatori e ladri che stavano dentro al folto bosco che lo veste; e spesse, profonde ed orrende caverne e burroni, dove sicuri dimoravano per spogliare e predare li viandanti […]»¹⁸.

    Dunque, sotto le fronde, nascosto dalla fitta vegetazione, avveniva il conciliabolo di quei reietti che confabulavano dei propri illeciti e si dividevano il bottino.

    Sebbene spesso la situazione nelle strade fosse fuori controllo, non esisteva a Roma o in altre città un fenomeno di criminalità organizzata vera e propria; ognuno agiva per sé e non sembra esistano riferimenti nelle fonti che indichino il contrario. Esistevano tuttavia le bande armate, i banditi e i fuorilegge; ladri assassini di cui si conserva ancora qualche memoria.

    Fu Augusto a proporre una soluzione al problema della pericolosità nelle strade. Egli impose, infatti, il divieto di portare con sé delle armi se non si era autorizzati ed essere beccati anche solo con un coltello rappresentava una grave violazione di quella che prese il nome di Lex iulia de vi publica et privata¹⁹. In effetti, in epoca repubblicana l’abitudine di portarsi dietro un’arma come assicurazione sulla vita era piuttosto diffusa, ma quando i tempi bui passarono e le cose si appianarono questa necessità venne meno. Per cui, grazie ad Augusto, si finì per fare a botte e a scambiarsi randellate nei vicoli cittadini col risultato di avere un maggior numero di pestati a sangue e un minor numero di trapassati.

    È interessante riportare un dato, uno solo dei 328²⁰ scheletri rinvenuti a Ercolano era armato il giorno che il Vesuvio decise di eruttare. A quanto pare si trattava di un soldato stranamente armato di tutto punto che si portava dietro una borsa stracolma di monete d’oro e d’argento. Se si sia trattato di uno sciacallo che aveva depredato le case ormai vuote dei fuggiaschi, oppure di un militare che non intendeva salutare due anni di stipendio non lo sapremo mai. Una cosa è certa, morì con tutti gli altri²¹.

    Ladri di terra

    Qualsiasi sia il racconto della storia che si intende fare, più si va indietro nel tempo maggiormente risulta arduo scovare nomi, volti ed eventi specifici riguardanti la gente comune, ovvero quanto accaduto a coloro che non hanno lasciato una traccia evidente, se non fugace. È vero, la storiografia criminale è ricca di personaggi famosi, ma quelli più antichi sono tratteggiati in fonti e cronache spesso lacunose, imprecise, propagandistiche, romanzate e in tanti casi avvolte da un alone fantastico e leggendario impossibile da asportare. Solo di recente la criminalità è divenuta oggetto di cronaca specifica a scopo di informazione.

    Il ladruncolo in genere è un uomo (o una donna) comune, del popolo, di cui è ricordata l’esistenza solo se questi ha in qualche modo rappresentato un pericolo per la società o per le istituzioni, per esempio quando un brigante con la sua banda iniziavano ad assalire i viandanti un po’ troppo spesso. Banditi, briganti e rivoltosi vari potevano essere fonte di grande fastidio, e, se eludevano a lungo la giustizia, di vero imbarazzo per quanti avevano il dovere di far rispettare la legge.

    Capiterà in questo libro di utilizzare come sinonimi termini come fuorilegge, bandito, brigante, ladro, rapinatore, ecc., anche se non sempre lo sono, e lo faremo per comodità. Il termine brigante, per esempio, derivava da Briganzia o Brigantia, una dea celtica venerata dai brigantes, un antico popolo della Gran Bretagna, raffigurata con elmo, lancia e globo in mano²², a cui si raccomandavano sia i soldati che i fuorilegge. Il fenomeno del brigantaggio, ovvero l’associazione di più individui in una banda armata che assaliva e rapinava gruppi di persone poco numerosi, rappresentava una piaga per i romani e fu combattuto strenuamente. Anche perché, in genere, le bande non si limitavano a saccheggiare, depredare e derubare le loro povere vittime, ma ne facevano il capro espiatorio della loro impossibilità di combattere l’autorità costituita e le ingiustizie sociali, mandandole all’altro mondo senza troppe remore.

    Banditi, ladroni e fuorilegge di Roma

    Anche recentemente, ai nostri giorni, un certo Seleuro, detto figlio dell’Etna, è stato condotto a Roma, perché si era messo a capo di una banda armata e per lungo tempo aveva invaso le regioni attorno all’Etna con frequenti incursioni. Io stesso l’ho visto nel Foro, nel corso di un combattimento di gladiatori, sbranato dalle bestie feroci; l’avevano posto su un palco, che doveva rappresentare l’Etna e che fu subito distrutto e fatto cadere. Seleuro stesso precipitò così nelle gabbie dove erano bestie feroci, gabbie facili a rompersi e che erano state appositamente preparate sotto il palco²³.

    Strabone scrisse queste parole sul suo Geografia affermando di aver assistito di persona al supplizio inaspettato di un bandito siciliano. Seleuro era un poveraccio che aveva avuto l’ardire di sfidare l’autorità iniziando a razziare città e campagne all’ombra del vulcano siculo. Poi un giorno, dopo tante ruberie, qualcuno riuscì ad acchiapparlo. A quanto pare, il prigioniero fu invitato ad assistere a un combattimento gladiatorio, fu fatto accomodare su di un palco intitolato al cratere di casa sua e poi dato in pasto a belve feroci che lo attaccarono non appena la sua postazione fu fatta crollare senza preavviso. Lo scherzetto deve aver divertito molto la folla che assisteva agli scontri dei gladiatori ed è probabile che sia stato gradito persino all’autore del brano che, a quanto pare, era piuttosto filoromano; perché, come scrive Ester Ragazzo in La Sicilia nella Geografia di Strabone: «Strabone presenta il ruolo civilizzatore e liberatore dei Romani: essi si erano impegnati in Sicilia attivamente, con atti punitivi di cui egli stesso è testimone, a restituire al territorio dell’entroterra siciliano la pace rispetto ai numerosi eventi di rivolte che tanto spesso vi si sviluppavano»24. Di certo, quando si trattava di farla pagare ai nemici dello Stato i romani non erano secondi a nessuno.

    Una delle patate più bollenti tra i ladri e i banditi che fecero vedere i sorci verdi agli imperatori fu certamente il tipo che si faceva chiamare Bulla Felix. Bulla era un assiduo frequentatore della via Appia che spazzolava con la sua banda di circa seicento elementi, alla faccia di Settimio Severo, un imperatore che non era assolutamente rinomato per la sua magnanimità. Fu forse per contrastare la figura negativa di Severo che il brigante si fece chiamare in quel modo curioso. Per bulla, infatti, s’intende una specie di ciondolo che fungeva da amuleto e che all’epoca si faceva indossare ai bambini fino ai sedici anni. Felix era invece l’appellativo dei generali dei tempi di Silla; venne adottato anche da Commodo, sottintendendo che un capo fortunato era anche in grado di dispensare felicità a coloro i quali gli stavano intorno. È possibile, dunque, che indicando il bandito come Bulla Felix si sia voluto creare una sorta di antagonista buono all’imperatore cattivo. È infatti lo storico greco Dione Cassio Cocceiano, senatore e console, autore della Storia romana, a narrarci la maggior parte dei dettagli di questa storia e a presentarci una sorta di Robin Hood ante litteram che si ribella per via delle ingenti tasse che gravano sul popolo.

    È possibile che quanti lo seguivano fossero schiavi e liberti unitisi per far fronte alla situazione che si era creata dopo la morte di Commodo e l’avvento di Settimio Severo a cui era seguita una sanguinosa guerra civile. Tra quanti si unirono alle fila di Bulla Felix ci sarebbero stati un buon numero di espropriati, che avevano visto i propri averi confiscati durante la guerra, e di ex pretoriani, i quali non potevano più esercitare il loro mestiere perché estromessi dall’imperatore. Sembra, inoltre, che lo stesso Bulla non fosse un pezzente ignorante e disperato, essendo stato educato alla filosofia e alla legge romana.

    Esattamente come il leggendario Robin Hood di epoca medievale, Bulla si ribellò al sistema di corruzione e vessazione messo in piedi sotto l’egida di Settimio Severo che poi inviò i suoi uomini all’inseguimento dei briganti, i quali operarono con il pugno di ferro sulla popolazione locale per estorcere informazioni sui banditi. Nonostante questo, l’opera di redistribuzione delle ricchezze effettuata da Bulla, che toglieva ai più abbienti per donare ai disgraziati, fece sì che la gente comune rischiasse la pelle pur di non rivelarne gli spostamenti e i nascondigli.

    Sfortunatamente per lui, dopo un paio d’anni fu tradito da un’amante minacciata da un tribuno che era stato minacciato a sua volta dall’imperatore, spazientito dalla situazione imbarazzante di non riuscire a catturarlo. Bulla Felix fu allora arrestato mentre schiacciava un pisolino nella sua grotta preferita e poi interrogato prima di finire in pasto alle belve feroci come prevedeva la legge romana. A quanto sembra, durante l’interrogatorio, il prefetto volle sapere perché Bulla avesse scelto la via del crimine, tuttavia questi gli rispose per le rime con un’altra domanda del tipo «E tu perché fai il prefetto?». Con ciò voleva dimostrargli che non era poi così diverso da lui.

    Come in tutte le storie di banditismo che si rispettino, anche attorno alla figura di Bulla Felix sono sorte delle leggende divertenti. Si racconta che due suoi uomini fossero finiti nei guai dopo essere stati arrestati e che stessero attendendo di essere scannati dalle bestie come era consuetudine all’epoca. Bulla allora, vestito come il governatore e recatosi dove erano detenuti, li fece scarcerare asserendo di averne bisogno per realizzare dei lavori che solo uomini con quelle caratteristiche avrebbero potuto eseguire. In un altro caso Bulla si divertì a adescare un centurione facendolo cadere in trappola dopo avergli confidato il luogo in cui i briganti erano soliti nascondersi. Convinto che quella fosse la grande occasione della sua vita per ottenere chissà quali onori, il soldato si recò sul posto indicato per catturare il famigerato fuorilegge e cadde nell’inganno con tutte le scarpe. Bulla si burlò di lui processandolo e facendogli radere la testa, come si faceva con gli schiavi, e lo rimandò a casa con la coda tra le gambe e un messaggio per i suoi superiori: «Dai da mangiare ai tuoi schiavi, affinché non si trasformino in briganti».

    Dopo la sua cattura, Bulla Felix si trasformò nel pranzo di qualche bestia affamata e della sua banda non si sentì parlare mai più.

    In merito a Bulla Felix, e in generale ad altri personaggi come lui, vale la pena di condensare alcuni passaggi dello studio pubblicato da Elena Caliri all’interno di Mediterraneo Antico, Economie società e culture. La ricercatrice riporta un aspetto interessante:

    Ovviamente la loro presenza [quella dei briganti e dei fuorilegge, n.d.a.] e le loro azioni si addensano, secondo parametri statistici, durante le guerre civili, quando la contrapposizione ideologica e le forme di protesta in genere provocavano rivolgimenti, confische e rapidi rovesci di fortuna innescando inevitabilmente disordine sociale. L’età di Settimio Severo è paradigmatica in tal senso soprattutto perché, come è noto, la forza dell’imperatore africano fu costituita dai propri soldati, dalle proprie milizie. In un diffuso clima di illegalità ed incertezza, l’impero si ‘riempì’ di agenti governativi, nella maggior parte soldati incaricati di missioni poliziesche, di rintracciare ‘delinquenti’ politici e contestatari […], che spesso, come cavallette si abbattevano sui villaggi, forti della propria forza, terrorizzando la popolazione e assai sovente sensibili a sportule e mance varie. Settimio Severo, latronum ubique hostis, come riferisce Sparziano, aveva sì dispiegato una forza ingente per combattere forme di brigantaggio, ma probabilmente la stessa elefantiaca e gerarchizzata compagine a tal scopo preposta ingenerava malcontento, reazioni anche veementi, che talora si limitavano all’invio di proteste all’indirizzo dell’imperatore, ma che, in certi casi, si tramutavano in forme di aperta contestazione25.

    In poche parole, le milizie inviate da Settimio Severo anziché assicurare l’ordine, si rendevano colpevoli di ulteriori ruberie, di violenze e di vessazioni varie. Sono infatti molte, ci informa la Caliri, le testimonianze epigrafiche stracolme di richieste di intervento da parte dell’imperatore che denunciavano una situazione al limite. È in questo contesto che nacque il personaggio di Bulla Felix. Che poi si tratti di un parto della fantasia oppure di un brigante veramente esistito poco importa. Inoltre, con le sue scelte opinabili, Settimio Severo aveva personalmente ingrassato le fila dei banditi in giro per l’impero, estromettendo gli italici, gli spagnoli o i macedoni dalle coorti pretorie preferendo traci e illirici che erano sì devoti ma praticamente vivevano come bestie. E si sa, specifica la Caliri nel suo studio, che in genere diventavano banditi quelli che venivano esclusi dalle mansioni usuali del proprio ceto sociale. Erano praticamente costretti a divenire fuorilegge26.

    Insomma, è credibile che della cricca di Bulla Felix facessero parte liberti scontenti ed ex soldati, uomini a cui era stato sottratto tutto e che non avevano avuto altra scelta. Addirittura qualche ex funzionario statale sostituito dall’imperatore, che aveva dovuto darsela a gambe, e altri elementi ancora, seppur sia possibile che non fossero seicento come ci racconta la tradizione. Si potrebbe trattare, infatti, di un numero simbolico velatamente riferito agli appartenenti al senato romano – che erano stati riportati a seicento da Augusto dopo essere diventati novecento sotto Cesare27 – riportato poi da Giovanni Xifilino nel suo compendio della Storia Romana di Dione Cassio28. C’è però da dire che Bulla Felix aveva spie dappertutto. Sapeva sempre chi usciva da Roma per raggiungere Brindisi, conosceva i loro nomi e il loro numero, ed era sempre al corrente di cosa trasportassero. Non era un violento e in genere rilasciava sempre tutti i disgraziati che catturava.

    Un ultimo dettaglio di tutta questa storia merita di essere preso in considerazione; quella risposta canzonatoria che Bulla dà al prefetto dopo la sua cattura. A quanto sembra Dione Cassio si è ispirato a Tacito per mettere in bocca a Bulla quella battuta geniale. Tacito racconta infatti di Clemente, uno schiavo di Agrippa Postumo, che si spaccia per il suo padrone dopo la sua uccisione, riuscendo addirittura a fomentare un movimento contro Tiberio che puntava a sostituire. Alla fine venne acchiappato e quando gli chiesero come era diventato Agrippa lui ripose all’imperatore: «E tu come sei diventato Cesare?»29. Il bello è che Clemente finì a morte come Bulla.

    Un altro esempio di fuorilegge carismatico rimasto negli annali romani è quello di Corocotta di cui narra Dione Cassio. Questo nome curioso deriva a quanto pare da una descrizione che Plinio il Vecchio fece di una sorta di iena africana. Tuttavia è anche l’appellativo del bandito della Cantabria, cioè la Spagna, che si era messo alla testa di un gran numero di persone contro le quali Ottaviano Augusto aveva dovuto faticare non poco per ristabilire l’ordine. Non sappiamo se il ladrone in questione si chiamasse davvero Corocotta, seppure questo nome sia attestato sia in Spagna che a Roma, oppure se si trattasse di un soprannome; sembra tuttavia che il termine derivi dall’espressione latina corium coctum, cuoio cotto, e che per il brigante potesse intendersi come pellaccia. Di certo si tratterebbe di un nome azzeccato dal momento che Ottaviano Augusto fu costretto a inviare i suoi soldati migliori per porre fine alle sue scorribande, dopo aver messo una taglia molto alta sulla sua testa: si dice fossero un milione di sesterzi!

    Da quel che si sa, alla fine, Corocotta fu tolto di mezzo insieme a ogni suo uomo. Tutti ebbero la testa spiccata dal corpo e infilzata su pali belli appuntiti a fare da decorazione a bordo strada.

    Una curiosa leggenda racconta che, giunta alle orecchie di Corocotta la voce che l’imperatore aveva messo una sostanziosa taglia sul suo capo, il ladrone ribelle si sarebbe presentato con la sua bella faccia tosta per riscuotere il premio. Augusto anziché farlo arrestare e squartare per la sua insolenza, sarebbe rimasto così ammirato e divertito che non solo gli consegnò tutti i soldi in contanti, ma lo avrebbe addirittura perdonato per tutte le malefatte compiute.

    Questa storia è narrata dallo stesso Cassio come se fosse vera, perché scrisse: «[…] più tardi, quando il ladro venne da lui di sua spontanea volontà, non solo non gli fece del male, ma in realtà lo rese più ricco della quantità della ricompensa»30.

    C’è però ancora qualcosa da dire su Corocotta; Dione Cassio, nel testo originale, lo definisce con il termine greco leistes che in latino corrisponde a latro e che significa un po’ tutto, da ladro a ribelle. Per questo motivo non si sa esattamente se Corocotta si sia limitato a derubare e ammazzare la gente o se abbia anche organizzato una qualche resistenza antiromana. Un’ipotesi presa sul serio dagli archeologi che nel passato lo hanno sovrapposto a un reazionario che combatté durante le guerre cantabriche tra il 29 a.C. e il 19 a.C., per poi arrendersi proprio ad Augusto31.

    Ladri di mare

    Come si può immaginare, in epoca romana, a brulicare di ladri e briganti non erano solo le strade delle città ma anche i mari. Quando Roma estese il suo dominio si trovò a fare i conti con un fenomeno già largamente presente, quello della pirateria. Il problema era piuttosto importante all’epoca, dal momento che quelle piratesche erano vere e proprie organizzazioni, munite di navi agili e veloci ubicate in genere in luoghi non troppo accessibili. Con le loro scorrerie e i loro abbordaggi rapinavano gli equipaggi delle navi e chiedevano un riscatto quando qualche personaggio ricco e importante finiva nelle loro mani. Per non parlare poi del saccheggio delle città e dei villaggi costieri che pagavano molto spesso la loro vicinanza al mare con un tributo pesantissimo.

    I romani erano un popolo pratico. I pirati erano un problema e la cosa più pratica da fare era eliminarli. Ci volle un bel po’ di tempo, ma alla fine, almeno per Roma, la faccenda fu chiusa definitivamente.

    Nel 189 a.C. Lucio Fabio Labeone si recò in quel di Creta per combattere i pirati con un esercito, ma le cose non andarono come aveva sperato. Prese un bel po’ di sberle e non ottenne praticamente niente, anzi. Poi nel 102 a.C. fu il generale Marco Antonio Oratore a provare a darci un taglio con i pirati. Si recò verso la costa sudorientale dell’Asia Minore, dove oggi si trova la Turchia, e a suon di mazzate vinse la sua guerra contro gli sciacalli del mare. A quel punto i romani erano certi che la storia fosse finita lì, e invece no. Nell’86 a.C., durante le guerre civili, Lucio Licinio Lucullo provò a chiudere il conto con i pirati una volta per tutte mettendosi a capo di una grande flotta. Tra alti e bassi, nonostante la sua grande esperienza militare, anche questo generale fu costretto a tornarsene a casa senza buone notizie.

    Finita la prima guerra mitridatica i mari divennero il luogo meno sicuro della terra. Ce lo racconta per esempio Plutarco in La vita di Pompeo:

    Accadde perciò che i Romani, impegnati nelle guerre civili, lasciarono i mari incustoditi, ciò che spinse i pirati non solo ad attacchi in mare aperto, ma addirittura a mettere sottosopra le isole e le città costiere. Essendo pertanto lucrosa l’attività dei pirati, molti di famiglie ricche e importanti, si imbarcarono sulle navi dei pirati. I pirati allora crearono molte postazioni armate, e fari con fortificazioni: tutto ciò era fatto, tra l’altro, con ostentata arroganza e provocazione, per scoraggiare e umiliare. […] All’epoca, le navi dei pirati erano diventate più di 1000, e quasi 400 le città costiere catturate e soggiogate dai pirati. […] Ma il loro comportamento più insultante era il seguente: se un prigioniero dichiarava il proprio nome, e si proclamava cittadino romano, i pirati fingevano di essere terrorizzati, si inginocchiavano ai piedi del prigioniero, supplicandolo di perdonarli per il loro errore (di averlo cioè catturato). Il prigioniero pensava che la scena fosse reale, e che loro davvero fossero umili e sottomessi. In alcuni casi, i pirati ponevano calzature romane ai piedi del prigioniero, gli facevano indossare una tunica, e mentendo affermavano di fare tutto ciò perché per il futuro non avessero a verificarsi altre catture per errore. Quindi, ponevano una scala in mare, e invitavano il prigioniero ad andarsene. Se il prigioniero recalcitrava di fronte a questa messinscena, essi lo annegavano subito nel mare.32

    La struttura sociale dei pirati era divenuta ancor più complessa nel corso del tempo. Dal loro punto di vista, essi non erano dei ladri e degli assassini, ma un popolo vero e proprio con dei capi che si consideravano dei sovrani, delle leggi da rispettare e addirittura una capitale in Cilicia, precisamente a Cragus in Asia Minore, nei pressi del monte omonimo. Non si trattava di un semplice fastidio, quello dei pirati era un problema enorme per Roma. Grazie alle loro incursioni si arricchirono incredibilmente, soprattutto attaccando le città costiere e spogliandole di tutto. Come abbiamo visto gli antichi indicano che furono circa quattrocento le città a subire questo destino, che in gran numero gli abitanti furono rapiti per farne schiavi e che non furono risparmiati nemmeno i santuari e i templi. Fregandosene altamente dell’eventuale ira degli dèi, fecero man bassa in luoghi sacri mai violati in precedenza come Samotracia e Claros, solo per nominarne un paio. Ma la lista è lunghissima.

    Sempre in La vita di Pompeo Plutarco mostra in una sola frase l’entità del problema, quanto la situazione fosse grave e incontrollata: «Il potere dei pirati si estese talmente tanto sul nostro mare che divennero impossibili la navigazione e i commerci»33.

    Tutto questo era chiaramente inaccettabile per Roma e quando i pirati iniziarono a prendere di mira i rifornimenti di grano fu evidente a tutti quanto fosse necessario un regolamento di conti.

    C’è un aneddoto divertente che riguarda i pirati e Giulio Cesare. Stando a quanto racconta Svetonio:

    Durante la navigazione verso Rodi, avvenuta nella stagione invernale, [Cesare] fu fatto prigioniero dai pirati presso l’isola di Farmacusa e rimase con loro, non senza la più viva indignazione, per circa quaranta giorni, in compagnia di un medico e di due schiavi. I compagni di viaggio, infatti, e tutti gli altri servi erano stati inviati immediatamente a Roma per raccogliere i soldi del riscatto. Quando furono pagati i cinquanta talenti stabiliti, venne sbarcato su una spiaggia e allora, senza perdere tempo, assoldò una flotta e si lanciò all’inseguimento dei pirati: li catturò e li condannò a quel supplizio che spesso aveva minacciato loro per scherzo34.

    Plutarco aggiunge, raccontandoci la stessa storia, una serie di elementi spassosi. Narra, per esempio, che Cesare non aveva alcuna paura di questi rozzi e violenti uomini di mare, che contrattò sul prezzo del suo riscatto rilanciando una cifra superiore a quella che era stata proposta dal capo dei pirati e «li trattò con tale disprezzo che quando voleva riposare gli ordinava di fare silenzio. Passò così trentotto giorni come se fosse circondato non da carcerieri ma da guardie del corpo, giocando e facendo ginnastica insieme con loro, scrivendo versi e discorsi che poi gli faceva ascoltare, e se non lo applaudivano li redarguiva aspramente, chiamandoli barbari e ignoranti»35. Poi, come se niente fosse, una volta rilasciato li inseguì, li acchiappò tutti e li fece impalare come più volte, scherzando, gli aveva promesso. Non sappiamo se questa sia una storia vera oppure una leggenda, tuttavia definisce un pericolo costante da cui ormai era impossibile sottrarsi se si viaggiava per mare.

    Fu dunque il generale Pompeo a metterci una pezza, dopo che il senato tra una lite e l’altra gli aveva conferito, sulla scia della Lex Gabinia, l’incarico di far fuori i pirati; gli misero dunque tra le mani, per tre anni, un potere militare immenso, con quindici generali alle sue dipendenze, soldi a palate, duecento navi in assetto di guerra sotto il suo comando e come campo di battaglia tutta l’area mediterranea, più la bellezza di settanta chilometri di entroterra a disposizione.

    Per prima cosa Pompeo suddivise l’enorme scenario bellico in settori affidandone uno a ogni generale, poi si adoperò in un’operazione di raccolta di informazioni e di dati che gli permisero di scoprire la posizione di molti dei rifugi pirata ove indirizzò incursioni mirate, evitando lo scontro in mare aperto poiché conosceva la superiorità delle imbarcazioni nemiche. Pompeo procedette da occidente verso oriente eliminando il problema alla radice e distruggendo tutte le roccaforti che trovò sul suo cammino. In poco tempo, Pompeo riuscì a sbarazzarsi di gran parte del problema in tutto il Mediterraneo occidentale. Spostatosi nelle zone orientali, Pompeo attuò una metodologia leggermente diversa. Spesso, dopo aver catturato un gruppo di pirati, senza mai farsi fregare in mare aperto, si mostrò magnanimo risparmiando loro la vita. Fu così che iniziò una serie di processioni di capi e capetti alla ricerca spasmodica della sua compassione. Grazie a queste conversioni e alle grazie ricevute, i pirati iniziarono a cantare spifferando al generale romano dove si trovavano i nascondigli che ancora non era riuscito a individuare.

    Alla fine, con sessanta navi da guerra al seguito, Pompeo raggiunse la Cilicia per dare la mazzata finale a quanto restava di quei ladri. Vinse sul mare e strinse d’assedio l’ultimo avamposto pirata costringendo i pezzi grossi all’inevitabile resa. Dal momento che il generale Pompeo non era uno scemo, immaginò che il problema potesse ripresentarsi, poiché il lupo perde il pelo ma non il vizio. Così concesse la terra ai circa diecimila pirati che si erano arresi ai romani affinché la coltivassero senza farsi venire fastidiose nostalgie.

    Il problema fu risolto e i romani iniziarono a dormire sonni tranquilli anche sottocoperta. Anni dopo, Pompeo, che non era più tanto amato, fu ammazzato a tradimento in Egitto e per ironia della sorte suo figlio, Sesto Pompeo, dopo essere stato indicato come nemico pubblico iniziò a fare il pirata facendo sparire le riserve di grano e mettendo Roma ancora una volta in grave difficoltà. Come scrive lo storico romano Marco Velleio Patercolo:

    Egli allora, come ho già detto, dopo aver occupato la Sicilia, accogliendo nei ranghi del suo esercito schiavi e fuggiaschi, aveva gonfiato il numero delle sue legioni e, per mezzo di Mena e di Menecrate, liberti paterni, nominati comandanti navali, infestava il mare con atti di brigantaggio e di pirateria e si serviva del bottino per le necessità sue e dell’esercito, senza vergognarsi di molestare con scorrerie piratesche quelle coste che erano state liberate con operazioni militari condotte proprio da suo padre³⁶.

    Alla fine il pirata Sesto Pompeo, figlio dell’eroe che aveva spazzato via i pirati dal Mediterraneo, fu catturato e ucciso da Antonio ma, da vivo, per i triumviri fu davvero una bella scocciatura.

    14 Giovenale, Satire, traduzione dal latino tratta da: http://www.bandb-rome.it/marziale_e_giovenale.html.

    15 Ibidem.

    16 Alberto Angela, Una giornata nell’antica Roma, Mondadori, Milano 2007, pp. 93-94.

    17 Giuseppina Sechi Mestica, Dizionario universale di mitologia, Bompiani, Milano 2003, p. 102.

    18 Tratto da Laverna, l’oscura dèa senza corpo, lostregonediassisi.blogspot.com, 9 marzo 2014. Articolo consultabile al link: https://lostregonediassisi.blogspot.com/2014/03/laverna-loscura-dea-senza-corpo.html.

    19 Per approfondire vedi anche Michele Pifferi, Generalia delictorum. Il «Tractatus criminalis» di Tiberio Deciani e la «Parte generale» di diritto penale, Giuffrè, Milano 2006, p. 416.

    20 Alberto Angela, I tre giorni di Pompei, Rizzoli, Milano 2014, p. 459.

    21 Il mistero del soldato di Ercolano, in «Settimanale della Fondazione Italiani». Articolo consultabile al link: www.italiani.net/2018/12/04/il-mistero-del-soldato-di-ercolano/.

    22 Giuseppina Sechi Mestica, op. cit., p. 29.

    23 Strabone, Geografia, trad. it. di Biraschi, in Ester Ragazzo, tesi di laurea, La Sicilia nella Geografia di Strabone, Università Ca’ Foscari, a.a. 2014-2015, pp. 101-102. Consultabile al link: http://dspace.unive.it/bitstream/handle/10579/7586/824414-1184690.pdf?sequence=2.

    24 Ester Ragazzo, op. cit., p. 102.

    25 Elena Caliri, ΜΕΓΑΛΟΔΩΡΙΑ e ΣΟΦΙΑ di Bulla Felix, in «Mediterraneo Antico, Economie società culture», Anno XII, Fascicolo 1-2, Fabrizio Serra Editore, Roma-Pisa 2009, pp. 98-99.

    26 Ivi, pp. 100-101.

    27 https://www.treccani.it/enciclopedia/senato_%28Enciclopedia-Italiana%29/.

    28 Elena Caliri, op. cit., p. 101.

    29 Ivi, p. 109.

    30 Cassio Dione, Historia Romana, lvi, 43, 3.

    31 Adolf Schulten, Los cántabros y astures y su guerra con Roma, Librería Estudio, Madrid 2000, p. 155.

    32 Plutarco, Vita di Pompeo, 24. Testo tradotto dal greco da Vito Patella, tratto da: http://www.ilgrandeinquisitore.it/2014/07/i-40-giorni-cambiarono-mondo-primavera-estate-67-c/.

    33 Ivi, 25.

    34 Svetonio, Cesare, in Vita dei Cesari, Newton Compton editori, Roma 2008.

    35 Plutarco, Vite parallele. Alessandro e Cesare, Newton Compton editori, Roma 2008.

    36 Velleio Patercolo, I due libri al console Marco Vinicio, II, 73, 3, a cura di Maria Elefante, Loffredo Editore, Napoli 1999.

    Robin Hood da leggenda a prototipo di ladro gentiluomo

    È curioso come certi personaggi rimasti nel cuore e nell’immaginario di intere generazioni siano il semplice frutto di una serie di misture di leggende, racconti popolari e fatti più o meno realmente accaduti. Pensate alla figura di re Artù, sulla cui identità si discute ancora molto da un punto di vista storico; oppure ai sette re di Roma di cui si hanno prevalentemente notizie dalla tradizione e da fonti scritte di molto posteriori.

    È, dunque, piuttosto comune che certe storie abbiano inizio dalla leggenda e dal mito che custodiscono verità più antiche, ma ormai dimenticate o travisate. Questo discorso vale anche per uno dei ladri più famosi del passato, osannato della letteratura e immaginato da cinema e televisione: Robin Hood.

    Più o meno tutti conoscono la storia del ladro nascosto con la sua combriccola nella foresta di Sherwood, intento a rubare ai ricchi per dare ai poveri, incubo dell’avido re Giovanni e del suo tirapiedi, lo sceriffo di Nottingham. Tutti ricordano l’amore dell’intrepida lady Marian per il ladro gentiluomo votato alla lotta contro ogni sopruso del re sul popolo affamato. Eppure in pochi immaginano che, del Robin Hood di cui hanno sempre sentito parlare, non esistono vere e proprie tracce storiche. Tanto per cominciare, cosa sappiamo di lui? In quale periodo storico dobbiamo collocare la sua figura?

    Stando a quanto ci narra il folklore, Robin Hood sarebbe vissuto, ma alcuni storici non la pensano in questo modo, durante il regno di Riccardo Cuor di Leone, ovvero subito dopo la terza crociata. Re Riccardo, infatti, aveva combattuto con le forze cristiane riuscendo a trasformare Cipro in un regno latino, ma si era visto costretto a rientrare in gran fretta nella sua Inghilterra a causa dei venti di guerra che aleggiavano sulla sua patria dovuti al dissidio tra il re di Francia Filippo Augusto e suo fratello Giovanni Senzaterra. Sfortunatamente, mentre Riccardo attraversava l’Austria, il duca Leopoldo gli aveva teso un’imboscata catturandolo e consegnandolo all’imperatore Enrico IV. Il Cuor di Leone si ritrovò dunque incatenato al muro dentro una cella umida e sporca.

    Ti è piaciuta l'anteprima?
    Pagina 1 di 1