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I Frescobaldi e gli altri: Dalle Crociate alla Congiura dei Pazzi, dalla Guerra dei Cent'anni all'ascesa di Matteo Renzi, banchieri ai vertici del potere, ieri come oggi
I Frescobaldi e gli altri: Dalle Crociate alla Congiura dei Pazzi, dalla Guerra dei Cent'anni all'ascesa di Matteo Renzi, banchieri ai vertici del potere, ieri come oggi
I Frescobaldi e gli altri: Dalle Crociate alla Congiura dei Pazzi, dalla Guerra dei Cent'anni all'ascesa di Matteo Renzi, banchieri ai vertici del potere, ieri come oggi
E-book176 pagine2 ore

I Frescobaldi e gli altri: Dalle Crociate alla Congiura dei Pazzi, dalla Guerra dei Cent'anni all'ascesa di Matteo Renzi, banchieri ai vertici del potere, ieri come oggi

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... a parte il disorientante rovesciamento di prospettiva di alcuni importanti fatti storici (uno fra tutti, la celebre Congiura dei Pazzi), o l'impressionante quadro che emerge a proposito di quanto siano stati determinanti, dal Medioevo ad oggi, i giganteschi prestiti accordati dai grandi banchieri a principi e sovrani, quel che davvero stupisce di questo nuovo, appassionante studio di Pietro Ratto è il dato inquietante secondo cui gli eredi diretti di quella élite aristocratica e finanziaria che aveva in mano il mondo mille anni fa, siano ancora oggi ai vertici di alcune grandi multinazionali, e di certe potenti banche, che tengono saldamente in pugno le redini della politica e dell'economia globali.

LinguaItaliano
Data di uscita28 giu 2024
ISBN9788869348983
I Frescobaldi e gli altri: Dalle Crociate alla Congiura dei Pazzi, dalla Guerra dei Cent'anni all'ascesa di Matteo Renzi, banchieri ai vertici del potere, ieri come oggi
Autore

Pietro Ratto

Pietro Ratto è filosofo, saggista, giornalista e scrittore. Laureato in Filosofia e Informatica, è professore di Filosofia, Storia e Psicologia. Pietro Ratto ha al suo attivo numerosi libri e ha vinto diversi premi letterari di Narrativa e Giornalismo ed ha partecipato a svariati Convegni filosofici. In ambito filosofico ha scritto La Passeggiata al tramonto. Vita e scritti di Immanuel Kant (2014-2019), la raccolta di suoi saggi BoscoCeduo. La Rivoluzione comincia dal Principio (2017) e il saggio Come mi cambiano la vita Socrate, Platone e Aristotele (2020). In ambito storico ha scritto: Cronache di una pandemia. I primi nove mesi di un incubo (2020), L'Industria della vaccinazione- Storia e contro-Storia (2020), Le Pagine strappate (2014-2020), I Rothschild e gli Altri (2015), L'Honda anomala. Il rapimento Moro, una lettera anonima e un ispettore con le mani legate (2017), La Storia dei vincitori e i suoi Miti (2018), Rockefeller - Warburg. I grandi alleati dei Rothschild (2019) e Il gioco dell’Oca. I retroscena segreti del processo al riformatore Jan Hus (2014-2020). Ha pubblicato anche i romanzi La Scuola nel Bosco di Gelsi (2017), Senet (2018), Il Treno (2019) e Il Testimone (2020), oltre alla raccolta di saggi polemici sulla degenerazione della scuola pubblica e le lobbies che la gestiscono, intitolata Programma dIstruzione (2020). Gestisce i siti BoscoCeduo.it e IN-CONTRO/STORIA, oltre a un affollatissimo canale YouTube e a una vivace pagina Facebook, chiamati entrambi BoscoCeduo. Dal 2019 amministra una piattaforma di contenuti di aggiornamento e approfondimento delle tematiche affrontate nei suoi libri, BoscoCeduoPro.

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    Anteprima del libro

    I Frescobaldi e gli altri - Pietro Ratto

    I Frescobaldi

    e gli altri

    Dalle Crociate alla Congiura dei Pazzi,

    dalla Guerra dei Cent’anni all’ascesa di Matteo Renzi, banchieri ai vertici del potere, ieri come oggi

    © 2024 Bibliotheka Edizioni

    www.bibliotheka.it

    I edizione, giugno 2024

    Isbn 9788869348976

    e-Isbn 9788869348983

    È vietata la copia e la pubblicazione, totale o parziale, del materiale se non a fronte di esplicita autorizzazione scritta dell’editore e con citazione esplicita della fonte.

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    Gli occhi della Vergine

    La sera prima della grande battaglia, il neo eletto Podestà di Siena Bonaguida Lucari, e tutti i cittadini intorno a lui, affidarono le sorti dell’imminente scontro alla Vergine Maria, inchinandosi, in Duomo, a quell’icona che, successivamente, sarebbe stata denominata Madonna dagli Occhi grossi(1), probabilmente dipinta dal Maestro di Tressa (o dall’artista che si cela dietro questo nome) circa trentacinque anni prima.

    Bonaguida quella sera, nel bel mezzo di piazza Tolomei, davanti alla chiesa di San Cristoforo, aveva spiegato a tutti che la vittoria non sarebbe stata mai possibile, senza l’aiuto della madonna. "Signori miei Sanesi – aveva detto – e cari miei concittadini, noi ci siamo raccomandati a la santa corona di re Manfredi; ora a me pare che, noi siamo in verità, in avere e in persona, la città e ‘l contado, a la Reina di vita eterna, cioè a la nostra Madre Vergine Maria; e per far questo dono piacciavi a tutti farmi compagnia". Poi si era tolto le vesti, restando soltanto in camicia intima. Scopertosi il capo, a piedi scalzi, cinto il collo da una correggia di quelle utilizzate dai frati domenicani, si era messo alla testa di un’autentica processione, proclamandosi peccatore, implorando perdono e misericordia e chiedendo soccorso alla madonna con queste parole: Vergine Maria, aiutateci al nostro grande bisogno, e liberateci da le mani di questi lioni e di questi superbissimi uomini, che ci vogliono divorare(2). Seguito dall’imponente corteo dei suoi concittadini, tutti presi ad imitar i suoi gesti ripetendo sommessamente Te laudamus, si era diretto verso l’ingresso della cattedrale, all’interno della quale, inginocchiato di fronte all’austero dipinto posto sull’altar maggiore, fino a quel momento lo aveva atteso, assorto in preghiera, il Vescovo. Lì, proprio sul portale del Duomo, era avvenuto l’incontro tra Bonaguida e monsignor Fusconi. Tutti gli astanti erano poi entrati in chiesa e si erano inginocchiati, pregando e piangendo. Il Podestà, addirittura, si era prostrato a terra. Il vescovo lo aveva presto invitato a rialzarsi, dandogli il bacio della pace, e invitando il popolo a far altrettanto. Era stato proprio a quel punto che il Lucari e il Fusconi, tenendosi per mano, si erano portati davanti alla sacra icona, inginocchiandosi umilmente.

    Deposte sull’altare le chiavi della città, lo sguardo rivolto al dipinto, Bonaguida esclamò a gran voce: a te do, dono e cedo questa città di Siena e tutto il suo contado, con tutti i suoi diritti e giurisdizioni; e, in segno di ciò, qui sul tuo altare depongo le chiavi delle porte di questa città di Siena. Seguì la supplica di tutti affinché la Beata Vergine si degnasse di proteggere la città dai cattivi, malvagi cani fiorentini, mentre un notaio registrava ufficialmente il passaggio di proprietà dall’umano al divino.

    Seguì un’accorata confessione comunitaria, la generale distribuzione dell’eucarestia e una nuova, solenne processione. "Il clero occupava il suo posto abituale, davanti al corteo, dietro a una croce di legno che i senesi veneravano. Seguivano i laici, divisi in tre gruppi: i cittadini, secondo il proprio status, il popolo e, infine, le donne di tutte le classi. Al centro, tra clero e laici, protetta da un baldacchino e accompagnata dal vescovo, dal sindaco comunale e dai canonici della cattedrale che li seguivano, c’era la sacra tavola, che, in rappresentanza della Vergine a Siena, veniva portata in giro per quella città che ora lei, in virtù di quella donazione, governava ed era obbligata a proteggere"(3). A fine cerimonia, naturalmente, Bonaguida recuperò le chiavi dall’altare, fece ritorno a San Cristoforo, ove aveva sede il Generale Consiglio e le consegnò ai funzionari che fino a quel momento erano rimasti ad aspettare – e che, di norma, già le custodivano – implicitamente assumendo così la gestione del Comune in rappresentanza della nuova, legittima Proprietaria.

    L’emergenza in città, in quei primi giorni di settembre del 1260, era alle stelle. Firenze, dopo anni di scontri dovuti anche a questioni commerciali – dato che mal sopportava che Siena si stesse arricchendo troppo sui molti dazi imposti ai viaggiatori e ai pellegrini che percorrevano, su e giù, quella via Francigena che attraversava il suo territorio – non accettava certo che la rivale, in netta violazione degli accordi stipulati cinque anni prima, continuasse ad accogliere i molti ghibellini banditi dal suo Comune. Così, nella primavera di quell’anno, aveva cinto d’assedio Siena. E il 2 di settembre i suoi ambasciatori avevano consegnato il loro ultimatum al governo della città ghibellina.

    I senesi, però, avevano deciso di non scendere a compromessi, e di resister fino all’ultima goccia di sangue. Ma la situazione non era certo facile. Anche solo per il fatto che l’esercito di circa ottocento soldati tedeschi agli ordini del conte di San Severino, Giordano Lancia d’Agliano – assoldato da Manfredi, re di Sicilia e figlio dell’Imperatore Federico II di Svevia morto dieci anni prima, per difender la Lega ghibellina guidata da Siena dall’attacco guelfo capeggiato da Firenze – pretendeva più soldi per continuare a protegger la città. Non aveva esitato a farsi avanti, a quel punto, il nobile banchiere Salimbene Salimbeni, offrendo il denaro necessario (ben diciottomila fiorini), fatto pervenire al conte su una carretta ornata di rami d’ulivo. Lo stipendio dei militi alemanni, grazie al patriottico gesto dell’aristocratico senese, era così raddoppiato(4). E la protezione tedesca, assicurata. Una volta poi eletto Podestà il pio e aristocratico Bonaguida e dedicata la città alla madonna, tutto sembrava ormai pronto per la resa dei conti.

    L’indomani mattina, all’alba di giovedì 4 settembre dell’anno 1260, andò così in scena la sanguinosissima battaglia di Montaperti, tra gli eserciti ghibellini guidati dai senesi – che comprendevano, tra le altre, anche le milizie di Arezzo, Pisa, Montalcino, Montepulciano e dell’agguerritissima Terni – e quelli guelfi capeggiati da Firenze, forte dell’alleanza con grandi comuni tra i quali spiccavano Bologna, Volterra, Lucca e Perugia.

    Alle sei e mezza del mattino i due eserciti nemici erano già schierati. I soldati di ogni divisione furono esortati a dar il meglio di sé dalle parole, piene di enfasi patriottica e di sprezzante odio verso il nemico, dei relativi comandanti. Fu il reparto tedesco agli ordini del Conte Giordano, il primo ad attaccare. Ma i guelfi fiorentini, in netta superiorità numerica, resistettero. Provocando una furiosa mischia presso il poggio di Monsevoli. Seguirono molti scontri, in quella triste giornata. Puntualmente corredati di sanguinosi massacri.

    Nel tardo pomeriggio, quando già molte migliaia di vittime giacevano al suolo, scattò improvvisa la trappola ghibellina. Al grido di San Giorgio! il Conte di Arras – comandante del primo battaglione di Siena – attaccò gli schieramenti guelfi. Contemporaneamente, molti senesi scaltramente infiltratisi nelle linee nemiche presero a insorger contro quelli che, fino a quel momento, li avevano creduti loro commilitoni, seminando il panico tra le fila della lega fiorentina. A quello stesso segnale in codice insorse anche il condottiero ghibellino Bocca degli Abati che, a causa del suo gesto, sarebbe stato poi collocato all’Inferno da Dante in persona. Trovandosi dietro le linee fiorentine, Bocca riuscì infatti a raggiungere il carro delle insegne fiorentine e a sferrare a tradimento un terribile fendente, troncando di netto una mano al sessantaquattrenne portabandiera guelfo Jacopo de’ Pazzi.

    Il vessillo gigliato cadde in un lago di sangue, trascinando nel panico tutti i militi guelfi che – completamente disorientati dall’improvviso venir meno di un segnale fondamentale per individuare il loro comandante e per distinguer alleati e nemici – vennero presto sopraffatti e trucidati in massa dai ghibellini.

    Si racconta però che, al di là del patriottismo, la verità fosse un’altra. Che Bocca degli Abati fosse geloso. Geloso da impazzire della storia d’amore tra l’ormai anziano Jacopo e la bella Cecilia, figlia di uno dei dodici capitani dell’esercito di Firenze: il valoroso comandante Cece Gherardini.

    Nel caos che ne seguì, il Conte di Arras riuscì a uccidere anche il generale fiorentino Jacopino Rangoni da Modena, assestando così il colpo mortale all’esercito guelfo già in rotta.

    L’anziano portabandiera Jacopo, dal canto suo, morì nel giro di poco, completamente dissanguato e circondato da migliaia e migliaia di cadaveri. La battaglia fu così vinta dai senesi. Causando, nove giorni dopo, la colossale cacciata della fazione guelfa da Firenze.

    Fino a tal punto, quasi otto secoli fa, era importante una bandiera.

    La Dinastia

    Tra i superstiti dell’esercito guelfo in rotta a Montaperti c’erano alcuni valenti soldati, tutti esponenti di una prominente famiglia fiorentina caratterizzata da "l’animo ardito e lo spirito guerriero"(5). I loro nomi erano Ghino, Lapo, Berto e Neri Frescobaldi, quest’ultimo impegnato in battaglia insieme al figlio Stoldo, banderese del sesto d’Oltrarno che si sarebbe poi distinto nella battaglia di Campaldino. D’altro canto, alcuni loro consanguinei avevano invece combattuto sull’altro fronte, come Ruggeri (Geri) Frescobaldi – fratello di Lapo, cugino di Berto e nipote di Neri – che quando poi Firenze, in virtù della sconfitta guelfa, era passata sotto il controllo dei ghibellini, aveva fatto carriera in ambito ecclesiastico, assumendo addirittura la carica di priore di San Lorenzo tra il 1263 ed il 1265, salvo poi rinunciare alla tunica per sposarsi.

    La loro famiglia era molto ricca. Ricca e potente. Si dice che provenisse dalla Germania(6), e che fosse giunta nella penisola italica al seguito degli imperatori della casa di Sassonia e, in particolare, di Ottone I, nel X secolo(7). Ottone era particolarmente affezionato alla Toscana. E, secondo le cronache del tempo, in questa terra aveva poi lasciato molti dei suoi baroni, concedendo a Firenze sei miglia di contado(8). Insomma: le origini italiane della nobile famiglia si fondevano inestricabilmente con quelle della stessa città del Giglio. Anche perché la nascita di Firenze viene storicamente fatta risalire alla sua conquista, avvenuta nel 1115, del territorio di Fiesole di cui, fino a quel momento, era stata soltanto una colonia. Fiesole, in quella battaglia, era andata distrutta, e la sua storica fortezza, col passar degli anni, era finita proprio tra i possedimenti di casa Frescobaldi.

    Fatto sta che, inizialmente, gli avi di quei cinque soldati si erano impiantati in Val di Pesa, a Malmentile e Montecastello, per poi trasferirsi in via definitiva proprio a Firenze, in Oltrarno appunto, verso il XIII secolo. Ed è il Villani, infatti, a collocarli lì: tra i nobili di quel rione fattisi guelfi(9).

    In quella celebre area posta sulla riva destra dell’Arno, i Frescobaldi erano andati a risiedere in uno dei primissimi edifici della città, affacciato su una piazza che oggi porta il loro nome e che si trova tra la chiesa di Santo Spirito e il ponte Santa Trinita. Due opere simbolo della città del Giglio che debbono proprio a quella dinastia la loro esistenza. Il famoso ponte, infatti – in assoluto tra i più belli d’Italia – secondo il Malispini era stato voluto nel 1252, otto anni prima della battaglia di Montaperti, proprio dallo zio di Stoldo, il potente Lamberto Frescobaldi, fratello di Ranieri (che dal canto suo fu console dell’Arte dei Mercatanti dal secondo semestre del 1244)(10) e, proprio da quello stesso anno, illustre membro degli Anziani della città. Lamberto lo aveva fatto costruire "per comodità di costoro [ossia i membri della sua potente famiglia] per andare alle case loro di là dal fiume"(11). Realizzato completamente in legno, fulgido simbolo de l’agiatezza dei Frescobaldi confermata ancora dal Velluti e la parte che essi cominciano a prendere nel Comune(12), il ponte era clamorosamente crollato sette anni più tardi, durante uno spettacolo. Soltanto molto tempo dopo, nel 1333, sarebbe stato ricostruito in pietra.

    Quanto alla storica chiesa di Santo Spirito, progettata dal Brunelleschi e successivamente ornata da Michelangelo, sarebbe stata finanziata nel 1444 da un altro discendente della dinastia, tal Stoldo di Lamberto Frescobaldi, nel suo ruolo di Provveditore ai lavori, avendo egli donato perfino i terreni su cui edificarla. All’interno della chiesa, ancora oggi risplende la meravigliosa Cappella Frescobaldi, che custodisce la celeberrima Annunciazione di Pietro del Donzello.

    I Frescobaldi, insomma, erano potenti. Ricchissimi produttori e mercanti di lana, grandi proprietari terrieri, annoverati tra i più illustri e influenti Magnati di Firenze, avevano preso molto presto ad investir gli ingentissimi guadagni accumulati con

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