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Proust per bagnanti
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E-book149 pagine2 ore

Proust per bagnanti

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Info su questo ebook

Novembre 2001, tre storie d’italiani negli Stati Uniti, ciascuno con un segreto in tasca, s’intrecciano in South Florida. L’incredibile storia di Rosa, il suo viaggio prima in Calabria e poi a Venezia, alla ricerca di un passato da ricostruire. Alfredo Crepuscolo, studente d’arte, che arriva in America all’alba del 2000 “colmo d’euforia da pioniere, come fosse il primo italiano dopo Colombo ad esplorare il Nuovo Continente”. E poi il narratore stesso con la sua fosca vicenda familiare, a metà degli anni ’90, e il suo “American Dream” sullo sfondo maestoso del Canal Grande. Tre storie in una, fitte di emozioni e colpi di scena, di sorprese, per i personaggi e per il lettore, nella luce ilare e colorata del sud tropicale americano, davanti a un oceano brillante, “imperturbabile come un gentleman inglese”.

LinguaItaliano
Data di uscita7 mag 2013
ISBN9788868150235
Proust per bagnanti
Autore

Emanuele Pettener

Emanuele Pettener insegna lingua e letteratura italiana alla Florida Atlantic University di Boca Raton. Ha pubblicato un romanzo (È sabato mi hai lasciato e sono bellissimo, Corbo, 2009), un saggio (Nel nome del padre del figlio e dell’umorismo. I romanzi di John Fante, Cesati, 2010) e ha curato il cinquantesimo numero della rivista “Nuova Prosa” (Essere o non essere Italoamericani, Greco&Greco, 2009). Nel 2013 per Bordighera Press (New York) è prevista l’uscita del suo primo volume in inglese, la raccolta di racconti A Season in Florida.

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    Proust per bagnanti - Emanuele Pettener

    Proust per bagnanti

    romanzo

    Emanuele Pettener

    Published by Giuseppe Meligrana Editore

    Copyright Meligrana Editore, 2013

    Copyright Emanuele Pettener, 2013

    Tutti i diritti riservati

    ISBN: 9788868150235

    Copertina a cura di Marco Crestani

    libereditor@gmail.com

    La citazione da Il Grande Gatsby è tratta dalla traduzione di Fernanda Pivano (Mondadori)

    Meligrana Editore

    Via della Vittoria, 14 – 89861, Tropea (VV)

    Tel. (+ 39) 0963 600007 – (+ 39) 338 6157041

    www.meligranaeditore.com

    info@meligranaeditore.com

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    INDICE

    Frontespizio

    Colophon

    Licenza d’uso

    Emanuele Pettener

    Copertina

    Proust per bagnanti

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    Licenza d’uso

    Questo ebook è concesso in uso per l’intrattenimento personale.

    Questo ebook non può essere rivenduto o ceduto ad altre persone.

    Se si desidera condividere questo ebook con un’altra persona, acquista una copia aggiuntiva per ogni destinatario. Se state leggendo questo ebook e non lo avete acquistato per il vostro unico utilizzo, si prega di acquistare la propria copia.

    Grazie per il rispetto al duro lavoro di quest’autore.

    Emanuele Pettener

    Emanuele Pettener insegna lingua e letteratura italiana alla Florida Atlantic University di Boca Raton. Ha pubblicato un romanzo (È sabato mi hai lasciato e sono bellissimo, Corbo, 2009), un saggio (Nel nome del padre del figlio e dell’umorismo. I romanzi di John Fante, Cesati, 2010) e ha curato il cinquantesimo numero della rivista Nuova Prosa (Essere o non essere Italoamericani, Greco&Greco, 2009). Nel 2013 per Bordighera Press (New York) è prevista l’uscita del suo primo volume in inglese, la raccolta di racconti A Season in Florida.

    (fotografia di Diana Hammond)

    Contattalo:

    epettene@fau.edu

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    I personaggi e i fatti descritti in questo romanzo sono frutto della fantasia dell’autore. Ogni riferimento a persone e fatti reali è pertanto puramente casuale.

    1

    Alfredo Crepuscolo se ne andava in caffetteria ogni giorno, attorno alle otto, prima di lezione. La caffetteria sta nel cuore del campus e, oltre al caffè, offre di tutto: a ruota si susseguono lo stand di cucina orientale Jin-Jow, vaporoso di odori grassi, e poi Salsarita’s, dove graziose peruviane preparano empanadas e gazpacho, e ancora Papa John’s coi suoi panini farciti di polpette, e via dicendo.

    Rosa era la manager del Burger King e da dietro il bancone istruiva dirigeva confortava i giovani alle sue dipendenze, di solito neri o sudamericani, cuoceva hamburger e avvampava di griglia e friggitoria. Cucinare e servire gli studenti in fila al bancone non era compito suo, ma lo faceva lo stesso, perché le piaceva dire Have a nice day! agli studenti, che questi la riconoscessero, che la chiamassero per nome.

    La maggior parte del tempo, però, stava di spalle al pubblico, come un direttore d’orchestra, inguainata nella sua divisa d’ordinanza blu, salvo voltarsi ogni tanto e come prima cosa guardare le scarpe delle persone in fila. Era dalle scarpe che un giorno aveva levato lo sguardo su Alfredo e gli aveva detto: Tu sei italiano.

    Diceva che un italiano si riconosce dalle scarpe.

    A quell’ora il campus è ancora deserto, o quasi, le cocorite sulle palme cominciano a gorgheggiare, le segretarie a consultare la posta, le bibliotecarie ripongono sugli scaffali i libri consumati nella notte, e gli studenti levano muggiti dai letti sfatti dei dormitori – odorosi di zuppa d’avena.

    Così Rosa aveva tempo per sedersi a un tavolino con Alfredo, bevevano caffè alla vaniglia e guardavano, fuori dalle ampie vetrate, i raggi del giovane sole infilarsi fra le acacie e i cespugli di iris giapponese (gialli dal cuore a mezzaluna bruno) e parlavano. Rosa gli aveva detto d’esser nata in Calabria, ma il suo italiano era un crocevia singolare di sfumature. Non si trattava tanto che inglesizzasse alcune parole o che talora costruisse i periodi secondo la struttura americana: in realtà era un italiano piuttosto buono, di rado imbroccava anche i congiuntivi, ma qualche volta sembrava curiosamente artefatto e alternava un pesante andamento meridionale (specie quando si agitava) a cadenze settentrionali (quando raccontava senza troppo coinvolgimento). Un giorno Alfredo le chiese:

    Da dove viene quel tuo accento del Nord?

    Lei lo fissò, sorridente. Era ancora una bella donna. Passati i cinquanta, tre gravidanze, fianchi grassocci, ma un viso di ragazza. Gli disse: Immagina una cosa. Immagina una casa di pietra. Immagina sette persone una accanto all’altra.

    Alfredo immaginò tutto, in sequenza. Lei continuava a sorridere e fissarlo, sembrava divertita, e si mordeva il labbro inferiore. Dalla cuffia di lavoro che le teneva nascosti i capelli sbucavano due riccioli infantili, biondo cenere, che le accarezzavano le orecchie minute, simili a piccole conchiglie. Poi tirò fuori un pacchetto di Capri azzurre. Come ogni mattina uscirono sul prato e si sedettero al consueto tavolino di legno, sotto l’enorme Banyan tree che regna imperioso nel campus, a chiacchierare, finire il caffè, fumare. Non è un gran fumatore Alfredo, ma quella sigaretta se la godeva proprio, con quel senso di benevolenza che ispira la mattina, il cielo spalancato del South Florida, il gusto del caffè e delle lezioni che lo attendevano, i libri che lo aspettavano.

    Ho immaginato le sette persone, Rosa. E allora?

    E come te le immagini?

    Come me le immagino? Beh, d’altezza progressiva. La prima è una femmina, magra magra e lunga...

    No, è un maschio, disse secca.

    Però è alto.

    Ha quattordici anni. Sono tutti in posizione frontale, sai? Come per farsi una fotografia.

    O un confronto all’americana.

    E che è?

    Quella roba che si vede nei film polizieschi dove uno da dietro il vetro deve riconoscere, tra una fila di persone, il colpevole.

    Un lampo le attraversò gli occhi scuri, come se Alfredo le avesse rivelato un dettaglio inquietante. Si staccò la sigaretta dalla bocca, aspirò, mormorò:

    Bravo... giusto...

    Ora, quel lampo negli occhi lui l’aveva visto altre volte dacché la conosceva. Era una donna gentile e generosa, ma ogni tanto aveva scatti bruschi e diceva un sacco di parolacce in calabrese, e aveva un sorriso luminoso ma a tratti in distanza si percepiva un riflesso di malinconia, o di nostalgia, qualcosa che – chissà perché – riconduceva Alfredo al suo paesino in Italia, la domenica mattina presto, quando il cielo era radioso di primavera e lui innaffiava i fiori sul balcone, le antiche vie e gli orti si risvegliavano piano, si sentiva il profumo fragrante di pane fresco e tutto sembrava felice, ma improvvisamente una musica lontana di pianoforte, remota, da chissà dove, lo turbava, lo inquietava.

    Il campus era ancora inebriato dalla pioggia della notte, l’erba crepitava sotto i piedi e qualsiasi cosa Rosa dicesse, ad Alfredo andava bene. Parlava quasi sempre lei, nello spazio di quella sigaretta, e gli raccontava di quel bastardo del suo ex-marito, dei suoi tre figli sparsi per il Continente, di quel dannato cinese, il suo capo, che la vessava e non sapeva un cazzo – citazione testuale – e aveva vent’anni meno di lei.

    Alfredo l’ascoltava quasi sempre, solo raramente si distraeva a seguire le girandole di due scoiattoli o a fiutare l’aria salina proveniente dall’Atlantico, ma quella volta non era il caso, perché Rosa aveva catturato la sua attenzione:

    Ehi Rosa, non ho capito: è un gioco?

    Rosa sbuffò l’ultima boccata di fumo e lo guardò con sguardo indecifrabile, assente ed ironico al contempo, poi disse:

    No, non è un gioco. Mi hai chiesto da dove viene il mio accento, no? Ora devo andare, Fred.

    Alfredo non ci pensò più di tanto. La mattina tenne le sue lezioni (allora insegnava, come assistente, corsi introduttivi a storia dell’arte) e tornò in caffetteria attorno a mezzogiorno. A quell’ora la caffetteria brulica di studenti e la vita in ciascuno stand è frenetica. Rosa era più rossa che mai, severa ma protettiva con i suoi ragazzi, e tutti si muovevano ai suoi comandi, orchestranti che si fidano ciecamente del maestro. Alfredo evitava la fila al Burger King ma urlava: Ciao, Rosa!

    E lei, che di solito era di spalle, si voltava, gli guardava le scarpe, alzava lo sguardo e urlava a sua volta: Ciao Fred! Vuoi qualcosa?

    Lui non voleva mai niente e se ne andava al buffet delle insalate. Poi spendeva l’intero pomeriggio in biblioteca ad attender le classi serali (che frequentava da studente di master in storia dell’arte), lo spendeva a ciondolare, a toccare il dorso dei libri, a scoperchiar testi, talora assopendosi sopra copertine tinta prugna o naufragando dolcemente in certe minuscole macchie di colore o nella biografia di un artista dimenticato – oppure se la filava alla poltrona sdrucita che sta in un recesso sperduto davanti la vetrata del terzo piano, con una pila di volumi che depositava ai piedi della poltrona, e ogni tanto alzava gli occhi dal block-notes e guardava fuori, lo spazio colmo di luce fra la terra arsa del South Florida e il suo cielo sconfinato, tra il verde essiccato della vegetazione fitta e il bianco delle case basse e arroventate dal sole, tra le chiazze acquamarina delle piscine e il rosa pastello delle ville, e lo sguardo di Alfredo si perdeva e andava oltre e inseguiva l’orizzonte e raggiungeva l’oceano e attraversava l’oceano grande e nero, l’oceano tempestoso, popolato di mostri marini e fantasmi di marinai, di balene e relitti, ma il suo sguardo correva, navigava a velocità formidabili, raggiungeva le coste della Spagna, la Spagna gialla e arancio, la Spagna rosseggiante di Picasso, e poi volava, volava sopra la Francia, la Francia blu e grigia, la Francia di ballerine e prostitute, e poi finalmente l’Italia, ah, l’Italia!

    Ed entrava da una finestrella accesa e trovava sua madre che cucinava il ragù, e vedeva i suoi occhi e vedeva suo padre che le cingeva i fianchi da dietro, ed entrambi sorridevano come in un film muto, e vedeva anche suo fratello che tornava dalla palestra con le cuffiette alle orecchie, fischiettando un motivetto reggae, e allora Alfredo si passava una mano sulla bocca e andava dietro al reggae di suo fratello, e sulla carta immacolata del notes tratteggiava dettagli di cucina italiana osservata dai Tropici, e pensava: Però, che razza di vista che ho!

    2

    Osservo la mia piccola in questa incantevole mattina di maggio: seduta al tavolino di vetro all’ombra del patio, sta lavorando duramente con colori e matite a un ritratto di famiglia, da presentare al Breakfast with Dad che si terrà all’asilo la prossima settimana. I capelli biondi le sfiorano le guancette rosa, ha lo sguardo concentratissimo: è completamente innocente.

    Forse è vero, a un certo punto i bambini imparano la crudeltà, l’invidia e la meschinità. Ma fino a quel momento sono completamente innocenti – e l’innocenza va adorata senza condizioni, come vanno adorati senza condizioni il talento e la bellezza.

    Sente che la sto osservando, mi guarda interlocutoria: le faccio l’occhiolino, ci sorridiamo complici ed io, sulla sdraio biancoverde, devo subito tornare al mio manoscritto per celare la commozione – sono una tale mammola, lo so!

    Ma la gioia che mi dà questa bambina, averla qui accanto mentre scrivo, mi riempie il petto, le viscere, le ossa, e ogni volta sento gli occhi inumidirsi. È una gioia, certo, venata dall’amarezza della coscienza che quest’attimo perfetto

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