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Un giorno a Venezia con i dogi
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Un giorno a Venezia con i dogi
E-book332 pagine4 ore

Un giorno a Venezia con i dogi

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Info su questo ebook

In giro per la Serenissima accompagnati dagli uomini che la resero grande

Venezia non è mai stata raccontata così

Per oltre mille anni, fino alla fine del Settecento, la Serenissima è stata comandata da un doge, la massima autorità cittadina. La sua residenza era Palazzo Ducale, dal momento della nomina a quello della morte (era l’unica carica dello Stato veneziano che durava tutta la vita), e ancora oggi i tanti visitatori possono ammirare le sale in cui il governo della Repubblica esercitava il potere. Ciò che forse è meno noto sono i luoghi che il doge – spesso accompagnato dalla dogaressa – visitava per celebrazioni o altri doveri istituzionali. In giro per Venezia, le raffigurazioni dei dogi sono generalmente occultate all’interno di altre opere per aggirare il divieto di avere una propria immagine esposta in un luogo pubblico, visto che la Serenissima non ammetteva il culto della personalità. E dove abitavano prima di essere eletti? Facendo parte delle famiglie più facoltose della città, i loro palazzi sono ancora in gran parte visitabili, essendo divenuti uffici pubblici oppure alberghi. Alberto Toso Fei riesce con grande abilità e dovizia di particolari a trasmettere l’atmosfera che si viveva allora a Venezia, una Repubblica che è stata per lungo tempo al centro di grandi trasformazioni economiche e sociali.

Visitate Venezia in compagnia di un personaggio illustre

«Alberto Toso Fei, veneziano DOC, è diventato un’autorità in fatto di misteri: i suoi libri sugli enigmi di Venezia e dintorni vendono in laguna più dei romanzi di Dan Brown.»
Il Venerdì di Repubblica
Alberto Toso Fei
scrive libri sulla storia segreta delle città più belle d’Italia, tra curiosità ed enigmi, aneddotica e leggenda, recuperando il patrimonio della tradizione orale: i più recenti sono I segreti del Canal Grande, Misteri di Venezia, Misteri di Roma. È fondatore e direttore artistico del Festival del Mistero, interamente dedicato agli enigmi del passato e ai luoghi leggendari. Per la Newton Compton ha pubblicato I tesori nascosti di Venezia, La Venezia segreta dei dogi e Forse non tutti sanno che a Venezia...
LinguaItaliano
Data di uscita13 nov 2017
ISBN9788822715128
Un giorno a Venezia con i dogi

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    Anteprima del libro

    Un giorno a Venezia con i dogi - Alberto Toso Fei

    INTRODUZIONE

    Che il doge di Venezia, dal momento della sua nomina a quello della sua morte (la massima carica dello Stato veneziano era anche l’unica che durava tutta la vita), risiedesse a Palazzo Ducale non è certo un segreto, e ancora oggi la Casa veneziana del Potere per antonomasia mostra ai tanti visitatori le sale in cui il governo della Repubblica esercitava il suo influsso sul mare e sulla terraferma retrostante, ma anche gli appartamenti privati del doge, ormai svuotati delle loro funzioni ma inclusi all’interno dei percorsi museali.

    Ciò che forse è meno noto è quali siano i luoghi che il doge – spesso accompagnato dalla dogaressa – visitava nel corso del suo mandato; quali celebrazioni esigevano la sua presenza, in quali posti della città e perché. Ma anche quali siano e dove si trovino, in giro per Venezia, le raffigurazioni dei dogi, generalmente occultate all’interno di altre opere per aggirare il divieto di avere una propria immagine esposta in un luogo pubblico, visto che la Serenissima non ammetteva il culto della personalità.

    E poi, dove sono sepolti i dogi? Hanno davvero tutti delle tombe sontuose? E dove abitavano, prima di essere eletti? Facendo parte delle famiglie più facoltose della città, i loro palazzi sono ancora in buona parte visitabili, essendo oggi uffici pubblici oppure alberghi in cui l’accesso è possibile e nei quali – talvolta – le atmosfere sono rimaste inalterate.

    Da ultimo, anche le strade di Venezia recano la memoria viva delle tante famiglie che ne governarono i destini per più di un millennio. E se da questa mappatura tutta fisica, organica, palpabile, mancano i dogi appartenenti alle famiglie più antiche – i Candiano, i Partecipazio, i Tribuno, gli Anafesto, gli Ipato, i Flabanico, i Tradonico – le cui vestigia materiali sono perdute o poco visibili – troveremo invece tra queste pagine i Contarini, i Mocenigo, i Correr, i Sagredo, i Marcello, i Valier, i Venier e molti altri, che attraverso le pietre, i dipinti, le dimore rimaste hanno ancora molto da raccontare di una Venezia che ne porta impresse le tracce.

    LE ISTITUZIONI VENEZIANE E IL LORO FUNZIONAMENTO

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    La formazione del sistema costituzionale veneziano, che per convenzione durò esattamente mille e cento anni (dal 697, anno in cui è stabilita l’elezione del primo doge, al 1797, anno della caduta e del dissolvimento dello Stato veneziano), fu un lungo processo che attraversò diverse fasi prima di trovare un sostanziale equilibrio fra i poteri di governo, il cui culmine fu comunque sempre la figura del doge.

    I primi dogi che governarono Venezia furono sostanzialmente creature di Bisanzio, nominati dall’Esarca imperiale di Ravenna, dotati di poteri molto forti (che tentarono a volte di trasferire a figli, fratelli e altri parenti in linea ereditaria, incontrando sempre la resistenza delle classi più elevate dei venetici), chiamati perlopiù a fare da testimoni degli atti dei vari imperatori d’Oriente (sebbene quella veneta fosse una dipendenza dotata di molta autonomia); in questa prima fase della storia veneziana, che viene comunemente definita il periodo ducale, il dogado acquisì le caratteristiche di un governo monarchico elettivo. L’arrivo del corpo di san Marco nell’828, che soppiantò il vecchio patrono greco Teodoro, segnò un primo importante movimento di netta separazione dal potere imperiale.

    E a dispetto del fatto che nei primi tempi di questo autogoverno condizionato dall’Impero romano di Oriente non esista una moneta completamente veneziana (ovvero priva dell’effige di un imperatore, eventualità che si verificherà solo dopo l’anno Mille), già nel 992 fu promulgato un atto imperiale che sancì come quella dei venetici, più che una vera sudditanza, venisse considerata come una presenza ausiliare al potere bizantino.

    Questo periodo storico, denso di tensioni per la conquista del potere, fu traghettato nel successivo periodo comunale nel 1032, quando l’assemblea rifiutò l’elezione di Domenico Orseolo (e anzi bandì in perpetuo tale famiglia dal potere) e affiancò al doge un nuovo corpo amministrativo destinato a sorvegliarne l’operato (in questo caso due consiglieri ducali). Fu l’embrione di ciò in cui si trasformerà lo Stato veneziano, che in questo modo emanò la sua prima legge costituzionale.

    Già in questa fase la figura del doge finì per diventare quella del primo magistrato dello Stato, la cui elezione fu affidata fin dal 1172 a undici elettori scelti dal Maggior Consiglio, formato dalle famiglie più potenti, tanto di origine popolare quanto tribunizia, arricchitesi con il commercio. Di lì a poco gli elettori divennero quaranta e poi quarantuno (evidentemente per evitare fastidiosi ex aequo), e nel 1268 venne stabilito un sistema per l’elezione del doge che, nella sua complessità, arrivò con poche variazioni fino al 1789, con l’elezione del centoventesimo e ultimo doge della Serenissima, Ludovico Manin, che sciolse le Magistrature e gli altri organismi dello Stato sotto la pressione di Napoleone Bonaparte nel maggio del 1797. Dedicheremo un capitolo a parte al sistema elettorale (e anche ad alcuni accorgimenti per imbrogliare le carte con un voto di scambio, almeno per le cariche alle magistrature minori).

    La forma comunale di limitazione del potere monarchico del doge assunse una connotazione sempre più aristocratica, per divenire appannaggio della sola classe patrizia, nel 1297, con la cosiddetta Serrata del Maggior Consiglio, con cui venne stabilito una volta per sempre che a far parte dell’organo sovrano dello Stato veneziano sarebbero stati, di diritto, tutti i membri maschi delle famiglie patrizie della città iscritte nel Libro d’Oro della nobiltà veneziana; una decisione che scontentò molti, come vedremo, ma che traghettò Venezia nel suo periodo aristocratico, destinato a durare fino alla caduta della Serenissima.

    Per la verità esiste anche un passaggio ben preciso tra la definizione di Comune Veneciarum e quella di Dominium Veneciarum, utilizzato assieme a Serenissima Signoria nei documenti in volgare: il 9 maggio 1462 il Maggior Consiglio decreta il mutamento nella definizione dello Stato all’interno del testo della Promissione ducale, della quale parleremo tra poco.

    Se si fa dunque eccezione dei primi tempi, nei quali i poteri del doge erano molto ampi, con l’andare del tempo l’assetto dello Stato finì per relegarlo al ruolo di figura di rappresentanza, assolutamente di spicco ma priva della possibilità di decidere autonomamente sulle questioni di carattere capitale riguardanti i destini della Serenissima. Innanzitutto non poteva rinunciare al ruolo cui era stato eletto (ma poteva essere costretto ad abbandonarlo, come vedremo), né poteva accrescere in alcun modo i poteri che gli erano conferiti. Non poteva ricevere privatamente nessuno, in veste ufficiale, né spedire autonomamente lettere di Stato o esserne il destinatario: «Il Dose», scriveva il cronista e storico Marin Sanudo nel suo De magistratibus urbis, «è quello che è capo della Repubblica, a lui è drezzate le lettere vieneno alla sua signoria, et lui con il suo nome li risponde». Ma quelle lettere il doge poteva aprirle e leggerle solo in presenza dei suoi consiglieri. Non poteva fare donazioni, se non all’interno della sua stessa famiglia, e in ogni caso non poteva riceverne. Non poteva curare più i suoi interessi mercantili ed economici e ogni suo tentativo di influenza nelle nomine nelle varie magistrature sarebbe stato oggetto delle cure degli Inquisitori di Stato.

    Non avrebbe ricevuto nessun compenso per i servigi che rendeva alla Serenissima: nessuna carica pubblica di alto e altissimo livello ne prevedeva. Servire lo Stato era un dovere e un onore, e dare il meglio di sé per Venezia era quanto di migliore si potesse fare nella vita. Versava i contributi allo Stato al pari di ogni altro nobile e non poteva essere omaggiato col bacio della mano o con la genuflessione. Non poteva avere alcuna statua nei campi: il culto della personalità era rigorosamente vietato, e in linea generale, per ogni decisione che riteneva di dover assumere – specialmente quelle importanti – riceveva le attenzioni e l’intervento deciso della Signoria.

    Come vedremo fra un istante, dopo quei primi due consiglieri ducali lo Stato veneziano introdusse altri organi e magistrature nel corpo dello Stato, alimentando abilmente il suo stesso mito, che prevedeva che la città incarnasse il governo perfetto, in grado di armonizzare in sé i tre principi aristotelici di monarchia (che mai poteva divenire tirannia), aristocrazia (alla quale era impedito lo scivolamento verso l’oligarchia) e democrazia (che per il deciso equilibrio con le altre componenti di governo, non poteva trasformarsi in una anarchia).

    La distribuzione del potere a Venezia

    La ricerca costante di un equilibrio e di un controllo tra i diversi organi dello Stato è indubbiamente il filo rosso che unisce i lunghi secoli di autogoverno della Repubblica di Venezia. Se, come abbiamo appena visto, il doge rappresentava comunque un elemento apicale nella complessa macchina amministrativa veneziana, abbastanza articolata era la suddivisione del potere, riassumibile a grandi linee in questo schema, che non tiene conto per esempio del sistema di gestione della Giustizia, degli aspetti militari e diplomatici, dello stuolo di cancellieri, governatori, comandanti, procuratori, savi, camerlenghi, ambasciatori, commissari, comitati e uffici minori che servivano a far funzionare lo Stato da Terra e quello da Mar:

    Doge

    Minor Consiglio – Serenissima Signoria

    Collegio dei Savi Consiglio dei Dieci Inquisitori di Stato

    Senato Consiglio dei Quaranta Proc. di San Marco

    Maggior Consiglio

    Al netto della figura del doge, alla quale è dedicato per intero questo volume («Il primo officio che daghi la nostra Republica alli soi zentilhomeni benemeriti», scriveva ancora il cronista rinascimentale Marin Sanudo su quella che era l’unica carica elettiva a vita della complessa macchina creata per reggere le sorti della Serenissima), vale la pena soffermarsi molto brevemente sui principali organismi dello Stato veneziano, che spesso si compenetravano tra loro (i tre capi della Quarantia formavano per esempio la Signoria assieme al Minor Consiglio) e il cui accesso avveniva sempre per elezione e durava un tempo determinato.

    Al Minor Consiglio – formato inizialmente da sei Consiglieri Ducali, uno per Sestiere (forse una evoluzione della prima nomina di due consiglieri avvenuta nel 1032) – finirono per essere associati i tre capi della Quarantia. Assieme al doge formavano la Serenissima Signoria ed erano sostanzialmente il vertice dello Stato. Se il doge era assente, malato o impedito per qualsiasi motivo a svolgere il suo ruolo, veniva sostituito dal più anziano dei sei Consiglieri.

    Il Collegio dei Savi (che veniva chiamato anche semplicemente Collegio, oppure Pieno Collegio se capitava di essere presieduto dalla Serenissima Signoria) era una sorta di corrispettivo di un moderno Consiglio dei Ministri di una qualsiasi Repubblica democratica. A questo organismo era affidata la politica militare, finanziaria ed estera della Repubblica. Si occupava inoltre di stabilire l’agenda dei lavori del Senato. Era composto da undici membri: sei Savi Grandi, che lo dirigevano e offrivano la guida anche per le sedute del Senato; cinque Savi di Terraferma, che come lascia intuire il nome si occupavano di ogni cosa riguardasse lo Stato da Terra, e cinque Savi agli Ordini, che erano invece responsabili di quanto avveniva nel dogado e nello Stato da Mar. Il Collegio fu creato a partire dal 1380.

    Creato invece nel 1310 a seguito di fatti assolutamente rocamboleschi, come scopriremo nei prossimi capitoli, il Consiglio dei Dieci divenne un organismo definitivo e perfettamente integrato nel sistema veneziano a partire dal 1334. A tale compagine, i cui membri ricevevano un incarico della durata di un anno, era richiesto di salvaguardare la sicurezza della Repubblica e del governo in carica (ma anche per esempio di sorvegliare le attività della chiesa presente sul territorio veneziano, a riconferma della grande laicità che contraddistinse sempre le istituzioni della Serenissima). Al Consiglio dei Dieci furono aggiunti nel 1539 i tre Inquisitori di Stato, con gli stessi ampi poteri ma con una rapidità d’azione infinitamente più efficace.

    Entrambi gli organismi si avvalevano di denunce segrete per svolgere al meglio il loro compito e a tale proposito erano state disseminate in città le cosiddette Bocche di Leone (o Bocche da Denunzia, ancora visibili qua e là, in primis a Palazzo Ducale), in cui qualsiasi cittadino poteva inserire le informazioni di cui disponeva. Attenzione però: segrete non significa anonime. Non era infatti così facile, contrariamente a quanto si possa credere, accusare qualcuno: una legge del 30 ottobre 1387 ordinò che le accuse senza firma dell’estensore, poste nella cassetta del Consiglio dei Dieci, fossero bruciate senza tenerne conto. Un’altra legge del 1542 stabilì che potessero essere accettate denunce anonime in materia di bestemmia, purché nel testo fossero citati almeno tre testimoni presenti al fatto.

    Al Senato si accedeva in genere a fronte dell’età e dell’esperienza (politica, diplomatica, amministrativa) accumulata nel corso dell’esistenza. Quando fu istituito, nel 1229, si compose inizialmente di sessanta senatori ai quali se ne aggiunsero altri sessanta cinquant’anni più tardi (costituendo la Zonta, letteralmente aggiunta: da questa definizione veneziana nasce la parola italiana Giunta, riferita a un consesso governativo in genere locale, come la Giunta comunale). Del Senato facevano inoltre parte il Collegio dei Savi (presieduto dalla Signoria, e dunque il Pieno Collegio) e tutte quelle figure all’interno delle varie magistrature civili e militari ritenute necessarie a prendere le decisioni in un dato momento come ambasciatori, capitani generali, governatori, provveditori. Vi partecipavano anche i Procuratori di San Marco, responsabili del patrimonio marciano, e gli Avogadori de Comun, ovvero gli avvocati di Stato, a cui spettava il compito di salvaguardare gli interessi collettivi con la facoltà di poter sospendere quei provvedimenti ritenuti incostituzionali (una sorta di antesignano della Corte Costituzionale).

    Al momento della sua istituzione il Senato (che deliberava soprattutto sui temi della politica estera della Serenissima oppure delle questioni di maggior rilievo e impellenza nella vita dello Stato) fu definito Consiglio dei Pregadi – ovvero formato da coloro che erano pregati di dare sostegno al doge con la loro esperienza – e con questo nome fu spesso chiamato anche nei secoli successivi.

    Il Consiglio dei Quaranta (meglio conosciuto come Quarantia) all’origine dello Stato veneziano era composto dagli antichi quaranta elettori del doge, al quale poi si affiancavano nel governo; si trasformò nei secoli nel Tribunale Supremo della Serenissima, al quale spettava il controllo delle nomine che avvenivano in Senato e nel Maggior Consiglio. Era l’organismo che sovrintendeva la Zecca di Stato e programmava le politiche economiche e finanziarie della Serenissima. I tre capi della Quarantia sedevano inoltre nel Minor Consiglio, come abbiamo appena visto.

    Ultimo ma non ultimo, in questa ideale raffigurazione piramidale del potere, era il Maggior Consiglio, che in realtà dovrebbe stare sulla sommità poiché era l’organo sovrano della Repubblica (l’equivalente di un odierno Parlamento), cui spettava l’elezione dei membri di tutti gli altri consigli e di ogni magistratura cittadina, ma che soprattutto aveva competenza illimitata su qualsiasi materia fosse di interesse comune. Come abbiamo visto, dal 1297 in poi si compose di tutti i membri maschi sopra i vent’anni appartenenti alle famiglie iscritte nel Libro d’Oro della nobiltà cittadina. Raggiunse il numero massimo di aventi diritto nel 1527: ben 2746 persone, a esclusione di quei nobili che seguivano la carriera ecclesiastica, esclusi dal novero già nel 1498.

    Se arrivati a questo punto vi sentite un po’ confusi, non preoccupatevi: è normale. La straordinaria macchina amministrativa veneziana impiegò diversi secoli a diventare ciò che la rese celebre fra le altre nazioni. E fu anche grazie alla parcellizzazione del potere fra gruppi di persone in grado di controllarsi reciprocamente che la Repubblica poté avere una vita così lunga. Un sistema politico e amministrativo decisamente complesso (che qui abbiamo trattato in maniera necessariamente superficiale), che però è ancora poca cosa, confrontato con il sistema elettorale del doge messo a punto dai veneziani di cui parleremo fra queste pagine.

    Il patriziato veneziano

    Come abbiamo appena visto, il patriziato veneziano non divenne tale per una investitura imperiale, reale o papale (sebbene fosse assolutamente considerato di rango nobile da ogni casata europea, al punto che diversi re di Francia – o gli stessi Savoia – e le famiglie papali romane degli Orsini e dei Colonna non disdegnarono di farvi parte anche solo a titolo onorifico). Ciò avvenne piuttosto per una forma di auto-proclamazione tra le famiglie più antiche – alcune discendenti da qualche famiglia romana (o perlomeno così piaceva loro credere) – che dal 1297 in poi si confinarono in un novero che rimase intoccato per alcuni secoli, ma che infine si dovette piegare alla ragione di Stato.

    Ovviamente, fra le famiglie nobili veneziane ve n’erano di più antiche, le Case Vecchie, dotate dunque di maggior prestigio. Erano venticinque nuclei che presero ben presto l’appellativo di longhi (lunghi, nel senso del maggior tempo trascorso al potere) per distinguersi dai curti, le Case Nuove – la stragrande maggioranza, alcune delle quali potentissime – che contavano soprattutto casati antichi (ma non abbastanza da poter entrare nel novero dei longhi), oppure annessi dopo la Serrata del Maggior Consiglio perché a quel tempo risiedenti a Costantinopoli o ad Acri, oppure ancora cooptati per la fedeltà dimostrata nel corso di una rivolta rimasta celebre, quella di Bajamonte Tiepolo del 1310, alla quale accenneremo.

    L’insieme di queste famiglie nuove si aggirava attorno alle centocinquanta.

    Va aggiunto che tra le famiglie di Casa Vecchia esisteva una ulteriore distinzione: al loro interno ve ne erano infatti dodici definite apostoliche, ovvero i dodici nuclei familiari più antichi del patriziato, e altre quattro chiamate evangeliche, che avevano fondato – secondo la tradizione – il monastero di San Giorgio, sull’isola omonima. Tra le Case Nuove, invece, se ne contavano una quindicina che si definivano ducali, perché entro la metà del Cinquecento erano riuscite a dare almeno un doge alla Repubblica.

    Se si fa infine eccezione per una trentina di famiglie che, distintesi nel corso della guerra di Chioggia nel 1381, acquisirono il diritto di ingresso al patriziato (le case nuovissime), il sistema chiuso della gestione del potere rimase pressoché inalterato per secoli, finché tra Sei e Settecento – nella irrefrenabile decadenza dello Stato e col bisogno continuo di rimpinguare le casse pubbliche – furono aggiunte al novero delle casate aventi accesso al governo della città all’incirca altre centotrenta famiglie, le case fatte per soldo, che furono aggiunte al Libro d’Oro a fronte dell’esborso di centomila ducati.

    Va ricordato che accedere al patriziato non era semplice. Chi ci riusciva faceva il suo ingresso in un mondo, quello dei Nobil Homini (n.h., Nobil Homo, era la sigla che ponevano davanti al nome assieme alla variante n.d., Nobildonna), che prevedeva l’assoluta uguaglianza tra tutti i suoi membri, in cui ogni voto – incluso quello del doge – aveva il medesimo valore e nel quale, perlomeno teoricamente, ognuno aveva la stessa possibilità di accedere a tutte le cariche pubbliche, o finanche di diventare doge.

    Il contraltare di questo sistema era che – se non a causa di gravi crimini commessi – chi entrava a far parte del Maggior Consiglio vi rimaneva (con tutta la sua discendenza, nei secoli dei secoli) anche qualora fosse finito in miseria: alla fine del 1400, secondo una proposta di sovvenzione a favore dei nobili poveri fatta da Francesco Falier e Gabriele Bon, risultarono esservi milleduecentoventicinque patrizi in Maggior Consiglio in cattive condizioni economiche, su un totale di milleottocento. Spesso questi nobili, che pur avendo diritto di governo non avevano nemmeno la possibilità di pagare un affitto, abitavano in case che la Serenissima faceva mettere loro a disposizione nella zona di San Barnaba e per questo motivo erano chiamati Barnabotti dal popolo. Talvolta vendevano ciò che di più prezioso avevano a disposizione: il diritto di voto.

    Ma sul sistema elettorale (e sulle maniere di aggirarlo, talvolta) diremo di più in un altro capitolo.

    PALAZZO DUCALE, CASA DEL POTERE MA ANCHE DIMORA DEL DOGE

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    Fu Angelo Partecipazio, secondo la tradizione, l’undicesimo doge di Venezia, a far edificare un castello in un’area di sua proprietà dopo aver trasferito il governo della antica confederazione di comunità lagunari a Rivoalto dall’originaria Metamauco (a sua volta preceduta da Heraclia). Questo terreno sarebbe lo stesso dove oggi sorge il Palazzo Ducale, che del castello ha solo qualche rimembranza architettonica, poiché è stato notevolmente ampliato e arricchito in ogni secolo. Edificio simbolo della città, casa del potere ed emblema della Repubblica, palazzo al cui interno hanno lavorato i maggiori architetti e artisti di tutte le epoche, sebbene non sia noto il nome di chi per primo lo edificò.

    Anticamente circondato dall’acqua e dotato di torrette laterali, perse via via la sua funzione difensiva (resistette per esempio a una rivolta popolare nel 976) per assumere poi sempre più i connotati della casa di rappresentanza. Solo il fuoco riuscì a intaccarlo alcune volte, e si ricordano almeno tre incendi di grande entità: un primo rogo, nel 1483, distrusse l’ala orientale; ci vollero molti anni per tornare a un assetto omogeneo, e nel corso dei decenni successivi fu ricostruita la Scala dei Giganti, furono aperti diversi passaggi interni e abbattuta una torre d’avvistamento.

    Un secondo incendio, avvenuto nel 1574, sebbene parzialmente controllato, distrusse moltissime opere d’arte presenti nelle sale, tra cui il Giudizio Universale di Jacopo Tintoretto. Tre anni più tardi, però, le fiamme divorarono la Sala dello Scrutinio, facendo sciogliere parte del tetto di piombo. Dopo questa ristrutturazione (di molto successiva alle migliorie che risalgono al periodo del lungo dogado di Francesco Foscari, con la realizzazione della Loggia esterna e dell’arco interno oltre Porta della Carta) non furono apportati sostanziali cambiamenti strutturali nel palazzo, che non fossero l’apertura di nuove finestre e la riconversione del pianterreno con la realizzazione delle Prigioni Nuove, oltre il rio della Canonica, unite al Palazzo attraverso il Ponte dei Sospiri.

    A Palazzo Ducale invece si conserva ancora una parete della famosa prigione della Torresella, coperta dalle iscrizioni graffiate dai personaggi che vi furono rinchiusi nel corso del Quattrocento; la più celebre è probabilmente quella firmata da Luchino da Cremona nel 1458: «Disce Pati», scrive lo sfortunato prigioniero. «Impara a soffrire».

    Non ci dilungheremo a leggere le tracce dogali presenti a Palazzo Ducale, poche o tante che ne siano rimaste; non basterebbero probabilmente le pagine di questo volume, e per chiunque voglia sapere qualcosa di più sui dogi, una visita nella dimora veneziana del potere per antonomasia è obbligata, non fosse altro che per la presenza dei ritratti dei primi settanta di loro appena sotto al soffitto della Sala del Maggior Consiglio.

    Proveremo invece a seguire gli spostamenti che il Serenissimo principe effettuava tra queste stanze. Una volta eletto, il doge era una sorta di prigioniero tra le sale sontuose di Palazzo Ducale. Vi si trasferiva coi familiari più stretti e la servitù e il suo corpo, in qualche modo, diveniva di proprietà della Serenissima che ne disponeva all’interno di protocolli molto rigidi: udienze, riunioni delle varie magistrature da presiedere, messe solenni, uscite concordate, ricevimenti e svolgimento di varie altre mansioni in continua compagnia di consiglieri, cancellieri, membri di questo o quell’altro consiglio…

    Il suo appartamento – dove conduceva la sua vita privata in compagnia dei familiari, degli scudieri e della servitù – si trovava all’interno di Palazzo Ducale, al primo piano, sul lato della basilica. I suoi spostamenti dagli appartamenti alle sale di rappresentanza avvenivano in genere attraverso corridoi e passaggi discreti. Anche la terrazza che si trova all’angolo interno, a destra della Scala dei Giganti (l’unico spazio aperto privato nel quale poteva concedersi qualche minuto di aria e sole lontano da sguardi indiscreti, oggi chiamata terrazza

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