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Ossi - Storia, arte, cultura
Ossi - Storia, arte, cultura
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E-book566 pagine6 ore

Ossi - Storia, arte, cultura

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Info su questo ebook

Ossi. Storia, arte, cultura. Sono queste le tre chiavi che permettono di aprire le porte misteriose della storia di Ossi, un importante centro in provincia di Sassari in Sardegna, che ormai sembrava perduta e di non troppa importanza, specie per la parte medievale, moderna e contemporanea. La storia del paese e del suo territorio viene per la prima volta sviscerata, grazie ad una attenta analisi delle fonti e a moltissime ricognizioni in loco; tutte le opere d’arte che ospita o ospitava sono allo stesso tempo analizzate meticolosamente, con somma attenzione verso i dettagli: niente viene lasciato al caso, perché tutto è storia, anche le semplici minuzie. È un libro di cultura, perché è come una grande lente attraverso la quale si vede un paese diverso, non omologato agli altri come potrebbe sembrare attualmente ma originale, una “cittadella indipendente” quasi, con i suoi grandi nomi, i nobili, i religiosi, la folla di artisti che vi hanno lavorato nei secoli. Tuttavia si parla anche della sua gente, delle sue tradizioni, del suo forte sentire religioso. Mille vite sono racchiuse in questo libro, e tutte parlano. Ascoltiamole. (www.logus.it)
LinguaItaliano
EditoreLogus
Data di uscita30 ott 2012
ISBN9788898062096
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    Anteprima del libro

    Ossi - Storia, arte, cultura - Marcello Derudas

    Ossi. Storia, arte, cultura.

    Versione elettronica I edizione, 2012

    © Logus mondi interattivi 2012

    Codice ISBN: 9788898062096

    Autore: Marcello Derudas

    Editore: Logus mondi interattivi

    Progetto grafico: Logus mondi interattivi

    Contatti:

    info@logus.it

    www.logus.it

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    Marcello Derudas

    OSSI. Storia, arte, cultura.

    *  *  *

    Edizioni

    a Pio XII

    "Ossi. Storia, arte, cultura": questo il titolo del nuovo pregevole lavoro del dott. Marcello Derudas.

    Si tratta dell’opera di uno studioso di consolidata esperienza ma al contempo di un giovane storico che ha voluto raccontare le vicende storiche di Ossi, l’impegno dei rettori che si sono succeduti nei secoli per dare lustro alle strutture architettoniche della cittadina, alimentare la fede, promuovere l’azione pastorale a favore del popolo, con particolare attenzione alle diverse aggregazioni laicali. Queste erano spesso, a loro volta, dotate di oratori privati, nei quali svolgevano le loro pratiche spirituali, ma non solo; si proponevano anche come centri di irradiazione della vita civica e delle attività specifiche, quando si trattava di corporazioni artigiane.

    L’essere l’Autore, al tempo della stesura del primo nucleo dell’opera, non ha affatto nuociuto alla scientificità dei dati, raccolti con puntigliosa precisione e da vastità di fonti e poi aggiornati in crescendo grazie alla sua ammirevole formazione maturata sempre più nel corso di studi seriori. Le informazioni che il Derudas ha via via acquisito e presentato al – mi auguro – vasto pubblico che vorrà leggere queste pagine, provengono da documenti inediti ed editi. Il pregio di quest’opera sta anzitutto nella minuziosità delle notizie che vengono presentate, molte forse per la prima volta, sia ai cittadini di Ossi, primi destinatari, sia a quanti hanno a cuore la storia della nostra meravigliosa e misteriosa Isola.

    Ben ha fatto l’Autore a partire da fonti ecclesiastiche, quali le relazioni delle Visite pastorali, vera miniera di dati nei diversi tempi. E così veniamo a conoscenza del come, lungo i secoli, i vari parroci sono intervenuti nelle strutture, non sempre felicemente, della parrocchiale di San Bartolomeo, delle acquisizioni di opere d’arte, alcune delle quali perdute, altre ancora conservate, i non pochi misteri irrisolti. Inoltre delle aggregazioni laicali storiche, sia quelle che ancora resistono nel tempo, come le Confraternite, sia quelle scomparse, le vicende che hanno portato alla loro nascita, attività religiose e sociali, e successivo declino. Nulla è stato trascurato di quanto nel tempo si è conservato e di quanto a noi non pervenuto.

    Viene così passata in rassegna una galleria di personaggi, ecclesiastici e civili, inquadrati nel loro contesto storico, biografico, che hanno avuto una parte importante nella formazione e nella trasformazione della struttura chiesastica e nella dotazione di arredi sacri. Vengono evidenziati, come era conveniente, i vari interventi degli arcivescovi turritani nelle "Relationes" dei parroci - e loro ai parroci - con la descrizione di quanto è stato fatto e di quanto restava ancora da fare nella chiesa, il rendiconto delle prebende, le iniziative per rendere il cimitero degno del suo ruolo, la politica dei rapporti dei parroci con le aggregazioni, non sempre in piena sintonia con le disposizioni ecclesiastiche.

    Assieme alla parrocchiale vengono presentati altri edifici, ecclesiastici e civili: l’oratorio di Santa Croce, il palazzo baronale, storica residenza dei parroci, di recente acquisito dal Comune, la chiesa di origine medievale di Santa Vittoria e quel gioiello gotico della chiesa di San Giovanni di Noale; il tutto con dovizia di particolari, contestualizzati nella storia del paese, e ampia documentazione riportata in nota, con metodologia precisa.

    Una ulteriore parte riguarda la descrizione del corredo storico-artistico conservato nelle varie chiese, letto con opportuni e precisi raffronti. Veniamo quindi a conoscere, quando possibile, l’origine e la datazione delle numerose sculture lignee; particolarmente pregevole quella del titolare della parrocchiale, San Bartolomeo, ma anche quella di San Giuseppe, Sant’Antonio abate, Santa Lucia, Immacolata Concezione, Sant’Isidoro. L’Autore, opportunamente, come si diceva, le ha raffrontate con altre dello stesso periodo, custodite nelle diverse chiese della Sardegna e non solo.

    Non meno interessante la rassegna dei dipinti: i Santi martiri turritaniAnime del PurgatorioSan Bartolomeo, unitamente a quei dipinti di cui si ha notizia dai vari documenti, ma dei quali si è perduta ogni traccia. Di notevole importanza anche l’elenco dell’argenteria e lo studio approfondito sui punzoni che ne denotano la provenienza e il tempo di esecuzione.

    Altre notizie il lettore le scoprirà da sé, man mano che procede nella lettura dell’opera, la quale merita la massima attenzione ed arricchisce la conoscenza della città di Ossi, mette in evidenza l’attaccamento alla fede secolare dei suoi abitanti e il loro amore verso la propria Chiesa particolare, espressa anche dalla cura con la quale hanno sempre circondato la chiesa-edificio.

    Pietro Desole *

    Sassari, 25 ottobre 2012

    Festa dei Santi Martiri turritani, Gavino, Proto e Gianuario

    *Già docente di storia dell’arte presso l’Istituto statale d’arte Filippo Figari di Sassari, Segretario della Commissione diocesana d’arte sacra.

    Introduzione

    La Sardegna ha un ricco patrimonio culturale, sviluppatosi nei secoli con non poca autonomia rispetto al resto dell’Europa.

    Secoli di dominazioni esterne hanno fruttato all’Isola opere artistiche di alto valore, originalità e importanza. Anche se i sardi non si sono mai dimostrati particolarmente solerti per quanto riguarda la conservazione di tali opere, moltissime di queste sono giunte sino a noi e testimoniano ancora, con la loro bellezza, gli stretti legami che l’Isola manteneva in passato con i ricchi ambienti culturali e artistici della penisola e dell’Europa. Tutto questo a dispetto di chi ritiene che la Sardegna sia sempre stata una terra arretrata e povera sotto ogni aspetto.

    Anche il paese di Ossi, nel suo piccolo, ha mantenuto intatte molte vestigia del suo passato. Questo lavoro le presenta in dettaglio ripercorrendone la storia dalla fine dell’età antica alle soglie dell’età moderna, offrendo così le conoscenze necessarie per analizzare le importanti chiese medioevali del territorio. Ma non solo. Una consistente parte del volume ricostruisce dettagliatamente anche la movimentata storia delle tre chiese principali del paese permettendo così di conoscere le vicende e i personaggi che nel corso dei secoli hanno contribuito a costruire il suo attuale patrimonio culturale. La parte finale, adeguatamente introdotta dalle due sezioni appena esposte, si presenta infine come un preciso catalogo delle importanti opere d’arte sacra presenti ad Ossi, la cui conoscenza, si spera, contribuirà ad arricchire il vasto panorama della storia dell’arte in Sardegna, in molti aspetti ancora da riscoprire e valorizzare.

    L'autore

    PARTE I

    Ossi e il suo territorio 

    nel medioevo

    "Or dov’è il suono

    Di que’ popoli antichi? or dov’è il grido

    De’ nostri avi famosi, e il grande impero

    Di quella Roma, e l’armi e il fragorio

    che n’andò per la terra e l’oceano?

    Tutto è pace e silenzio, e tutto posa

    Il mondo, e più di lor non si ragiona".

    (Giacomo Leopardi, La sera del di festa)

    Avvertenza

    Il territorio di Ossi è ricco di testimonianze storico-archeologiche che coprono un lasso di tempo assai esteso, dall’età prenuragica ai giorni nostri. Questa prima parte del lavoro, pertanto, affrontando alcuni aspetti della storia del territorio nel medioevo non ha la pretesa di essere esauriente né precisa. Premesso che l’intero volume è aggiornato al gennaio 2011, essa vuole soltanto esaminare alcune delle molteplici tematiche legate all’argomento - segnatamente in riferimento alle preziose informazioni contenute nei condaghes e nelle altre fonti ecclesiastiche - ma non approfondisce ulteriori altri aspetti dell’argomento, che l’Autore si augura di poter affrontare in futuro in altra sede.

    I - Introduzione

    Il territorio di Ossi è sempre stato popolato, sin dalla remota preistoria. I primi insediamenti sono da collocarsi addirittura al IV millennio, come le necropoli neo-eneolitiche di Mesu ‘e montes, Noeddale, Littos Longos, S’isterridolzu, S’adde ‘e asile ed altri siti.¹ Anche per il periodo punico-romano le testimonianze non mancano. Nella necropoli in località Sant’Antonio sono state rinvenute diverse steli "sardo-puniche" utilizzate dai romani² per rivestire le pareti di alcune tombe. Dei volti stilizzati compaiono su 21 di esse, e tra tutte risalta la cosiddetta Os. 19, dove la rozza figura pare inquadrata in una sorta di edicola.³

    I romani riutilizzarono anche altre strutture precedenti del territorio, come siti nuragici e prenuragici, per esempio, adattandone le costruzioni ad uso abitativo o – spesso – funzionalmente allo sfruttamento agricolo dell’area circostante. Sono numerosissimi i rinvenimenti di utensili, idoli, monete e sepolture in differenti siti. Ricordiamo solo le due tombe alla cappuccina ritrovate presso l’abitato - contenenti un modesto corredo e una moneta di Gordiano III (238 – 244 d.C.) -, le numerose monete di età repubblicana trovate presso i nuraghi Biancu e Pianu ‘e marras, le tracce di strutture abitative e l’alto numero di frammenti di vasellame ritrovati in località Sant’Antonio e Su montigheddu (quest’ultimo sito è di particolare interesse per le discrete tracce ancora visibili di un grosso insediamento), il piccolissimo Ercole bronzeo ritrovato nel 1930 presso Biddichénnaru. Nel 211/212 d.C. fu dedicata ad Ossi un’epigrafe a Giove Santo Dolicheno,⁴ mentre nel 270 una dedica epigrafica venne realizzata dai provinciali per commemorare la scomparsa di Quintillo, già governatore di Sardegna.⁵ Altre evidenti tracce di frequentazione romana sono state trovate presso il nuraghe di Tresnuraghes (dolia confitte nel terreno e resti d’un ambiente vicino), di Sa mandra ‘e sa giua (ossa di animali e alcuni vasi) e Mandra ‘e musa (sepolture tarde ma difficilmente databili). Riferisce inoltre il canonico Spano, commentando il La Marmora, che Ossi era (ed è) un paese dove si trovano con frequenza oggetti di antichità. Menziona come esempio un deposito di æs grave (vale a dire bronzo pesante, termine col quale si indicavano dagli antichi storiografi le monete fuse nella prima età repubblicana) e un ripostiglio di monete d’epoca consolare.⁶Questo per quanto riguarda l’età antica.⁷

    Per il medioevo le testimonianze archeologiche sono inferiori per numero (ma non per importanza) e si uniscono ad un altrettanto esiguo numero di tracce – almeno visibili - sul territorio. La primitiva presenza bizantina in questo periodo è da considerarsi comunque certa. I santi venerati nel territorio appartengono quasi tutti al menologio d’Oriente⁸e non mancano neppure i ritrovamenti probatori, seppur nelle vicinanze di Tissi (un fermaglio con placca ad U risalente al VI-VIII secolo).⁹ Tuttavia, mentre per il periodo bizantino su Ossi e il suo territorio le fonti documentarie non riportano alcunché, per il periodo giudicale la situazione è ben diversa.¹⁰ Le prime testimonianze documentarie che possediamo sono infatti contenute nei condaghes di San Michele di Salvennor e di San Pietro di Silki (X – XIII secolo ca.), importanti fonti del medioevo giudicale sardo. Sono, queste, testimonianze di alto interesse che mostrano come il territorio – ancora alle soglie del secondo millennio - fosse densamente popolato e sfruttato, segno di una costante e tenace persistenza della presenza umana in queste terre esigenti ma generose.

    Gli insediamenti attestati dai condaghes sono ben sette, tutti concentrati nella parte centro-meridionale del territorio attuale: Magar, Briave, Sìlvori, Bilikennor, Ossi e Save. Non è menzionato mai, invece, nemmeno nella figura di qualche suo abitante Noale (o Novale), nonostante fosse un centro ricco e vasto, come in seguito si vedrà. Tutti questi centri, escluso Briave, appartenevano alla curatoria di Coros, istituita dai giudici su parte delle terre abitate un tempo dagli antichi korakensioi.¹¹

    Dopo i condaghes numerose altre fonti riportano notizie sui villaggi, spesso di carattere meramente economico (registri fiscali pisano-aragonesi, registri delle decime ecc.). L’ultima testimonianza sui piccoli centri è quella postuma dello storico G. F. Fara, alla fine del XVI secolo, che conobbe solo i miseri resti di quelli che un tempo erano stati piccoli ma floridi abitati.

    Riprendendo il discorso iniziale, bisogna ribadire già dal principio come l’origine delle ville sia strettamente connessa alla persistenza in situ di una presenza umana preesistente. Sappiamo per certo, infatti, che la zona ove sorgevano ospitava abitati già dall’epoca prenuragica, protrattisi tra alti e bassi sino alle soglie del medioevo, passando per l’epoca romana e pre-romana.

    Molti erano i motivi che potevano favorire lo sviluppo e/o la nascita di un villaggio. Il prosperare di ricche domus signorili, per esempio, oppure particolari caratteristiche del territorio, favorevoli alla vita e alla produzione agricola, potevano costituire validi motivi per stabilirsi in una determinata area e fondarvi un insediamento stabile. Tuttavia la cifra caratterizzante degli insediamenti medievali sardi – nonostante la loro grande vitalità e il loro relativo benessere - era l’instabilità. I centri nascevano velocemente e altrettanto velocemente potevano scomparire. Bastava un’epidemia (anche di breve durata), una cattiva annata, una carestia, l’esaurirsi di una vena d’acqua o altre calamità naturali per provocare l’abbandono totale o parziale di un insediamento. A volte influivano anche problemi causati da questo o quell’altro signore, oppure altre disgrazie che ai nostri occhi possono addirittura apparire futili.

    Sapere come si svolgeva la vita quotidiana in questi piccoli centri, principalmente dediti all’agricoltura, all’allevamento e a elementari forme di commercio, è abbastanza semplice. Basta leggere le realistiche scene di vita descritte nei vari condaghes per vedere come fosse sempre vivo un continuo lavorio di servi o di liberi, scambi di merce, donazioni e acquisti (e non mancavano spesso liti e diatribe su possessi di terre o servitù). Ogni villaggio – piccolo o grande – possedeva il suo saltus incolto e verdeggiante (di solito utilizzato per il pascolo del bestiame), ma nemmeno era privo di una silva, indispensabile per ricavarne legname da riutilizzare per i più svariati usi. La superficie annualmente coltivata costituiva di solito la metà dell’aratorio disponibile. Quest’ultimo, diviso in due parti (metodo dei due campi), veniva coltivato a momenti alterni. La coltivazione della vite, peculiarità per esempio del territorio di Magar, Bilikennor, Briave e Save, era un’altra fonte di reddito per i centri agricoli. Posti all’interno di comprensori vigilati, spesso i vigneti erano dotati di ripari, ricoveri e locali di raccolta per le attrezzature. Non raramente vi si poteva trovare anche una chiesa, e questo non deve stupire in un’epoca come il medioevo, in cui anche la vita civile e lavorativa erano intrise di religiosità.

    Per quanto riguarda la caccia, i popolani praticavano solo la caccia minore alla piccola selvaggina della boscaglia, mentre la caccia grossa (in silva) era esclusivamente riservata al giudice ma anche a qualche donnu e curatore. La caccia era particolarmente redditizia, dato il grandissimo numero di tratti boschivi che la Sardegna nel medioevo poteva vantare.

    La moneta non era molto utilizzata. Nelle transazioni si ricorreva di solito a scambi equi di merce varia: tessuti, sementi, grano, animali o, raramente, argento lavorato o altri materiali preziosi. Fu solo con l’insediarsi dei pisani e dei genovesi che l’economia sarda assunse anch’essa carattere prevalentemente monetario, a vantaggio quasi esclusivo dei ceti più alti. Soltanto in un secondo momento la monetizzazione riuscì a raggiungere anche gli strati sociali più bassi.

    La popolazione dei piccoli borghi rurali, nei casi più documentati, era composta da un misto di servi, di liberi e di affrancati, anche se non è da escludersi l’esistenza di villaggi di soli servi o soli liberi. Rappresentante degli abitanti era il pupillo o il mandatore, che esercitava per essi funzioni tutelari e di rappresentanza legale. I poteri territoriali erano invece mantenuti da ufficiali, i majores o i curatores, certamente in origine rappresentanti diretti del potere giudicale.

    Quasi tutta la vita del centro si svolgeva intorno alla chiesa, spesso posta assai vicino al raggruppo di case e preceduta da uno spiazzo (corte). Le chiese non erano soltanto luogo di preghiera e di spiritualità ma anche un luogo di incontro, riunione e discussione. Ci si riuniva nella chiesa perché era l’edificio nobile, l’unico ad essere costruito in perfetti blocchi di pietra e secondo ogni regola d’arte, apparendo così bello, solido e sicuro (materialmente e metaforicamente).¹²È proprio per questa loro solidità e ricchezza di materiali che le chiese, nel 70% dei casi, sono sopravvissute nonostante la fine del villaggio circostante e il loro successivo abbandono. Le case, invece, ad un solo piano e assai vicine una all’altra, venivano erette con materiali più deperibili, come pietre legate con malta, legno e coccio per le tegole di copertura. Il Condaghe di San Gavino al proposito è assai eloquente quando dice: in tota Sardingia non si accataat domo qui esseret de calchina, si non esseret ponte, over ecclesia.¹³ Solo i ponti e le chiese erano costruiti con materiali pregiati e durevoli (ma si possono aggiungere anche i castelli, le rocche militari e i non molti palazzi nobili delle città).

    I confini del villaggio erano naturali: una pietra, un rudere preistorico, un albero particolarmente grande, un ruscello, un sentiero, una recinzione a secco. Esso nasceva per la terra e con la sua terra viveva in simbiosi, poiché ne ricavava il proprio totale sostentamento. Quando la terra apparteneva liberamente alla collettività era definita populare, come testimoniano i vari condaghes. Talora alcuni donnos avocavano a sé – con l’avallo giudicale - l’usufrutto di terreni pubblici del regno o di populares tramite la cosiddetta secatura de rennu. I giudici favorivano tale procedura poiché era un utile mezzo per incentivare il popolamento e lo sviluppo economico delle campagne. Non è improbabile che i piccoli villaggi che ci riguardano siano stati nelle mani di qualche potente donnu che li ottenne dal giudice stesso. Save, Magar o Briave potrebbero essersi sviluppati in queste condizioni. Si vedrà più avanti come alcuni villaggi potevano essere indonnicati dal giudice anche a un particolare monastero, che da quel momento godeva dell’usufrutto totale del centro e dei suoi abitanti.¹⁴ Spesso le donazioni agli ordini religiosi consistevano in vasti appezzamenti bisognosi di trasformazione e risanamento. Questi grandi lasciti avvenivano principalmente per benevolenza alla Chiesa, per il suffragio futuro alla propria anima, ma anche per mostrare la propria munificenza. Le chiese di Noale e Bilikennor, per esempio, furono concesse in questo modo ai monaci di Vallombrosa.

    A partire dal XII secolo e sino al XIV il regime di servitù – caratteristico del sistema lavorativo ed economico sardo - si sciolse definitivamente. Ogni abitante divenne indipendente, titolare di una sua abitazione e di un proprio appezzamento. Il dissolversi del regime servile avvenne, non a caso, in concomitanza del radicarsi della presenza genovese-pisana prima, e aragonese poi. Le influenze straniere, infatti, allontanarono sempre più l’isola dai suoi arcaici sistemi produttivi e socio economici. Tra i nuovi profili sociali che ben presto emersero, il fuoco è quello che meglio illustra la nuova organizzazione dell’abitato sardo post-giudicale.¹⁵ Il termine fu da subito utilizzato per indicare ogni singolo gruppo familiare nel villaggio, con evidente riferimento al focolare attorno al quale ogni famiglia si stringeva. ¹⁶

    Anche nella geografia politica del territorio vi furono sostanziali cambiamenti: tutto ridivenne demanio, le signorie fondiarie scomparvero, i vari saltos dei villaggi vennero ridisegnati. Ogni comunità rurale divenne padrona assoluta del proprio territorio, non soltanto di fatto ma anche di diritto. I documenti più eloquenti a questo riguardo sono alcuni registri fiscali pisani risalenti alla prima metà del ‘300. Essi registrano tutte le nuove disposizioni tributarie a carico dei villaggi e delle città dell’Isola:

    Il datium monetario che gravava su ogni villaggio in base alle sue dimensioni, alla sua popolazione e ai suoi introiti (monetari e in beni d’uso). Gravava su ogni singolo fuoco del villaggio ma anche sui celibi maggiorenni, anche se in misura diversa (solitamente minore).

    Un tributo in natura, di solito cereali (laore) o bestie vive. Questo contributo non veniva imposto se il villaggio svolgeva un ruolo di difesa territoriale o di contorno ad un castello, oppure se era stato fondato da poco tempo. Non vi era nessun collegamento proporzionale tra il datium e il laore (o le sue varianti).¹⁷

    Un contributo per la coltivazione della vite, proporzionato al vino prodotto al momento della vendemmia. Non è chiaro se si trattava di un tributo per l’utilizzo del torchio regio (o del signore del luogo) oppure un censo sulla vigna coltivata (il cosiddetto diritto di fondo).

    Fitti e terratici per l’usufrutto dei saltus e delle altre terre demaniali non riconosciuti come proprietà del proprio villaggio.

    Un censo per i servi affrancati (che con il passare del tempo si fonderà però col datium).

    A questi censi se ne affiancavano degli altri riguardanti i lavoratori a corvées, i liberi et terrales ab equo e i mercatores. I guadagni che Pisa ne trasse furono ingenti. Soltanto nella prima metà del XIV secolo le entrate sarde al netto consistevano nel 39% del totale. Dall’isola partirono ben centomila fiorini, mentre se ne erano spesi soltanto 8.804 per la riscossione.¹⁸

    Tutti questi cambiamenti e intromissioni da parte di altre potenze non avvennero certo senza sconvolgimenti politici. Pisa e Genova, due grandi città marinare, ora con mezzi politici ora con matrimoni di interesse e forzature, erano riuscite a incunearsi nella società giudicale sarda pregiudicandone irrimediabilmente l’immunità e l’indipendenza. Nel 1257 morì l’ultima sovrana del giudicato di Torres, Adelasia figlia del giudice Mariano II de Lacon. La donna aveva sposato prima Ubaldo Visconti poi Enzo, figlio di Federico II di Svevia. Il suo regno fu usurpato – dopo anni di influenza diretta su di esso nelle vesti ufficiali di vassalli - dai Doria e da altre famiglie genovesi, che condussero presto una sistematica opera di riorganizzazione statale e fiscale dopo un breve intervallo pisano.

    Il quattro aprile 1297 l’isola venne infeudata da Bonifacio VIII a Giacomo II d’Aragona con la bolla Super reges et regna. Il pontefice cercò così di allontanare gli aragonesi dalla Sicilia a favore degli angioini e, specialmente, di estromettere definitivamente la nemica Pisa dal controllo (seppur parziale) dell’isola. Giacomo, divenuto Re di Sardegna e Corsica, riuscirà a prendere possesso effettivo dell’isola solo tra il 1323 e il 1324, giacché né Pisa, né Genova né il giudice d’Arborea accettarono la decisione papale. L’Arborea tentò in più di contrastare militarmente gli aragonesi ma con infelici esiti. Nel 1409 le truppe sarde vennero sconfitte nella battaglia di Sanluri, e così nel 1478 (battaglia di Macomer). Già dal 1340, inoltre, si erano aggiunte alle caotiche vicende belliche cattive annate agricole (che spesso precedevano o seguivano forti epidemie). La più catastrofica carestia del secolo nei paesi mediterranei avvenne nel 1374, seguita da una seconda nel 1421 e da una terza nel 1540. Quest’ultima, la più terribile, portò le persone rimaste senza cibo a consumare cani, topi e – addirittura – i propri figli. A tutto ciò si aggiunse anche la temibile peste nera, vero flagello del medioevo europeo. Tra la pandemia del 1348 e la fine del XV secolo, la Sardegna subì sette epidemie di peste (nel 1347/1348 sino al 1350, 1376, 1398, 1403/1404, 1410, 1422, 1424, 1476 e 1477). Per esemplificarne bene la portata distruttiva, si consideri quest’esempio: nel primo ‘300 la Sardegna poteva contare un fuoco rurale per Km quadrato; verso il 1359 – al termine della prima grande epidemia – si ritrovano solo due fuochi ogni 3 Km quadrati.¹⁹ Alla peste si aggiunse anche la malaria, che nello stesso XV secolo spezzò migliaia di vite umane. Proprio per questa serie di sventure la popolazione (ormai diminuita e assai insicura nelle campagne) si spinse in massa verso i centri più grandi lasciando in abbandono case, chiese e terreni, mentre si sfaldava inesorabilmente anche il sistema amministrativo-fiscale che sia i giudici sia i pisani e i genovesi avevano a loro tempo imposto. In tutta l’Isola furono decine e decine i villaggi che scomparvero in quegli anni (tra il 1325 e il 1500 solo nell’area turritana scomparvero più di 170 centri). Il numero di nuclei abitati nelle zone agricole passò da 318 nel 1300-1324 a solo 150 nel 1485 (- 52,8 %).²⁰ Di ognuno di essi scomparve ben presto ogni traccia. Scomparvero addirittura intere diocesi, svuotate e impoverite dalle disgrazie, dalle malattie, dalla guerra e da aliis sinistris eventibus.²¹ Restarono solo le chiese, mute testimoni di un passato prima florido poi doloroso.

    Ossi e i villaggi del suo territorio furono particolarmente oppressi e provati durante anni di lotte e invasioni. Entrarono in un primo momento nei possessi dei Malaspina dopo la caduta del Giudicato di Torres (parallelamente alla lenta uscita di scena dei vallombrosani e degli altri monasteri proprietari di molte terre dei suoi dintorni). Tuttavia, nonostante il giuramento di fedeltà fatto dalla famiglia genovese al re d’Aragona, nel 1325 i Malaspina appoggiarono la ribellione dei Doria contro i nuovi padroni dell’isola. Il sovrano inviò Giovanni Cardona a combattere contro gli insorti traditori (1330), il quale occupò le terre dei genovesi compresi i villaggi, i cui abitanti furono loro malgrado coinvolti nella guerriglia contro l’inviato del re e i suoi soldati. I Malaspina riuscirono comunque a conservare i loro possedimenti, ma solo sino al 1342, quando il marchese Giovanni Malaspina morendo lasciò ogni cosa al re Pietro IV d’Aragona. Gli eredi del defunto insorsero, coinvolgendo ancora una volta i centri in una resistenza logorante, conclusasi nel 1353 con la sottrazione definitiva dei beni alla famiglia genovese.²² Ma la maggioranza dei villaggi era ormai troppo debole per riprendersi. Nei decenni seguenti la popolazione diminuì drasticamente, come si vedrà più avanti, sino alla definitiva scomparsa di molti di essi già alla metà del secolo seguente.

    Il fenomeno delle Wüstungen, dei villaggi abbandonati, è effettivamente una delle più inquietanti e al contempo originali peculiarità del medioevo sardo. In nessun’altra parte d’Europa è stata mai rilevata una percentuale d’abbandono così alta e disastrosa. I centri che più risentirono della grave situazione dell’Isola furono quelli ad economia agricola (tra il 1324 e il 1485 si spopolarono il 59,7% dei centri agricoli) e quelli ad economia pastorale (ne scomparve ben il 60,1%).²³ La campagna, in generale, perdette molto valore abitativo rispetto alle grandi città. I saltos e i campi abbandonati dai vecchi proprietari non vennero più riutilizzati come terreno agricolo ma divennero libero terreno da pascolo. I nuovi grandi feudatari stranieri raccolsero nelle loro mani tutti i piccoli lembi di terra abbandonati, facendone loro esclusivo possesso. Ad ogni feudo fu imposto un contributo in uomini d’arme (in particolare nella prima difficile fase di insediamento iberico) conforme alle proprie capacità. Naturalmente i ruoli politico/amministrativi all’interno del villaggio cambiarono. La figura principale divenne, a seconda dei casi, il majore de iscolca o il majore de villa (gli studiosi non sono comunque d’accordo sullo specifico ruolo che queste figure avevano). Il majore godeva anche di alcuni collaboratori, gli juratos, eletti annualmente tra le persone del villaggio. Tuttavia vi erano anche altre figure importanti nel villaggio tardomedievale sardo: il majore de pradu e il majore de saltu. Il primo si occupava – similmente al majore de villa – dei piccoli atti ordinari di giustizia e controllo della comunità (ruberie, soprusi, vendite, ecc.). Il secondo sovrintendeva invece (ma con minori poteri decisionali e minore autorità) ai vari saltos e coltivi del villaggio, controllava inoltre i segnali di confine tra i vari appezzamenti, l’uso dei beni naturali demaniali ma anche il loro eventuale abuso.²⁴

    Nel momento in cui gli aragonesi riuscirono ad ottenere definitivamente il controllo totale della Sardegna (dopo la chiusura degli ultimi conflitti con gli occupanti pisani ma anche con la popolazione locale), la maggioranza dei piccoli centri abitati sopravvissuti si era ormai quasi stabilizzata. Alla fine del ‘400 il numero dei villaggi sardi si aggirava intorno ai 360.²⁵ In più il numero dei fuochi, dopo la calata vertiginosa di qualche decennio prima, iniziò ben presto ad aumentare nuovamente. Nel 1485 la densità dei fuochi è di 57,8 unità, mentre nel 1589 aumenta sino a 162,1 unità.²⁶ Un aumento considerevole riguardò altresì la popolazione rurale, nonostante i continui alti e bassi demografici cui sarebbe stata soggetta negli anni successivi.²⁷

    II - Ossi

    Il territorio attorno all’attuale nucleo antico del paese di Ossi fu popolato sin dalla preistoria ma una persistenza umana si è avuta certamente sino all’epoca bizantina, età romana compresa. Il primo gruppo stabile di case nacque in epoca imprecisata (e comunque anteriormente al Mille) attorno al sito dove oggi sorge il cuore del centro storico, all’altezza del sedicesimo miglio dell’antica strada romana che andava da Torres verso Karales, ma solo sotto il governo giudicale, sul finire del primo millennio, vide un’improvvisa fioritura. All’inizio il villaggio non era dissimile dagli altri vicini: una piccola chiesa bizantina o protoromanica – sicuramente di dimensioni ridotte – circondata da semplici abitazioni, muretti a secco e piccoli orticelli, magari fiancheggiati da folta vegetazione e stretti sentieri che si inerpicavano per il leggero declivio di quella rocca che, ancora nell’Ottocento, veniva chiamata col nome tutto medievale di iscala de Cheja.

    La prima testimonianza documentaria certa che abbiamo sulla sua esistenza è relativamente tarda: risale al 1341.²⁸ Si tratta delle notizie forniteci dalle schede registranti l’avvenuto pagamento della decima alla Santa Sede da parte della villa d’Ossi.²⁹ Nel 1341, al 14 giugno, domino Iohanne rectore ecclesie de Orssi versò tre libre di decima in alfonsini minuti (RDS scheda 5).³⁰ Altre sei libre furono versate il 13 settembre dello stesso anno, sempre dal medesimo rettore (6). Nel 1342 il rettore Iohanne Casei versò al 25 settembre nove libre in alfonsini. Nel 1346 sempre il rettore Casei versò (al 27 giugno) due libre e due soldi in fiorini (1263). Al 30 agosto dello stesso 1346 versò ancora una libra e otto soldi (1724). All’ultimo giorno di ottobre versò invece una sola libra (2019). Nel 1346 sappiamo che la ecclesia di Orsis pagò due libre di decima ma, questa volta, non è più menzionato il rettore versante (2253).³¹ Da questo momento in poi le fonti – per quanto concerne Ossi – tacciono per altri dodici anni. Nel 1358 il villaggio contava ventisette homens de pagar daci (fuochi con relativa imposta) e trentadue homens d’armes, cresciuti a trentanove nel 1485. Il contributo in denaro imposto al paese – proporzionato alla sua popolazione - fu di quattordici lire e nove soldi, comprese le maquicies (multe).³² Queste informazioni economiche - seppur ridottissime – permettono di definire sommariamente la situazione pecuniaria dell’abitato. Non era particolarmente ricco (come i vicini Magar e Noale) ma non poteva certamente dirsi povero. La sua situazione, alle soglie del ‘400, non era diversa da quella della maggior parte dei villaggi dell’epoca, tassati dai nuovi padroni e per di più prossimi al totale tracollo. Nel 1325 i Malaspina, che avevano preso possesso della curatoria di Coros e, accorpatala alle altre di Montes e Figulinas (cui apparteneva anche la villa di Briave), dopo aver unito il tutto alla confinante baronia d’Osilo già in loro possesso, trascinarono seco il villaggio nell’insurrezione contro gli aragonesi.³³ Nel 1420, quando ormai i Malaspina erano stati esautorati definitivamente da tempo (1353) e dopo che le rivendicazioni del visconte di Narbona erano cadute nel vuoto, il villaggio entrò nel novero di quelli affidati dal re a Bernardo Centelles. Tuttavia una lettera del re Pietro il Cerimonioso data a Valencia il 25 febbraio 1362, documenta la consegna della villa di Ossi, ancora segnalata nella baronia di Osilo, al cittadino sassarese Bernardo Salou. Esecutore della consegna fu il governatore del Caput Lugudoria Pedro Alberti.³⁴ Nel dicembre 1380 il re Pietro IV d’Aragona concesse i villaggi di Ossi e Save, assai vicini, a Borsolus (Bartolomeo?) Sirgo di Alghero in cambio del servizio per tre mesi all’anno di due cavalli alforrats. La lettera fu data in Saragozza, il giorno 8 dicembre 1380. La donazione si colloca quindi 18 anni dopo l’offerta del villaggio di Ossi a Bernardo Salou da parte di Pietro il Cerimonioso (1362).³⁵

    Fu comunque ancora un Centelles, Francesco Gilaberto figlio del suddetto Bernardo, a concedere a sua volta Ossi al cognato Angelo Cano (1438), come dote per sua sorella. Il figlio del Cano lo restituì allo zio nel 1447 assieme all’intera curatoria di Coros, per finire poi nelle mani dell’erede Antonia Cano. Questa sposò prima un Cedrelles nel 1469 e poi Giovanni Fabra. Gli eredi Fabra si disputarono il villaggio con i Cedrelles sino al 1512, quando il centro finì definitivamente in mano a questi ultimi sino al 1543.³⁶ Nel marzo 1545 Ossi e Muros furono venduti a Bernardo di Viramont da Galcerando Cedrelles per 7500 ducati d’oro. Alla morte del Viramont sua moglie cedette le ville di Muros ed Ossi all’algherese Giovanni Durant Guiò³⁷ (25 febbraio 1550) per pagare gli ingenti debiti ereditati dal consorte. Il prezzo fu di 8000 lire, più 12000 lire di carichi, per un totale di 20000 lire. I Guiò avrebbero controllato il villaggio e le sue pertinenze sino al 1690, anno in cui la linea diretta di successione cessò e la villa entrò in questioni d’eredità particolarmente turbolente e complesse fino ad approdare in mano agli Amat nel 1732.³⁸Esula dal nostro intento soffermarci sui successivi passaggi di proprietà della villa di Ossi, ridotta a merce di scambio nelle mani di una nobiltà mai troppo generosa nei suoi confronti. Bisogna però riconoscere che è forse stato il primitivo provvidenziale infeudamento ad una ricca famiglia quale quella dei Guiò a salvare il villaggio dal tracollo. Il piccolo ma tenace centro riuscì a superare (non sappiamo a quale prezzo) le terribili pestilenze e carestie del XIV e XV secolo sino a quella del 1540; riuscì certamente ad attrarre a sé gli abitanti dei villaggi vicini e delle campagne (rimasti invece duramente provati); e riuscì – di conseguenza – ad ingrandirsi velocemente, tanto da richiedere (in poco meno di 150 anni) il rinnovamento della chiesa parrocchiale (ampliata e modificata a più riprese tra il secondo quarto del XVI e l’ultimo XVIII secolo), oltre a vedere eretto nel proprio centro un nuovo palazzo signorile (XVII secolo) e altri palazzotti non meno eleganti.

    In questo momento nacquero i primi nuclei dei quartieri storici del paese: Intro ‘e Idda (che ben presto ne divenne il centro), S’Iscala,³⁹ Pascasi, S’adde e

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