Fiabe di Carloforte
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Anteprima del libro
Fiabe di Carloforte - Ignazio Pepicelli Sanna
Ignazio Pepicelli Sanna
Fiabe di Carloforte
illustrazioni di Paolo Spadaro
ISBN 978-88-7356-908-4
Condaghes
a Roselin
i cui anni infanti
e di prima giovinezza
sono in fondo una fiaba
Indice
Lingua e identità
Nota dell'Autore
Fiabe di Carloforte
Il cece affarista
Il pescatore arguto
Il bue bianco
Sole e Luna
La Morte
La minestra con le fave
Pitirinchìn
La sposa colomba
La piuma colorata
Le pecorelle zoppe
Il grillo e il gatto
Ceciolino
La sposa raganella
Pochetìn
Il merlo e il corvo
Fùe d’u Pàize
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Grillu
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A Mórte
A bóbba
Pitirinchìn
Tricchi tricchi rumpi giora
Pe ‘na scciümma d’ôxéllu de cù
Pégue gianche e pégue ranghe
U grillu, u gattu e...
Sciaixéttu
Rana rana
Pôchetin
U merlu u l’acugiuñe u cróu
Scuola e formazione
L'Autore e gli Illustratori
La collana Il Trenino verde
Colophon
Lingua e Identità
Eccola, Carloforte!
Scendendo dal traghetto me la ritrovo davanti, assolata e ridente, le ornate facciate delle case che incorniciano il lungomare.
I passi vanno più spediti e così la curiosità. Voglio traversare i carruggi animati e vocianti, guardare da vicino la bianca statua del re sabaudo che svetta tra le fronde delle palme e godere dell’ombra maestosa dei ficus nella piazza dei barüffi.
Inoltrandomi, lo sguardo alterna una parte e l’altra di corso Tagliafico. A un tratto vengo preso da una pallonata. Un bambino che pare sbucato dal nulla — non più di sei anni — trafelato mi si avvicina.
– Ti miâ dè a palla? U mé amìgu u nu sà zügo’, u tìe fissu da déstunàu!
Lo guardo basito perché non ho capito nulla di quanto mi ha detto. Allora mi indica il pallone e io sorridendo glielo porgo.
– Ciao piccolo calciatore, come ti chiami?
– Me ciàmmu Petrìn. E ti chi t’è?
Corruccio la fronte e il suo italiano è meno esuberante. – Sei un foresto, vero?
Rispondo che mi chiamo Valentino e che sono or ora sbarcato per fare il preside della scuola. Non finisco la frase che già si è dileguato radendo di corsa in ampio girotondo i sedili della piazza.
– Mamma, l’arivàu u preside da tó scöa. Végni, che t’au faggu védde!
E quando torna tiene per mano una signora sulla trentina che in un sorriso imbarazzato si presenta.
– Buongiorno, sono la maestra Maria Rivano. Insegno nella Scuola dell’Infanzia. Sia il benvenuto a Carloforte. Vedo che ha conosciuto Pietro, mio figlio!
– Sì. Mi ha detto qualcosa circa il suo pallone, ma non ho capito granché!
– Qui tutti ci esprimiamo in tabarchino, adulti e bambini. Rappresenta forse il tratto più identitario della nostra comunità. Al dialetto basta una parola per esprimere un pensiero, un sentimento, uno stato d’animo. Ciò lo rende unico e insostituibile!
– È un antico vernacolo ligure, se non erro!
– Risale al 1500 circa, quando i nostri avi provenienti da Pegli si recarono per la pesca del corallo sull’isola di Tabarca, di fronte a Tunisi. E lì per duecento anni hanno lavorato e vissuto. Esaurendosi poi i banchi coralliferi si sono trasferiti qui, sull’isola di San Pietro, recando con sé usi, costumi, tradizioni. E idioma, appunto. Perciò da quasi tre secoli a Carloforte il tabarchino è la prima lingua. Esso rappresenta le nostre radici, il nostro sentire più profondo. Un legame vivo con una storia fatta di addii, di separazioni, di deportazioni, di schiavitù. Ma anche di riscatto e di libertà. Insomma, è la vita di un popolo. Siamo orgogliosi non solo di parlarlo ma di tramandarlo vivo alle generazioni che seguono, arricchito nello srotolarsi del tempo di nuovi vocaboli ed espressioni, a favorire una più efficace e dinamica comunicazione. Il suo uso ci aiuta a rendere meno formale una conversazione, a entrare facilmente in sintonia col nostro interlocutore!
Saluto sbalordito la gentile insegnante e incamminandomi verso la scuola penso a quanto questo piccolo lembo di terra su cui sono approdato rappresenti per me un microcosmo tutto da scoprire e da apprezzare.
Vi ho appena messo piede che già riscopro l’importanza delle identità linguistiche e culturali di un popolo, a convincermi che dovrebbero essere obiettivo primario di ogni comunità, non solo dei Carlofortini.
Pure la scuola — soprattutto la scuola, mi dico — quale Istituzione formativa ed educativa ha compito di agevolarne il processo. Per non dimenticare. Per non essere sopraffatti dal grigiore piatto dell’omologazione. Perché senza memoria non esiste futuro.
Sotto la spinta di questi pensieri affronto con poco affanno la salita che mi porta alla mia nuova sede lavorativa. Una salita che mi appare di più una via colma di sole. Tutta da percorrere.
Valentino Pusceddu
Nota dell’Autore
Le Fiabe di Carloforte costituiscono una non trascurabile variante di percorso del mio lavorare, solito ricavare dalla più celata tradizione orale decisa rielaborazione letteraria.
Ma avendo qui maestre e scolari già ricercato in proprio, mi sono senza merito ritrovato tra le mani il prezioso materiale da loro raccolto. Voce pura di antico narrare ascoltata carruggio per carruggio come un’eco sfumata e lontana. Popolari novelle in lingua tabarchina, quasi banali nella loro intima semplicità ma che attingono al pozzo della spontaneità vernacolare potenza descrittiva e narrativa. Di ciò perfettamente funzionanti, dirette e immediate. Avare di parole ma inequivocabili, povere nell’intreccio ma chiare e trasparenti. Quanto invece all’italico idioma, tessuto al telaio dei letterati, solamente in largo giro è consentito di rappresentare.
Asciutta perciò la fronte dello scavatore, di pungolo ho martoriato dorso e fianchi allo scrivano. E non preservando intatto che il cuore di ciascuno dei cunti ho dato loro ambientazione geografica, nomi e nomignoli a vecchie e nuove figure, scorrevolezza di intreccio e logicità di azione, maggiore consistenza letteraria, moralina finale. Il tutto per un lavoro che offre sì il doppio parlato isolano ma non presentandosi quale traduzione l’uno dell’altro. Due codici linguistici e narrativi che suggono vita allo stesso embrione popolare ma che alitano, definendosi, respiro proprio. E che rendono al più svariato lettore pari dignità letteraria, uguale anelito artistico, stesso interesse editoriale.
Un’ultima annotazione. Dei venti codici passatimi, quindici soltanto ho ritenuto di inserire in questa pubblicazione. La scelta, talora sofferta, sta alla base di considerazioni che vanno dal gusto del tutto personale alla necessità di portare