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La botte di Hemingway: ...e altri racconti di mare
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E-book244 pagine3 ore

La botte di Hemingway: ...e altri racconti di mare

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Info su questo ebook

Ciò che la terra divide il mare unisce. Lo dicevano i Greci navigatori e lo racconta anche questo libro. Sei storie di mare e di costa, popolate di personaggi che sul mare si incontrano, si perdono e in mare si ritrovano. Così all'ombra delle moderne vele triangolari vagabondi marinai, capitani e armatori sognano l'avventura, che forse è già passata. Così il popolo della vela insegue i suoi sogni e il suo destino tra porti e isole, dagli atolli venezuelani fino alla laguna di Venezia.
LinguaItaliano
Data di uscita2 ott 2017
ISBN9788826090337
La botte di Hemingway: ...e altri racconti di mare

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    La botte di Hemingway - Ezio Franceschini

    Ezio Franceschini

    La botte di

    Hemingway

    ... e altri racconti di mare

    L’imbarco

    "Something good". L’anziana yachtman aveva pronunciato lentamente queste poche sillabe men­tre sedevamo a tavola nel salone semivuoto del club nautico. Qualcosa di buono. Lo disse dopo aver consumato il suo brodo di pesce, con sus­siego, alludendo alle mie referenze. Proprio così: "Something good". Come il dialogo di un vecchio film in bianco e nero.

    Il treno che mi stava riportando al gelo umi­diccio della padana toccando i lidi adriatici, era pressoché deserto. Avevo deciso di farmi rimbor­sare la prima classe. Quel tipo di contatto infatti non invogliava a pretese più modeste. Dopo il primo colloquio telefo­nico avuto con l’abogado Aristide Dos Passos mi ero già convinto: Meglio sparare alto. Dove però costui mi avesse scovato, in quale elenco, inserzione o per bocca di chi, non era chiaro e non lo fu nemmeno in seguito.

    Guardavo sfilare gli stabilimenti balneari e le spiag­ge asfittiche, intervallati da cave e zone indu­striali a ridosso del mare basso e limaccioso. Nuvole grigie e torve limitavano l’orizzonte. Non si vedeva una sola barca in mare, ma in novembre non era una cosa di cui stupirsi.

    Solo, in tutto lo scompartimento, stesi comoda­mente le gambe sul sedile opposto. Ripensai al pranzo con il giovane e rampante Dos Passos e la vecchia armatrice francese o newyorchese (non avevo capito ma non volevo apparire curioso) e ruttai un fiato di telline misto a vino bianco sugherato. Poi mi addor­mentai fino a Padova.

    Giunto a casa, un piccolo e umido appartamento in cui abitavo per brevi periodi, mi guardai nello specchio opaco del bagno: Non ti illudere. I ricchi sono così, ne sentono centomila poi ne prendono uno e gli altri li sputano.

    Invece due giorni dopo Dos Passos mi telefona e mi dice: Hai fatto un’ottima impressione a Judit, possiamo darci del tu vero?.

    Certo, che diamine!, squillai.

    Ci accordammo per dopo Natale. Li avrei raggiunti un fine settimana e saremmo usciti con il vecchio J-Sea blu di sedici metri per una prova sul campo. Così aveva detto l’avvocato Dos Passos: Una prova sul campo. Nel frattempo mi boni­ficava un tanto per il disturbo e per farmi sentire im­pe­gnato. Tranquillo, mi rassicurò infine, è come se tu fossi stato assunto al Banco Santander.

    Sospesi così la ricerca di altri eventuali imbar­chi e mi dedicai a non fare nulla, se non bighel­lonare in ore tiepide in Merceria e farmi invitare a cena dagli amici terricoli che non vedevo da tempo.

    Dopo aver passato sei mesi all’ancora tra gli atolli deserti di Los Roques, ad agosto, ero ritornato in Italia, a piedi nudi, con l’aspetto di un pescatore di barracuda. Edulcorando in qualche modo il mio aspetto ero riuscito ad accordarmi per condurre un sessantenne industriale milanese, armatore di un grosso motoscafo tutto nuovo, in vacanza in Sarde­gna per un paio di mesi. La sua villa, a sud ovest dell’isola, sorgeva a ridosso di un’oasi naturale protetta e popolata da fenicotteri e upupe. Nel breve colloquio avuto nel suo ufficio, sospeso miracolo­samente sopra la fabbrica, mi aveva spiegato che i suoi ospiti si sarebbero divertiti un mondo a farsi scorrazzare su e giù lun­go la costa. Il mio compito, in questo senso, sareb­be stato quello di assecondare ogni loro desi­derio.

    Allora ti sarai divertito anche tu questa estate, aveva detto Claudia mettendo davanti a me e a suo marito un mezzo catino di spaghetti al nero di seppia. Purtroppo il motoscafo, fresco di cantiere, era un lungo offshore a becco d’aquila, di quelli che fanno diventare scemo il marinaio, con una coperta con­vessa e scivolosa alle cui estremità andavano appesi e tolti i para­bordi.

    Avevo mimato a lei e ad Aldo, facendoli diver­tire, come in entrata e in uscita dal porto ci si dan­nasse per far passare la cima nel passacavo troppo stretto, rischiando ogni volta di finire in mare. Quel siluro poi filava a una velocità esa­gerata, faceva un fracasso da turarsi le orecchie e riservava al mari­naio un alloggio confortevole come il bugliolo di una galea. Quest’ultima cosa mi aveva fatto deci­dere di gettare la spugna prima ancora di iniziare: un bianco mini loculo con la tazza del wc all’al­tezza del naso, proprio al­l’estrema prua del ferro da stiro. E nemmeno quando mi fossi trovato solo a bordo, avrei potuto usare una delle quattro cabine. Questa era la prescrizione. Spiacente ma è così, aveva detto Duilio, il familio dell’armatore, veden­domi strabuz­zare gli occhi sopra la mini tomba. Insomma, dopo appena mezza giornata ero di nuovo sul treno per Genova, senza peraltro aver restituito l’acconto al tuttofare del re del tondino. Quei soldi ce li rimetto io, si era provato a intenerirmi accom­pagnandomi in auto alla stazio­ne. Spiacente ma è così, ero sbottato piantandolo nel traffico e dileguandomi a piedi.

    Ben fatto!, aveva commentato Aldo alla fine, riempiendomi di nuovo il bicchiere di vino bianco, e adesso ti racconto cosa succede in fabbrica a noi metalmeccanici.

    Ora su questo imbarco con la vecchia miliar­daria (così mi pareva di aver capito) ci contavo, anche se preferivo non ammetterlo per scara­manzia. Due giorni prima di riprendere il treno mi ritrovai a valutare serenamente il mio abbiglia­mento da mare. La giacca della cerata, in origine gialla, era funestata da grandi tacche scure di olio, e le cuciture interne avevano già ceduto in più punti lasciando trapelare un po’ di imbottitura. I pantaloni non erano in condizioni migliori, in quanto a maglioni girocollo ne avevo giusto un paio, bucherellati sui gomiti, che utilizzavo, seppur saltuariamente, ormai da troppi anni. Niente goretex, niente abbigliamento tecnico, nulla di nulla. Le scarpe (alla fine ero riuscito a rin­filar­mele) avevano inciso sulla pelle rinsecchita dal sale le tracce del passaggio in qualche centinaio di porti unti e polverosi. Mi convinsi comunque che non valeva la pena di spendere soldi per rivestirmi, non prima almeno di aver superato la prova sul campo.

    Quando scesi dal taxi, sotto la pioggia, il marina mi apparve completamente deserto. Le pietre lisce del porto luccicavano alla luce dei lampioni accesi da poco. La lunga diga, sopra­vento, era spazzata a intermittenza dall’acqua e dallo scirocco che soffiava con forza e strappava cupi lamenti al sartiame delle imbar­­cazioni sui moli. Dubitavo che con quel tempo ci fosse qual­cuno in barca che mi stava aspettando per darmi il benvenuto. Il J-Sea di Judit infatti era ben chiuso e dondolava con la poppa in banchina tirando malamente sull’ormeggio. Ritornai con il sacco in spalla verso il club nautico, dove si vedevano alcune luci accese. La porta d’ingresso però era chiusa e dietro ai vetri non si scorgeva anima viva. A quel punto il cellulare vibrò nella tasca dei pantaloni. Era l’avvocato Dos Passos, che si scusava per non essere lì insieme a me sotto l’acquazzone e mi dava appuntamento alle otto, cioè dopo un’ora e mezza, in un ristorante del centro molto noto, soprattutto a lui. Il mio bagaglio avrei potuto lasciarlo al club nautico, qualcuno si sarebbe sicuramente fatto vivo, prima o poi. Prendi pure il taxi per venire a cena, non c’è problema, mi disse prima di riagganciare.

    Al ristorante Judit mi accolse con uno sma­gliante ed elastico sorriso, appena un po’ svarec­chinato. Il maître del Deucalione aveva riservato a lei e ai suoi ospiti il tavolo migliore, quello con la vista sui tetti della città vecchia. Dos Passos cercò subito di mettermi a mio agio, versandomi una coppa di champagne da una botti­glia in ghiaccio estratta da un secchiello d’argento. Judit regnava seduta, al centro del tavolo apparecchiato, tra l’avvocato e un altro uomo che dimostrava poco più di cinquant’anni, con pochi capelli, la faccia tonda, e l’aria disinvolta e scherzosa. Entrambi indossavano il blazer e la cravatta. Di fronte a loro sedeva quasi compunto un signore un po’ più anziano, con indosso un maglione blu navy e il colletto bianco della camicia che affiorava sul collo abbronzato e inciso da due rughe profonde. Benvenuto, sorrise stringendomi la mano, Io mi chiamo Anchise. Judit vestiva con una camicetta di seta azzurra, adagiata sulle spalle magrissime, ed esibiva un’acconciatura incredibil­mente alta e vaporosa. Aspirava con voluttà il fumo da una Mercedes sottile, alternandolo con piccoli sorsi di champagne. L’uomo con i capelli radi e il viso paffuto si sporse dalla sedia: Ma città-città?, chiese incuriosito e un po’ beffardo. Certo, quante ce ne sono?, risposi ridendo. Judit capiva perfet­tamente l’italiano e lo spagnolo, ma eravamo tutti costretti a rivolgerci a lei in inglese o in francese.

    I discorsi, orientati alla marineria e ai suoi aneddoti più frivoli, tennero banco fino all’ultima portata, una mousse di cioccolato al lime prove­niente da un esotico paese del sud del mondo. Dopo il caffè e un giro di cognac, Rufus, così si rivolgevano gli altri al commensale dal viso tondo, sospirò soddisfatto ed estrasse da una scatola un grosso sigaro. Ne tranciò un’estremità con una minuscola ghigliottina che custodiva nel taschino del blazer e lo accese con un lungo fiammifero fornitogli dal maître ossequioso. Che tempo farà domani?, chiese alla platea annuvolando l’aria con grossi buffi di fumo. Tutti guardarono Anchise. Egli si schiarì educatamente la gola e disse rivolgendosi al sottoscritto: Gira al bello, potreste partire già in mattinata per le Agudas. Esibii una smorfia di approvazione e pensai, senza osare chiederlo, chi di loro sarebbe stato il fortu­nato crocierista.

    Il mattino successivo la pioggia era cessata. Il vento, tramutatosi in un leggero nord est, aveva quasi ripulito il cielo dagli ultimi cumuli ormai innocui e lontani, e l’aria era diventata piacevol­mente tersa e frizzante. Aprii il boccaporto e sbu­cai nel pozzetto di Idillia, proprio sotto al boma. Il veliero non tirava più sulle cime d’ormeggio, e a destra e a sinistra non c’erano attraccate altre barche. Resistetti un paio di minuti al freddo, poi tornai di sotto, riempii d’acqua e di caffè la moka e la misi sul fornello più piccolo della cucina. Sicura­mente saremmo partiti quella mattina stessa per raggiungere le isole Agudas.

    Quando la Smart fosforescente di Judit imboccò il molo ero già pronto ad accogliere a bordo la mia nuova armatrice, dopo aver controllato l’attrezza­tura e la cambusa, asciugato per bene la coperta con una pelle di camoscio e disposto la passerella per l’imbarco.

    Lei scese dall’auto, in jeans e morbida pelliccia, e mi fece un cenno di saluto con la mano.

    "Wonderful day! Andiamo, come and take a cappuc­cino, esclamò, poi aggiunse fintamente corrucciata: Fernando sarà qui solo tra due ore".

    Il ritardatario in questione era il suo "boy friend", lo scoprii facendo colazione con lei al club nautico, desolatamente vasto e deserto anche quel sabato mattina. Nipote di Rufus Lorna, che lo aveva adottato dopo la morte improvvisa dei suoi genitori, Fernando Roja viveva a Barcellona e faceva l’attore di spot commerciali nelle tivù private. Lo aspet­tammo per più di tre ore. Problemi sul grande raccordo per il mare, aveva riferito Judit in tono neutrale dopo una telefonata. In banchina poco dopo si presentò Anchise, con il quale ricontrollai il motore e gli impianti di bordo, mentre l’armatrice disponeva minuziosamente nella sua cabina a prua il contenuto delle varie borse che avevamo estratto dalla Smart e traspor­tato sotto coperta. Nel frattempo anche Dos Passos aveva chiamato Judit per sincerarsi sullo stato del programma, scusandosi di non poter venire a pran­zo con noi per via di alcune seccature legali, pur­trop­po ineludibili. Rufus riferì di lì a poco, anche lui via cellulare, del brusco risveglio della sua imperdonabile sciatalgia, una stupidis­sima circo­stanza che purtroppo gli impediva di venirci a fare ciao-ciao al pontile.

    Riuscimmo a mollare gli ormeggi verso le tre del pomeriggio, dopo il solito piatto di spaghetti allo scoglio spadellati dal cuoco del club nautico. Fernando Lorna, a tavola, ci aveva messo genero­samente a parte del suo ultimo spot su un deodo­rante per auto, aggiungendo di non vedere l’ora di provare la nuova mimetica per la pesca sub­acquea regalatagli da Judit per il suo ventitre­esimo compleanno. L’armatrice, durante il pranzo, lo aveva blandito con un costante sorrisetto di adora­zione, poi a un tratto, quasi bruscamente, aveva fatto cenno al cameriere di portare il conto.

    Anchise recuperò con calma la cima a terra e ci salutò dalla banchina, alzando appena il braccio sopra la testa bianca. Il suo sguardo azzurro sparì ben presto dietro la base di cemento del faro. Schivai la secca in centro al canale e Idillia sgusciò dal porto incontro al mare, puntando le isole Agudas.

    Il respiro del mare sollevava l’imbarcazione a intervalli quasi regolari. Il vento era calato quasi del tutto e il sole iniziava a scaldare i legni del ponte. All’ancora, a ridosso dell’isola di Santo Stefano, guardavo dal pozzetto Fernando che si aggi­rava nervosamente in coperta, sporgendosi ogni tanto a scrutare l’acqua intorbidita dalla risacca. Il suo corpo da ragazzotto, leggermente appesantito ai fianchi, straripava dalla nuova muta subacquea color grigio verde, un po’ troppo stretta. Judit era di sotto, che si stava preparando per la gita in gommone. Asciugamani, scarpette da sco­glio, cappellino, set di creme, salviette, acqua minerale Evian e qualche prugna per lei. Maschera, pinne, cintura di piombo, boetta di segnalazione, coltello seghettato, guanti, una rete per i pesci, un lungo fucile a elastico e un arpione per lui. Misi tutto nel piccolo tender a motore insieme a due remi di scorta e a una piccola ancora. Li vidi sparire poco dopo dietro gli alti scogli, che riparavano dalle buriane di nord est il piccolo paese che sorgeva in riva all’unica isola abitata.

    La notte precedente l’avevo trascorsa in coper­ta, dopo che nel pomeriggio avevo avuto la visione di due corpi pallidi e attorcigliati mentre passavo sopra il tambugio di prua per aggiustare una vela. Un braccio latteo aveva tirato di colpo la tendina e la visione era svanita. Al lasco, sospinta dalla bora, Idillia era scivolata rapida sull’onda morta e schiarita dalla luna per tutta la notte. Solo due o tre volte, rinunciando al pilota automatico, mi ero messo a timonare alla ruota sopravento, così, per il solo piacere di farlo. All’alba, il rumore dell’ancora calata nelle acque del piccolo arcipelago non li aveva svegliati, consentendomi di dormire qualche ora in una delle comode cabine di poppa.

    "Don’t you like your fish?", disse Judit quasi con apprensione.

    Fernando cincischiava con la forchetta la sua cernia nel piatto. La sala da pranzo del Piratello, affacciata sul mare, era semivuota. Oltre a noi tre nel locale c’erano solo la popstar Ricky Martin e una decina di suoi amici e collaboratori che cenavano con aria svogliata e stanca. Stanno regi­strando un disco negli studi dell’isola e man­giano qui ogni sera, si era sbottonato con noi sottovoce il ristoratore italiano senza nascondere la sua soddisfazione.

    "I am tired", rispose il giovane. Il sole gli aveva scottato il collo e la faccia. La pelle arrossata si tendeva sugli zigomi e il naso ritoccati. Era rimasto a mollo alcune ore, mentre Judit galleg­giava come uno stecco sotto il sole di mezzo­giorno. Ogni tanto lei scostava il cappellino dalla fronte e alzava la testa per controllare la posizione della boetta itinerante.

    Quel cazzo di fucile, protestò Fernando, l’ela­stico mi ha ucciso.

    È duro da tendere, concordai, riempiendo nuovamente di vino il bicchiere di Judit che sem­bra­va sensibile a questo tipo di attenzioni. Di fatto era stata una fatica inutile, non aveva catturato nemmeno un polipo per fare un’insalata in navi­gazione.

    I pesci scappano con questa muta. Fernando giustificò il suo insuccesso incolpando Judit, che lo ignorò, mi chiese qualcosa a proposito di Ricky Martin e propose infine un dessert prima di tornare a bordo. Remando naturalmente. Il piccolo motore a due cavalli infatti, quel pomeriggio, era andato in panne appena dietro gli scogli, e non c’era stato verso di rianimarlo. Anzi, nella foga, Fernando aveva divelto il cordino dell’avviamento condan­nandosi ai remi.

    Appena messo piede su Idillia il festeggiato sparì a prua, mentre Judit estrasse dal tavolo centrale una bottiglia di cognac e due bicchieri e spinse verso di me la rossa scatola dei sigari a umidità controllata. Versò da bere a entrambi e si accese una Mercedes. Il sole aveva cotto anche la sua pelle, aderente al silicone e alle ossa, facendo affiorare nuvole di efelidi sulle mani, la fronte e gli zigomi, e tramutando la sua acconciatura dora­ta in un cespo giallo e stopposo. D’altra parte non aveva avuto il tempo di mettere il balsamo, e ora restava sì e no il tempo per fare due chiacchiere.

    "Is a child", sussurrò compresa. Pareva reg­gersi in equilibrio con un po’ di fatica. Assaggiai il cognac e mi sintonizzai sulla frequenza del meteo. Durante la notte il vento da est sarebbe aumentato, ma non troppo. Mi scusai e salii in coperta. La barca non si trovava disposta sulla giusta linea di ancoraggio. Le correnti marine provenienti da sud est prevalevano sul vento, traversando lo scafo. In quelle condizioni, se il vento aumentava come previsto, era facile disancorare e finire sugli scogli o addosso agli alti faraglioni che ci circondavano. A bordo inoltre non c’era un’ancora di rispetto. Tornai di sotto a spiegare a Judit che era meglio rinunciare alla gita a remi mattutina e anticipare il ritorno di qualche ora. Lei e Fernando avrebbero così potuto dormire in navigazione fino all’arrivo in porto. Parve pensarci su per un minuto, poi acconsentì. "Some­thing good", disse.

    Verso le due e mezza Fernando sbucò in coper­ta, bardato come il De Angelis di Luna Rossa. Scostai il sacco a pelo e lo invitai a sedersi. Si offrì di darmi il cambio per qualche ora, raccon­tandomi che era stato lui a condurre Idillia in Spagna dalla Francia. L’avevano acquistata lui e Judit dopo averla vista in vendita in un cantiere nautico a Nizza. Era stato un vero colpo di ful­mine, la barca aveva già qualche anno, ma era in ottime condi­zioni, e non avevano dovuto nemmeno cambiarci il nome tanto era perfetto.

    Vuoi dire che l’avete comperata per via del nome?.

    Be’ sai come sono le donne no….

    Romantiche vuoi dire?.

    No, pazze. Si è fidata a partire con me che non avevo mai preso il timone in mano. Non ho nemmeno la patente.

    Un’onda batté sotto lo scafo, poggiai di qualche grado. Fernando rise e continuò: Prima abbiamo incocciato un peschereccio di notte, non si capiva un cazzo con tutte quelle luci. Poi si è avvolta la catena dell’ancora sulla chiglia durante un anco­rag­gio, circa quaranta metri, e abbiamo dovuto chiamare i sub a srotolarla. Siamo finiti in secca due volte e una sera dalla terrazza del ristorante ci siamo accorti che la barca si stava allontanando. L’ancora ovviamente ha mollato perché avevamo dato zero catena. Gli attracchi in banchina poi… cosa si può dire….

    Che sei molto fortunato e che difficilmente accetterò la tua proposta, scherzai.

    Ma dai, disse Fernando, giù c’è anche il radar, ogni tanto scendo e gli do un occhio. Così puoi riposarti qualche ora, a Judit serve uno skipper mica un eroe. Poi aggiunse: Sai della nuova barca in arrivo?.

    No.

    "Uno J-Sea nuovo di diciotto metri. Se ti va bene quest’estate fai i soldi e te la spassi. Nel frattempo magari vai in Francia anche tu con Judit a stressare carte di credito tra Saint Tropez e Montecarlo".

    Mi alzai e controllai l’assetto delle vele. Poco dopo tornai in pozzetto.

    Io vado di sotto un paio d’ore, dissi esausto, chiamami quando vuoi.

    Tolsi la cerata e mi stesi in cuccetta. Il rumore del mare da lì si udiva perfettamente e mi addor­mentai di botto. Dopo mezz’ora riaprii gli occhi e sporsi la testa in dinette. Fernando era seduto al carteggio proprio davanti al radar, e dormiva della grossa. Mi rimisi la cerata e tornai in pozzetto. L’orizzonte era ancora oscuro, le stelle ruotavano all’infinito e, oltre lo specchio di poppa, affiorava a tratti la scia bianca e silenziosa della miracolata Idillia.

    La festa del rimpatrio si svolse ovviamente al Deucalione. Solito tavolo, solita vista sui tetti della città vetusta. Solo Fernando si era sottratto alla cena di incoronazione dello skipper, cioè io, alludendo a uno spot a cui non poteva mancare, alle prime luci dell’alba del giorno dopo,

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