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Seduzione argentina: Harmony Collezione
Seduzione argentina: Harmony Collezione
Seduzione argentina: Harmony Collezione
E-book160 pagine3 ore

Seduzione argentina: Harmony Collezione

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Info su questo ebook

Un incredibile viaggio fra i lustrini e le paillettes dell'alta società, alla scoperta delle segrete arti della seduzione.



Alejandro D'Arienzo, spietato e sensuale milionario argentino, è finalmente pronto all'incontro con la bella ereditiera Tamsin Calthorpe. E non ha intenzione di accettare null'altro che la resa completa della sua preda.



Ciò che Alejandro non sa è che Tamsin lo ha amato veramente, nascondendo la propria ingenuità dietro un'ostentata raffinatezza. Ma ora che il destino li ha fatti rincontrare, ogni nodo verrà al pettine.
LinguaItaliano
Data di uscita10 dic 2018
ISBN9788858991497
Seduzione argentina: Harmony Collezione
Autore

India Grey

Tra le autrici più amate e lette dal pubblico italiano.

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    Anteprima del libro

    Seduzione argentina - India Grey

    Titolo originale dell’edizione in lingua inglese:

    At The Argentinean Billionaire’s Bidding

    Harlequin Mills & Boon Modern Romance

    © 2009 Harlequin Books S.A.

    Traduzione di Marta Draghi

    Questa edizione è pubblicata per accordo con

    Harlequin Books S.A.

    Questa è un’opera di fantasia. Qualsiasi riferimento a fatti o

    persone della vita reale è puramente casuale.

    Harmony è un marchio registrato di proprietà

    HarperCollins Italia S.p.A. All Rights Reserved.

    © 2010 Harlequin Mondadori S.p.A., Milano

    eBook ISBN 978-88-5899-149-7

    Prologo

    Tamsin si guardò allo specchio, con il rossetto in una mano e l’articolo Come sedurre l’uomo dei tuoi sogni nell’altra.

    Delicatezza è sinonimo di fallimento, diceva. Eppure lei stentava a riconoscersi, con quegli occhi carichi di ombretto, gli zigomi enfatizzati dal fard e la bocca rossa e sensuale. Ma tre anni di adorazione a distanza di Alejandro D’Arienzo le avevano insegnato che non aveva alcuna speranza di conquistare l’uomo dei suoi sogni senza un’azione drastica.

    Serena bussò alla porta. «Tam, sono ore che ti prepari, ormai dovresti essere pronta... Oh mio Dio! Come diavolo ti sei conciata?»

    Tamsin mostrò la rivista alla sorella. «Qui dice che non devo lasciare nulla al caso.»

    «E dice anche di non lasciare nulla all’immaginazione?» gracchiò l’altra. «Dove hai preso quel vestito scandaloso? È completamente trasparente!»

    «Ho solo modificato il vestito del ballo del diploma» si difese Tamsin.

    «Quello è il tuo...?» boccheggiò Serena. «Se mamma lo scopre ti ammazza. L’hai massacrato!»

    Scuotendo le spalle, Tamsin spostò la massa di capelli castani e ruotò su se stessa, esibendo il tulle nero che le copriva appena i glutei. «Ho solo tolto la parte di seta che ci stava sopra.»

    «Solo...?»

    «Be’, ho anche accorciato un po’ la sottoveste. Non è più bello così?»

    «Diciamo diverso» rispose Serena esasperata. Il corpetto senza spalline, in origine così raffinato, ora aveva un che di sadomaso con quella minigonna di tulle e le calze nere.

    «Bene» concluse lei. «Perché stasera non ho intenzione di essere la patetica e imbranata figlia dell’allenatore. Stasera voglio essere...» si interruppe per leggere l’articolo: «Misteriosa ma diretta, sofisticata ma sexy».

    Dal piano di sotto giungevano risate, voci e musica che si diffondevano nei corridoi di Harcourt Manor. Il party di presentazione della nazionale di rugby era già cominciato, e solo l’idea che Alejandro fosse nei paraggi le faceva chiudere lo stomaco e impazzire il cuore.

    «Stai attenta, Tam» la avvisò Serena. «Alejandro è molto bello, ma è anche...» Si fermò, dando un’occhiata alle foto di lui appese alle pareti. Erano tutti ritagli di riviste sportive o vecchi poster della squadra britannica, che mostravano la bellezza scura e sinistra di Alejandro D’Arienzo.

    «Fuori dalla mia portata? Non credi che funzionerà, vero?» chiese Tamsin disperata. «Pensi che non mi noterà nemmeno...»

    Serena guardò la sorella, i cui occhi brillavano come accesi da un sole interiore. «Certo che ti noterà» sospirò. «È proprio quello a preoccuparmi.»

    Sopra il maestoso camino nella hall troneggiava il ritratto di un antenato della famiglia Calthorpe, che sorrideva compiaciuto. Alle sue spalle una flotta di galeoni, e la scritta Dio soffiò, e i nemici furono dispersi.

    Alejandro D’Arienzo sorrise ironico di fronte allo sguardo freddo e un po’ decadente dell’avo di Henry Calthorpe. Non c’era alcuna somiglianza fra i due uomini, ma entrambi odiavano profondamente gli spagnoli. Alejandro ricordava a malapena i racconti del padre di quando era bambino, di come i loro antenati fossero stati fra i primi conquistadores arrivati nel Nuovo Mondo. Quei racconti erano uno dei pochi frammenti che gli rimanevano della sua identità familiare.

    Allontanandosi, allargò il collo della camicia e diede un’occhiata all’enorme salone, con gli intricati stucchi sul soffitto e i raffinati rivestimenti alle pareti. I suoi compagni di squadra bevevano e ridevano con i dirigenti della società e i pochi giornalisti sportivi che erano stati invitati, mentre altrettante bionde appassionate di rugby, o dei rugbisti, si aggiravano fra loro con fare seducente.

    Henry Calthorpe, l’allenatore della nazionale, aveva insistito perché la festa si tenesse nell’antico palazzo, per dare un senso di squadra, di famiglia. A quel pensiero, Alejandro non poté trattenere un altro sorriso cinico. Ogni minimo dettaglio sembrava fatto apposta per evidenziare quanto lui fosse fuori luogo. Ed era sicuro che a Henry Calthorpe la cosa non dispiacesse affatto.

    All’inizio credeva di essere ipersensibile, abituato ai bulli dei tempi della scuola, ma ultimamente l’astio del coach era diventato troppo evidente per essere ignorato. Alejandro non aveva mai giocato così bene, troppo bene per non essere convocato in nazionale, ma la verità era che Calthorpe lo voleva fuori dalla squadra e stava solo aspettando che facesse una mossa falsa. Ma avrebbe aspettato parecchio, perché lui non aveva intenzione di cascarci. Quello era il suo momento.

    Svuotando il calice guardò sdegnato la stanza. Non c’era una singola persona con cui avrebbe voluto parlare. Le ragazze erano tutte uguali: bionde, accento affettato e abbronzatura perfetta, e parlavano in continuazione. Di vestiti ed ex compagne di scuola...

    Varie volte, a quel genere di feste, aveva finito per andare a letto con una di loro solo per farla stare zitta.

    Ma quella sera non ne aveva proprio voglia. Improvvisamente sentì il bisogno di uscire all’aria fresca, lontano da quell’atmosfera soffocante.

    La vide proprio mentre si faceva strada verso l’uscita. Era in piedi, accanto alla porta, con la testa inclinata e una mano appoggiata allo stipite, con un’aria timida e insicura, a dispetto del vestitino striminzito e i tacchi a spillo. Ma furono gli occhi a ipnotizzarlo; erano belli, verdi, e la loro assoluta intensità toglieva il fiato.

    Avvicinandosi rallentò, ma lei non abbassò lo sguardo e si raddrizzò appena, lisciando la gonna. «Non te ne stai andando, vero?» gli chiese con voce bassa ed esitante.

    Alejandro sorrise e fece per passare oltre. «Credo sarebbe la cosa migliore da fare.» Da vicino, si rese conto che sotto quel pesante trucco c’era un volto più giovane di quanto pensasse. Notò la sua pelle dorata e il frenetico pulsare della vena sul collo. Pareva anche tremare lievemente.

    «No» disse lei. «Ti prego. Non andartene.»

    L’interesse esplose in lui, caldo e improvviso. Guardò appena il suo vestito sexy e ribelle, poi tornò al volto. I suoi occhi truccati erano seducenti, ma allo stesso tempo supplichevoli.

    «Perché no?»

    Continuando a fissarlo, lei gli prese la mano, regalandogli una scossa lungo tutto il braccio. «Perché voglio che tu...» sorrise timida, abbassando lo sguardo. «Voglio che tu rimanga.»

    1

    Sei anni dopo.

    Appoggiata alla parete del tunnel di ingresso dei giocatori dello stadio Twickenham, al fischio finale Tamsin si sentiva come intrappolata dentro al corpo di un’enorme bestia ferita. Non se l’era sentita di guardare la partita, ma capì dal gemito che rimbombò nello stadio che l’Inghilterra aveva perso contro i Barbarians.

    Non che le dispiacesse più di tanto. Fosse stato per lei, avrebbero potuto perdere anche contro una manciata di bambine urlanti, a patto che fossero belli mentre lo facevano. Sospirò tremante e si staccò dal muro, ma le gambe la reggevano a fatica. Quello era il momento in cui avrebbe scoperto se tutto il lavoro degli ultimi mesi, e il panico frenetico delle ultime dieci ore per limitare i danni, era servito.

    Come uno zombie, si avvicinò all’uscita del tunnel affacciandosi su quella specie di arena dei gladiatori. Con le teste chine sotto la pioggia e le spalle curve per la sconfitta, i giocatori dell’Inghilterra stavano rientrando negli spogliatoi. Tamsin guardò ansiosa un giocatore dopo l’altro e, incurante dell’abbattimento e dell’incredulità sui loro volti esausti, provò un enorme sollievo.

    Forse i giocatori quel giorno non si erano comportati brillantemente, ma di certo le maglie da gioco sì, notò Tamsin, designer della nuova e super pubblicizzata divisa inglese, e quella era l’unica cosa importante. Girava già la voce maligna sul perché un incarico così prestigioso fosse stato affidato proprio alla figlia dell’allenatore, quindi il minimo indizio di fallimento sarebbe stato per lei un suicidio professionale. Si passò una mano stanca fra i capelli biondo platino. Non si doveva assolutamente sapere nulla dei problemi riscontrati la sera prima con quelle maglie rosa.

    All’entrata del tunnel, il freddo vento dell’est che aveva reso la vita difficile ai giocatori quasi la fece cadere, sferzandola attraverso il lungo cappotto e il leggero vestitino che indossava dalla sera prima quando, dal ballo di beneficienza, era dovuta correre alla fabbrica per l’emergenza. Dopo dieci ore, varie telefonate terapeutiche con Serena e parecchi caffè, erano riusciti a rifare le maglie per la squadra titolare, e per tutta la durata dell’incontro Tamsin aveva pregato che non ci fossero sostituzioni. Il suo sollievo durò solo pochi secondi, poi la sua bocca si spalancò terrorizzata. Alzando gli occhi verso il maxischermo, le sembrò di respirare del napalm anziché aria fresca.

    Era lui.

    Ecco perché l’Inghilterra aveva perso.

    Alejandro D’Arienzo era tornato. Ma stavolta fra le fila degli avversari. Le sembrò che il cuore le uscisse dal petto. Quante volte, negli ultimi sei anni, aveva ripensato a lui e a quella meravigliosa e devastante serata? Quante volte, per le vie di Londra, si era voltata a guardare uomini alti e mori, pur sapendo che lui aveva fatto ritorno in Argentina, o sentito il cuore fermarsi nello scorgere una sagoma scura dietro il finestrino di un’elegante auto sportiva, solo per poi provare una nauseante delusione nello scoprire che si trattava di qualche sconosciuto decisamente meno affascinante di lui? Ma stavolta non c’era modo di confondere quel corpo maestosamente elegante, quelle spalle larghe sotto la maglia bianca e nera dei Barbarians, e l’aria arrogante di quella testa scura.

    La folla esplose in un applauso spontaneo mentre le telecamere zoomavano sul suo volto bellissimo e severo, sopra la scritta Migliore in campo. Il paradenti accentuava la sensualità delle sue labbra insanguinate, e una bandana rossa gli tratteneva i capelli bagnati. Per un secondo, i suoi occhi inquieti fissarono la telecamera.

    Era come se stesse guardando proprio lei.

    Tamsin voleva distogliere lo sguardo, ma la sua vena masochista glielo impedì. Tornò a sei anni prima, quando solo diciottenne aveva incrociato quello sguardo, ardente di timore ed eccitazione...

    La squadra si era allineata lungo il tunnel per applaudire gli avversari, ma d’un tratto Ben Saunders, il numero dieci, uscì dalla fila e tornò verso il campo. Attonita, Tamsin lo vide togliersi la maglia e porgerla ad Alejandro in segno di rispetto.

    L’orgoglioso argentino non si mosse, e l’intero stadio rimase per un istante con il fiato sospeso, in attesa di vedere se l’ex campione del rugby inglese avrebbe accettato la maglia con cui aveva giocato gloriosamente.

    Le telecamere zoomarono su di lui, ma il suo volto era ancora impassibile. Un enorme boato di gioia esplose nel momento in cui Alejandro iniziò a sfilarsi la maglia, riempiendo il maxischermo con la pelle bronzea e perfettamente scolpita dei suoi addominali. Poi la folla si mise a gridare e fischiare quando, togliendosi la maglia, rivelò il tatuaggio del sole – simbolo della bandiera argentina – proprio sopra il cuore.

    Vagamente consapevole che il petto le doleva nel tentativo di respirare e che i suoi pugni erano così stretti che le unghie quasi le penetravano la carne, Tamsin distolse lo sguardo disgustata. Certo, Alejandro era bellissimo. Indiscutibilmente. Ma era anche la persona più fredda e arrogante sulla faccia della terra. La

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