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365 giornate indimenticabili da vivere a Roma
365 giornate indimenticabili da vivere a Roma
365 giornate indimenticabili da vivere a Roma
E-book2.128 pagine27 ore

365 giornate indimenticabili da vivere a Roma

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Scopri ogni giorno la grande bellezza della Città Eterna

Chiudete gli occhi e pensate a cosa vi piacerebbe fare a Roma. Poi cominciate a sfogliare questo libro… La giornata adatta a voi è a portata di mano!

Quante giornate, in un anno, possono definirsi particolari? Giornate romane in cui potrete scegliere qualcosa di straordinario, di eccezionale o semplicemente diverso dal solito. Un gioco per vivere Roma in maniera inedita, assecondando lo stato d’animo del momento. Vi sentite desiderosi di girare per il mondo? Allora ecco per voi una giornata giapponese, francese o americana. Se invece avete voglia di soddisfare la gola… optate per una gourmande: tutta al cioccolato, allo zucchero o al miele. Se siete in cerca di compagnia, potreste passare qualche ora con Michelangelo, Caravaggio, Raffaello… Se avete proprio bisogno di relax, invece, tra queste pagine troverete il percorso benessere giusto per voi. Innamorati o con il cuore infranto, appassionati di jazz o di musica classica, amanti dell’aria aperta, della moda o del cinema, oppure semplici curiosi: sfogliate queste pagine e la giornata adatta a voi sarà a portata di mano!
Giulia Fiore Coltellacci
è nata a Roma nel 1982. È giornalista pubblicista e ha collaborato con la RAI scrivendo e conducendo trasmissioni radiofoniche dedicate alla cultura. Le sue passioni sono il cinema (che ama alla follia), Roma (la sola città dove potrebbe vivere), Parigi (dove le piace rifugiarsi) e la cucina (anche se non sa cucinare). Nel 2013 ha pubblicato Rome sweet Rome. Roma è come un millefoglie, una guida alla Roma golosa.
LinguaItaliano
Data di uscita10 nov 2014
ISBN9788854170629
365 giornate indimenticabili da vivere a Roma

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    Anteprima del libro

    365 giornate indimenticabili da vivere a Roma - Giulia Fiore Coltellacci

    211

    L’autrice riferisce che i riferimenti, i luoghi e gli indirizzi

    indicati nel presente libro sono aggiornati alla data

    in cui il volume è andato in stampa.

    Eventuali variazioni successive alla suddetta data

    Le illustrazioni delle tavole

    fuori testo sono di Sergio Algozzino

    Prima edizione: novembre 2014

    © 2014 Newton Compton editori s.r.l.

    Roma, Casella postale 6214

    ISBN 978-88-541-7062-9

    www.newtoncompton.com

    frontespizio

    A mia madre, mio padre e mia sorella, che da più di trent’anni

    mi supportano e mi sopportano per 365 giorni all’anno,

    ciascuno dei quali è eccezionale grazie a loro.

    RINGRAZIAMENTI

    365.000 volte grazie a

    mia madre, mia guida ufficiale nella vita, per avermi accompagnato con la sua competenza appassionata nelle peregrinazioni

    storico artistiche di questo viaggio;

    mio padre, perche mi ricorda sempre che rendere le cose eccezionali dipende anche da noi;

    mia sorella, mia saggia e rassicurante stella gemella, mia cometa ogni volta che mi sento persa;

    Alessandra Penna, per avermi seguita e guidata con professionalita e affetto, un binomio prezioso ed eccezionale;

    Cristina, perche la sua finestra e sempre aperta quando ho bisogno di consigli;

    Stefania, per il suo consistente, sincero e apprezzato conforto, anche goloso.

    INTRODUZIONE

    Un anno è fatto di 365 giorni, ognuno diverso dall’altro o tutti noiosamente uguali, dipende dai casi. Ma in un anno quante giornate possono definirsi eccezionali? Con eccezionali intendo giornate fuori dall’ordinario che non sono come le altre perché siamo noi a decidere di fare qualcosa di straordinario, insolito o semplicemente diverso, trasformando un giorno qualunque in uno indimenticabile. Qui ne troverete 365 a tema, da scegliere in base allo stato d’animo o ai desideri. Il libro è come un armadio: si apre, si sceglie l’abito-giornata da indossare a seconda dell’umore, del tempo e delle occasioni, e poi si esce alla scoperta e alla conquista di Roma. Se vi sentite desiderosi di girare per il mondo, scegliete una giornata giapponese, francese o americana. Se vi sentite golosi optate per una gourmande tutta al cioccolato, allo zucchero o al miele. Se preferite il piccante, amate la pizza o siete patiti della carbonara, non rimarrete comunque a bocca asciutta. Se volete compagnia, potreste passare del tempo con Michelangelo, Caravaggio, Augusto o Beatrice Cenci. Se siete in cerca di un po’ di relax, se siete innamorati o alla ricerca dell’amore, salutisti o appassionati di jazz, amanti dell’aria aperta, della moda, dell’arte, del cinema oppure semplici curiosi, troverete la giornata adatta a voi. E se un giorno non voleste mettere piede fuori di casa, avrete di che soddisfare in modo divertente la vostra pigrizia.

    Per chi Roma la conosce già, o crede di conoscerla, per chi vuole scoprirla da un diverso punto di vista, per chi desidera godere dei suoi lati più frivoli o immergersi nelle sue bellezze artistiche, ecco ben 365 giornate indimenticabili per evadere dalla routine.

    Il libro è come un puzzle (a volte Roma può essere anche un rompicapo, tanto è complessa), un gioco in cui ogni giornata rappresenta un approccio diverso alla città da sperimentare in prima persona divertendosi tra cultura, curiosità e sfizi, passato, presente e futuro. Alla fine si scopre (o si riscopre) che Roma è un mosaico, un insieme scintillante di tessere che disegnano il volto di una città unica al mondo, indimenticabile. Un’opera d’arte non semplicemente da ammirare ma da vivere: basta mettere insieme tutte le tessere per ricordarsi di quell’eterna meraviglia che non finisce mai di stupire.

    davanti

    001. GIORNATA A SPASSO NELLA ROMA IMPERIALE

    Una passeggiata nei luoghi dove sopravvive più eclatante e tangibile il fasto della Roma imperiale

    Colosseo

    È la più famosa e imponente testimonianza della grandezza della Roma antica. E pensare che ciò che vediamo oggi è solo lo scheletro di quello che l’anfiteatro Flavio era all’epoca imperiale. Non possiamo che cominciare dal monumento che Lord Byron definì cerchio magico per trascorrere una giornata eccezionale a spasso nel tempo. È buffo che il nome con cui tradizionalmente viene chiamato, Colosseo, lo si debba alla colossale statua di Nerone che qui era collocata. È buffo perché l’anfiteatro venne costruito proprio smembrando la sontuosissima reggia dell’imperatore, quella Domus Aurea da cui la statua proveniva, per cancellarne la memoria con un’opera pubblica in grado di suscitare la gratitudine e la simpatia dei romani nei confronti della dinastia dei Flavi. Anche Nerone era un grande amante dei giochi, basti pensare che il Colosseo fu costruito in quella parte della reggia in cui l’imperatore aveva fatto realizzare un laghetto artificiale dove si divertiva ad allestire naumachie. Così, con una mossa strategica, la nuova dinastia dei Flavi sostituì il divertimento privato dell’odiato Nerone con una grande opera per il divertimento del popolo. Per realizzare l’enorme anfiteatro, l’imperatore Vespasiano non badò a spese: poteva contenere fino a ottantamila spettatori, seduti sulle gradinate e divisi per categoria sociale (i ceti più importanti erano quelli più vicini all’arena, ovviamente), tutte le nicchie, che oggi vediamo vuote, erano occupate da statue, le volte delle scalinate interne erano dipinte in rosso e oro, c’era marmo un po’ ovunque, mosaici e pietre preziose rifinivano la decorazione, mentre fontane zampillavano getti d’acqua profumata. Ricchezza e opulenza, ma anche funzionalità, per un capolavoro di ingegneria: se faceva caldo, un enorme velario proteggeva gli spettatori dal sole, ma era utile anche in caso di pioggia, il sistema di accesso ed evacuazione del pubblico era efficiente al punto che l’anfiteatro si riempiva e svuotava in breve tempo grazie a scale e corridoi perfettamente distribuiti, mentre un complesso sistema sotterraneo di montacarichi e gabbie permetteva lo spostamento delle belve e la loro salita a effetto sull’arena. Il pubblico romano andava in delirio per i sanguinosi giochi e accorreva numeroso riempiendo l’anfiteatro, il cui ingresso era, per di più, gratuito; quindi i circenses erano davvero per tutti (anche se poi in realtà, per risanare il bilancio, venivano imposte tasse su tutto, perfino sugli orinatoi pubblici). Intorno all’anfiteatro c’era un mondo fatto di gladiatori, impresari, scommettitori, prostitute, delinquenti, bettole, un microcosmo malfamato che ben si adattava alla sete di sangue che decretava il successo dei giochi.

    Il Colosseo è un capolavoro di ingegneria non solo per la funzionalità pratica, ma anche per la sua millenaria solidità, che gli ha permesso di attraversare i secoli, le invasioni e i saccheggiamenti, perdendo lo smalto (inteso anche come decorazione) ma non la forma. Iniziata da Vespasiano, la colossale opera fu inaugurata nell’80 d.C. dal figlio Tito, che proclamò ben cento giorni di giochi, durante i quali si svolsero i primi cruenti spettacoli tra belve e gladiatori. L’antica e radicata passione del popolo romano per i giochi, fu sfruttata come strumento di propaganda politica per ottenere il consenso popolare, un modus operandi che non è più passato di moda. Il Medioevo fu un periodo buio anche per il Colosseo: prima l’abbandono e i saccheggiamenti, quindi la trasformazione in un cimitero e la rinascita parziale come fortezza della famiglia Frangipane e poi degli Annibaldi. Le cose non migliorarono di molto nel Rinascimento, quando venne utilizzato come cava di materiali pregiati.

    Resta un anello magico che racchiude secoli di storia, ma soprattutto è l’eterna, bucherellata, testimonianza della grandezza della Roma antica.

    Basilica di Massenzio

    Da uno dei primi colossali edifici della Roma imperiale, facendo poca strada ed entrando nel Foro Romano, ci imbattiamo nell’ultima grande costruzione in cui è tangibile il segno del genio costruttivo dei romani: la Basilica di Massenzio. O di Costantino, si potrebbe dire, e proprio questa ambivalenza è la testimonianza del tramonto di un’epoca. L’edificio, in cui si svolgeva l’attività giudiziaria del prefetto urbano, fu iniziato da Massenzio ma portato a termine da Costantino dopo che ebbe sconfitto il nemico nella battaglia di ponte Milvio. Il nuovo imperatore apportò numerose modifiche al piano originale e, in una sorta di osmosi tra la politica e l’architettura, la pianta longitudinale a tre navate diventò poi il modello di riferimento per la costruzione delle prime basiliche paleocristiane, che iniziarono a essere edificate proprio per volere di Costantino. Ancora oggi, nonostante sia rimasto ben poco dell’antico edificio, colpisce l’imponenza della struttura, ben visibile nella gigantesca abside, negli enormi pilastri e nelle volte del soffitto, le più grandi mai costruite e che, con il meraviglioso cassettonato, suggeriscono un’impressionante idea di grandezza, cui si adattavano anche le ciclopiche proporzioni delle opere ornamentali. Ne sono un esempio, la testa, le braccia e il piedone di quasi due metri che, conservati oggi ai Musei capitolini, facevano parte della colossale statua di Costantino collocata in una delle absidi, oltre alle otto gigantesche colonne delle quali ne è rimasta solo una, sistemata nel Seicento sulla piazza di Santa Maria Maggiore come supporto alla statua della Madonna. Così la basilica è l’ultima grande opera dell’impero romano prima della legittimazione ufficiale della cristianità, che, da Costantino in poi, modificherà il volto dell’Urbe.

    Domus Aurea

    Nerone aveva decisamente il senso dello spettacolo. Amava i giochi, la poesia e la musica. Svetonio racconta che prima di morire proferì addirittura la seguente frase: «Quale artista perisce in me». Sempre Svetonio racconta che, durante il terribile incendio del 64 d.C., quando Roma bruciò per ben nove giorni riducendosi in macerie, si diffuse la voce che Nerone si godesse lo spettacolo cantando l’incendio di Troia in costume teatrale: quando si dice il sacro fuoco del teatro e, soprattutto, quando si dice umorismo Nero. Molti lo accusarono di aver appiccato l’incendio addossando poi la colpa ai soliti cristiani. Un’accusa probabilmente falsa, dato che l’imperatore contribuì generosamente alla ricostruzione della città e al soccorso delle vittime. Certo non lo aiutò a scagionarsi da queste accuse la reggia che si fece costruire proprio sulle zone distrutte dall’incendio e da lui espropriate: la Domus Aurea. Ed è da questa umile dimora (prima, poverino, aveva solo una Domus Transitoria) più che da tutto il resto, che possiamo affermare che Nerone era davvero un uomo con il senso dello spettacolo, con quella buona dose di megalomania artistica mista a lusso sfrenato che secoli dopo sarà il marchio di Hollywood.

    La Domus si estendeva per ben quattro colli (Palatino, Esquilino, Oppio e Celio) e comprendeva numerosi edifici e ville grandi come città, con migliaia di stanze, residenze per ospiti, casini, ovviamente teatri, terme e palestre, templi, monumentali vie porticate, terrazze e poi vigne, boschi e pascoli con ogni genere di animali, domestici e selvatici. Arrivò perfino a piegare la natura ai suoi desideri facendo realizzare un lago artificiale, dove oggi è il Colosseo, riempito con acqua di mare fatta arrivare direttamente dalla costa, e speciali piscine alimentate con acqua sulfurea dirottata dai monti (cioè da Tivoli, non so se mi spiego). L’acqua marina e sulfurea alimentava anche i bagni (per quanto la sua amante, Poppea, prediligesse immergersi nel latte d’asina). Ma la Domus era pure aurea, il che vuol dire che era in gran parte ricoperta d’oro, ornata di gemme preziose e conchiglie (lussuosamente kitsch), marmi pregiati e splendide statue (da qui il gruppo del Laocoonte oggi ai Musei vaticani). Era aurea anche perché la luce inondava le stanze, luce che condizionò la scelta dei materiali. Plinio racconta che fu utilizzata una pietra particolare grazie alla quale «anche quando le porte erano chiuse c’era dentro a esso un chiarore come del giorno [...] sembrava che la luce non fosse trasmessa all’esterno ma come racchiusa all’interno». Proprio in quel periodo, Nerone cominciò a farsi rappresentare come il Sole (sarà un caso che secoli più tardi un altro re Sole si farà costruire un’altra lussuosissima reggia, ovvero Versailles?). I soffitti delle sale da pranzo erano ricoperti di lastre d’avorio mobili e forate in modo da permettere la discesa di fiori e profumi durante i pasti. Una sala, poi, era circolare e ruotava sempre, di giorno e di notte: un effetto speciale da far girare la testa, letteralmente. Anche l’esterno era tutto dorato e l’interno decorato con splendidi affreschi del pittore Fabullo, che saranno poi fonte di ispirazione per le grottesche di Raffaello. Quando Nerone inaugurò la sua reggia disse che finalmente cominciava ad abitare in una casa degna di un uomo. Capite da soli che ai romani tutto questo lusso sfrenato e questa reggia che da sola occupava quasi tutta la città, pareva uno schiaffo alla miseria. E, dato che i tempi non erano ancora abbastanza maturi per porgere l’altra guancia, a questo schiaffo risposero alimentando l’odio verso l’imperatore, proprio come si diceva egli avesse alimentato il fuoco che aveva distrutto Roma. La battuta che circolava era: «Roma ormai è una sola casa: migrate a Veio, o Quiriti, se questa casa non occuperà anche Veio».

    Alla morte di Nerone, lo spettacolo doveva continuare, ma cambiando scenografia. La damnatio memoriae iniziò proprio radendo al suolo il simbolo della sua follia. Venne lasciata in piedi solo la casa usata come residenza imperiale, poi incorporata nelle fondazioni di un altro mastodontico edificio pubblico: le terme di Traiano. Fu così che la Domus Aurea venne riempita di terra e rimase sepolta per secoli facendo perdere le sue tracce. Almeno fino al Rinascimento, quando accidentalmente vennero alla luce alcune stanze affrescate, anche se solo nell’Ottocento si comprese che si trattava della fantomatica Domus Aurea. Visitando oggi quel che resta del sogno megalomane di Nerone, dovete avere voi il senso dello spettacolo e lavorare molto con la fantasia per immaginare quello che doveva essere. Ma nel buio delle sale sotterranee aperte al pubblico, ormai solo parzialmente affrescate, l’impatto è senza dubbio fortissimo. Quel che resta del sogno di «quell’anima più nera der carbone», come Belli definì l’imperatore, continua a essere una domus aurea anche nel buio della terra, nelle cui sale riecheggia la magnificenza del passato. Scendere sottoterra e trovare la luce è un’emozione unica.

    Dopo essere stata chiusa per un lungo periodo e nonostante i lavori di restauro siano ancora in corso, al momento è possibile visitare una parte del cantiere della Domus Aurea con un percorso indimenticabile ed emozionante che include sale aperte al pubblico per la prima volta.

    Per info: www.cantieredomusaurea.it

    Terme di Caracalla

    Anche le terme di Caracalla si possono considerare uno dei più impressionanti monumenti della Roma antica, ennesima riconferma della straordinaria perizia ingegneristica dei romani. Fu proprio in epoca imperiale che sorsero a Roma le terme, grandi stabilimenti multiaccessoriati aperti al popolo. Anzi erano proprio per il popolo, cui l’imperatore, nella sua magnanimità per nulla disinteressata, offriva praticamente gratis un luogo dedicato al riposo, allo svago, alla cura del corpo e della mente, grandi spazi dove riunirsi e socializzare. Le colossali terme di Caracalla furono costruite nel III secolo dall’imperatore omonimo ed erano, come lo sono ancora, le più spettacolari della città tra quelle destinate al popolo, perché l’élite romana frequentava le più esclusive, ma piccole, terme di Agrippa, di Nerone o di Traiano. Le terme di Diocleziano, costruite novant’anni più tardi, erano più grandi ancora, ma la loro trasformazione nella chiesa di Santa Maria degli Angeli ha fatto perdere parte della loro imponenza. Non deve stupire la destinazione popolare delle maestose terme, perché rientrava nella politica propagandistica degli imperatori, perennemente a caccia di consenso. Qui, Caracalla offriva relax. Il complesso poteva accogliere più di 1500 persone ed era già all’epoca all’avanguardia per perfezione tecnica e potenza degli impianti idrici. Il corpo centrale ospitava gli spogliatoi (apodyteria), le sale per cospargersi d’olio (unctoria) e una sala con vapori caldi tipo sauna (sudatorium o laconicum). Poi si procedeva con il percorso termale attraverso una sala con vasche per il bagno caldo (calidarium), una con vasche d’acqua tiepida (tepidarium), per finire immergendosi nell’acqua fredda (frigidarium). D’estate il percorso terminava con una bella nuotata nella piscina all’aperto (natatio). Ma l’offerta del pacchetto benessere non finiva qui: botteghe, palestre, uno stadio, sale per massaggi, biblioteche (secondo il concetto di mens sana in corpore sano) e perfino punti di ristoro perché il relax, si sa, mette fame. Anche perché vi pare possibile che l’imperatore lasciasse i suoi sudditi senza il panem con cui condire i circenses, in questo caso intesi come sollazzi del corpo? Nonostante il passaggio del tempo e dei barbari non abbia risparmiato il complesso termale e soprattutto le sue ricche decorazioni (da qui vengono, tra gli altri, il Torso del Belvedere e il mosaico policromo con figure di atleti, entrambi ai Musei vaticani, nonché le vasche che rallegrano piazza Farnese), passeggiare per le sue maestose rovine rimane ancora oggi un’esperienza unica per l’impressione di grandiosità di questa enorme SPA ante litteram che, ribadisco ancora una volta, era di lusso ma destinata al popolo e il suo ingresso costava una cifra irrisoria.

    Pantheon

    Per la sua grandiosità e bellezza, capace di attraversare quasi indenne il passare dei secoli, il Pantheon contende la scena al Colosseo, con cui condivide anche il fatto di essere un’impresa eccezionale, nella quale l’abilità costruttiva dei romani ha mostrato come le più avanzate tecnologie fossero messe al servizio di capolavori dell’arte. Tra i monumenti dell’antichità, il Pantheon vanta anche il primato di essere uno dei meglio conservati, grazie probabilmente alla sua trasformazione in chiesa con il nome di Sancta Maria ad Martyres, che gli ha consentito di mantenere l’originale funzione religiosa di luogo dedicato alla divinità, in origine a tutte le divinità. Ma non è solo questo il suo primato: ha la cupola più grande di tutta la storia dell’architettura, perfino più grande del cupolone, ed è il monumento più imitato e copiato. Anche se spogliato nei secoli per impreziosire altri monumenti, il Pantheon, come del resto il Colosseo, non ha perso la sua straordinaria imponenza. La leggenda vuole che Agrippa, architetto e genero di Ottaviano, nel 27 a.C. avesse scelto di costruire il Pantheon sul luogo dove Romolo ascese in cielo, in modo da stabilire un legame tra il fondatore di Roma, nonché primo re, e Augusto, il fondatore di una nuova Roma e primo imperatore. Ancora e sempre, quindi, una grande opera al servizio della politica. Come dice il nome stesso, il Pantheon fu dedicato a tutti gli dèi. Non bisogna farsi ingannare dall’iscrizione posta sul timpano della facciata, in cui si legge il nome di Agrippa: si tratta infatti di un omaggio fatto da Adriano, il grande imperatore-architetto cui si deve l’aspetto attuale del Pantheon. Dopo vari incendi e distruzioni subiti nel tempo, l’imperatore decise di rifarlo per intero. E di rifarlo in grande. Superato il portico e le sue gigantesche colonne e varcato l’enorme portone, una volta entrati è la cupola a calamitare lo sguardo: cinque file di cassettoni concentrici che degradano verso l’alto per terminare con un’apertura circolare, un occhio di nove metri di diametro da cui filtra la luce. Proprio riguardo all’eccezionale costruzione della cupola, si racconta che per realizzarla in tempi brevi e con un unico getto si pensò a uno stratagemma formando una montagna di terra in cui furono nascoste monete d’oro. Su questa montagna fu calato il calcestruzzo e, una volta indurito, si chiamarono i romani per togliere tutta la terra consentendogli di tenere le monete che vi erano state nascoste. Il popolo non si lasciò sfuggire l’occasione di partecipare a questa ricca caccia al tesoro: neanche a dirlo, la cupola fu svuotata in men che non si dica. Leggende a parte, come scrisse lo storico Dione Cassio, la cupola «assomiglia alla volta del cielo» ed è probabile che il grande occhio del Pantheon facesse riferimento a un complesso simbolismo cosmico e servisse proprio per osservare il sole di giorno e gli astri di notte. Recenti studi hanno confermato che l’oculo aveva un significato astronomico e politico ben preciso: filtrando dall’apertura, i raggi del sole andavano, e lo fanno ancora, a colpire la porta d’ingresso esattamente a mezzogiorno del 21 aprile, ovvero il Natale di Roma. Probabilmente questo effetto teatrale era già presente nel Pantheon di Augusto, rientrando perfettamente nel suo programma politico, che mirava a legittimarne il ruolo di nuovo fondatore della città. Dopo secoli, il Pantheon continua a essere una delle testimonianze più suggestive dell’incredibile ars costruendi dei romani, capaci di opere di grande ingegneria e perizia tecnica, ma anche di racchiudere l’Universo in una cupola.

    002. GIORNATA A SPASSO NELLA ROMA PALEOCRISTIANA

    Una passeggiata per ripercorrere i luoghi dove il cristianesimo ha mosso i primi passi alla luce del sole di Roma

    Il Laterano

    Con la liberalizzazione del culto cristiano, la donazione dell’area del Laterano al papa da parte di Costantino e il conseguente spostamento della corte imperiale a Costantinopoli, ebbe inizio il cambiamento del volto e dell’anima di Roma, che da Caput Mundi di un vastissimo impero si trasformò nel centro della cristianità. Lasciate le catacombe e le domus ecclesiae e cessato il divieto di costruire edifici sacri, cominciarono a sorgere le prime chiese. La prima fu San Giovanni in Laterano, nata per essere Madre e capo di tutte le chiese e intorno alla quale i papi stabilirono il loro quartier generale fino alla fine del Trecento, quando, al ritorno da Avignone, si trasferirono in Vaticano. Rifatta più volte nei secoli, la basilica lateranense ha mantenuto ben poco dell’aspetto originale. Stessa sorte è toccata a Santa Maria Maggiore, risalente al V secolo, ma più volte modificata nel corso del tempo. Altre chiese della zona, primo fulcro della cristianità a Roma, hanno invece mantenuto il primitivo aspetto. La nostra passeggiata nella città paleocristiana è dedicata soprattutto a quelle chiese in cui si respira ancora quella spiritualità, sacralità e semplicità del cristianesimo delle origini. Tra queste, Santa Prassede e Santa Pudenziana hanno preservato l’aspetto intimo e raccolto dei primi edifici religiosi, quasi tutti edificati su preesistenti domus ecclesiae, le cosiddette chiese domestiche, case private messe a disposizione dai fedeli più ricchi per officiare un culto ancora non legalizzato. Si è salvata dal trascorrere del tempo anche la basilica inferiore di San Clemente che non è stata ritoccata ma anzi ha potuto mantenere il suo sobrio look originale grazie alla basilica superiore che ci si è adagiata sopra, sovrapponendosi con discrezione e proteggendola. Per maggiori dettagli sulla storia e i tesori di Santa Prassede, Santa Pudenziana e San Clemente, si vedano Giornata tra i mosaici – Prima parte e Giornata sotto le chiese – Prima parte.

    Il Celio

    Costruita nel V secolo, Santo Stefano Rotondo è la più antica chiesa a pianta centrale di Roma e, indubbiamente, la sua posizione defilata in un giardinetto del Celio la rende perfetta per una passeggiata nel tempo (fuori dal tempo) dove, nella semplicità essenziale della chiesa a doppio anello, si rivive la sobria spiritualità degli albori del cristianesimo (per maggiori dettagli, vedi Giornata a tutto tondo e Giornata splatter). La vicina Santa Maria in Domnica, invece, nacque nel VI secolo come diaconia, centro assistenziale di approvvigionamento della popolazione in un momento di difficoltà durante il quale la Chiesa cominciava ad assumere ruoli, anche amministrativi, che fino a quel momento erano stati propri del potere civile, segnando un passaggio di consegne che sarà fondamentale per riscrivere la storia della città (per dettagli, vedi Giornata tra i mosaici – Seconda parte). Uscendo dalla chiesa e prima di arrivare all’arco di Dolabella, facciamo una curiosa sosta davanti a un’edicola impreziosita da un mosaico. Vi è raffigurato Cristo che tiene per mano due prigionieri, uno bianco e uno nero. L’edicola si trova su uno dei portali d’ingresso del complesso di San Tommaso in Formis, costituito da un ospedale e un monastero, e ne rende esplicita l’antica funzione di riscattare i prigionieri presi in ostaggio dai saraceni nel Mediterraneo. Oggi vi ha sede un istituto per lo studio delle piante. Riprendendo il cammino e passando sotto l’arco di Dolabella, che in realtà è l’antica porta Celimontana, passeggiando lungo l’incantevole via di San Paolo della Croce, chiusa tra mura antiche su cui si aggrappano romantici rampicanti, arriviamo in una delle più suggestive, raccolte e nascoste piazzette di Roma. Siamo davanti all’antichissima basilica dei Santi Giovanni e Paolo, affiancata da un monastero costruito sui resti del tempio di Claudio e che vanta uno dei più bei campanili romanici di Roma, con il suo gioco di bifore, trifore, quadrifore e dischi di ceramica. La chiesa fu realizzata nel V secolo sopra le case dei fratelli Giovanni e Paolo, due ufficiali della corte imperiale decapitati qui in casa propria per non aver voluto ripudiare la fede cristiana. Se l’esterno conserva un aspetto medievale, l’interno è stato completamente rifatto nel Settecento, con una tendenza alla ricchezza (vedi i lampadari di cristallo in stile Versailles) che contrasta con la semplicità dell’esterno. Da notare la bellissima fascia a mosaico con tessere policrome che incornicia la porta d’ingresso. Nei sotterranei si trovano i resti di un complesso di domus romane affrescate che sono un gioiello (per saperne di più sulle case romane al Celio, vedi Giornata tra domus e insulae).

    Usciti dalla chiesa, scendendo a sinistra per il Clivo di Sauro, con la sua incantevole infilata di archi, proseguiamo la nostra passeggiata nel tempo fino alla prossima tappa.

    L’Aventino

    Siamo in uno dei luoghi più fuori dal tempo che esistano a Roma, l’Aventino, dove la vita, soprattutto la domenica, sembra scorrere a un altro ritmo rispetto a quello frenetico della città. Imboccando il Clivo dei Publicii, la prima strada romana carrozzabile e dotata di marciapiede, risalendo fino ad arrivare al Giardino degli Aranci, giungiamo a Santa Sabina. Fondata nel V secolo dal sacerdote Pietro d’Illiria sull’ecclesia domestica della matrona romana Sabina, fu in seguito intitolata a una santa martire omonima. Anche la chiesa dell’Aventino è stata più volte rimaneggiata nel corso dei secoli, ma un ultimo restauro nel Novecento le ha restituito, almeno parzialmente, l’aspetto originario di basilica paleocristiana. Entrando, infatti, l’atmosfera sobria, essenziale e austera, ci riporta alla semplicità dei primi anni del cristianesimo. Quel che rimane della decorazione a mosaico della chiesa antica è una fascia con una iscrizione a lettere d’oro su fondo azzurro in cui vengono menzionati il fondatore della chiesa, Pietro d’Illiria, e papa Celestino. All’estremità compaiono due figure femminili che simboleggiano la fede ebraica e quella cristiana, stessa raffigurazione che troviamo anche a Santa Pudenziana (per dettagli, vedi Giornata tra i mosaici – Prima parte). L’elemento più prezioso di Santa Sabina è la porta in legno intagliato dell’ingresso centrale, che risale al V secolo ed è il più antico esempio di scultura lignea di epoca paleocristiana. La porta si è salvata perché la chiesa è stata per secoli inglobata nelle fortificazioni medievali dei Savelli. I riquadri superstiti, diciotto su ventotto, rappresentano scene dell’Antico e Nuovo Testamento. La crocifissione è tra le più antiche raffigurazioni plastiche dell’episodio, il che riconferma che siamo davvero agli albori della cristianità, anche se a ben guardare, più che in croce, i tre personaggi sembrano inquadrati all’interno di un’edicola.

    Accanto alla chiesa c’è il convento dei domenicani risalente al Duecento. Proprio in quel periodo la chiesa fu affidata dal papa a san Domenico in seguito all’approvazione della regola dell’ordine monastico.

    Usciti da Santa Sabina e proseguendo per piazza dei Cavalieri di Malta, facendo solo qualche passo in più arriviamo a un’altra chiesa delle origini: Santa Prisca. Antichissima, fu costruita nel IV o V secolo su una domus ancora più antica ed è forse la prima testimonianza del culto cristiano sull’Aventino. La chiesetta è direttamente connessa alla figura di san Paolo, che nelle sue lettere fa riferimento a Prisca come a un personaggio fondamentale della neonata comunità cristiana della capitale. In realtà è difficile stabilire l’identità della santa, probabilmente la prima donna in Occidente a testimoniare la sua fede con il martirio. Se è incerta la leggenda secondo cui nella casa di Prisca sarebbero stati ospitati Pietro e Paolo, è certo che la Domus Priscae fu uno dei maggiori centri di predicazione ed evangelizzazione agli albori del cristianesimo nell’Urbe. Proprio san Paolo parla di questa domus ecclesiae come di un importante centro dove si riunivano i primi fedeli. Ma se vogliamo scavare ancora più a fondo e più indietro nel tempo, l’origine antica di Santa Prisca è riconfermata anche dalla presenza, nei sotterranei, di un mitreo: questo antico culto orientale molto diffuso a Roma ha condiviso la scena con il nascente cristianesimo, per poi scomparire misteriosamente all’improvviso (per dettagli, vedi Giornata nei mitrei).

    interni

    02 Edicola sul portale del complesso di San Tommaso in Formis al Celio

    Santa Maria Antiqua

    Incastonata alle pendici del Palatino, è circondata da un’aura quasi leggendaria. Santa Maria Antiqua nacque proprio da una leggenda che vuole la sua costruzione sul luogo dove papa Silvestro avrebbe sconfitto un temibile drago che qui aveva la sua tana. In realtà la chiesa è posteriore alla presunta impresa di super papa Silvestro. Edificata nel VI secolo sfruttando alcuni ambienti del palazzo di Domiziano, Santa Maria Antiqua fu sepolta da un terremoto nell’847 e riscoperta per caso nel 1900, quando venne smantellata la chiesa che vi era stata costruita sopra. Considerata la Cappella Sistina del Medioevo per l’importanza storico artistica degli affreschi che la ricoprono completamente, dal 1980 è stata definitivamente chiusa al pubblico, salvo rare eccezioni, per consentire il restauro dei dipinti. Ecco perché ha mantenuto un fascino misterioso ed è un luogo poco conosciuto. Recentemente ha riaperto le porte ed è una tappa fondamentale in una giornata sulle tracce del primo cristianesimo. Non solo perché trovandosi nel Foro Romano sancisce la conquista definitiva del fulcro della città imperiale da parte della Chiesa (neanche Costantino aveva osato costruire una basilica all’interno del Foro), ma anche perché testimonia lo scontro tra Roma e Bisanzio che è all’origine della lotta iconoclasta e quindi dello scisma tra la chiesa cattolica e quella ortodossa. Attraverso gli affreschi, realizzati in un arco di tempo che va dal VI all’VIII secolo, è possibile ripercorrere interi capitoli di storia, storia dell’arte e teologia. Le pitture volevano essere una testimonianza di fede dei monaci disobbedienti alla faccia dell’imperatore di Bisanzio, che vietava di raffigurare immagini sacre. Tra episodi tratti dalla Bibbia e raffigurazioni di santi, compare perfino la Vergine negli straordinari affreschi dell’abside. La parete di destra, in particolare, è la più famosa, meglio nota come la parete palinsesto per la presenza di sette strati sovrapposti di affreschi, di cui cinque risultano dipinti mentre gli ultimi due presentano solo tracce di colore. Spiccano il frammento con Maria in trono adorata da un angelo, databile al VI secolo, altri due frammenti con il volto della Madonna e il celebre angelo bello, che insieme compongono un’Annunciazione databile, invece, alla metà del VII secolo. Ma ecco che al centro della parete c’è spazio anche per un po’ di storia con un riquadro in cui compare la tesi sulla natura umana e divina di Cristo espressa dal concilio Lateranense del 649, che mise in moto la guerra delle immagini. A proposito di immagini, gli affreschi segnano anche un passaggio fondamentale nella storia dell’arte: i personaggi non hanno più nulla della ieraticità tipica dell’arte bizantina e preannunciano l’intenso naturalismo che troverà il suo rivoluzionario interprete in Giotto. Ecco che teologia, storia e arte si riuniscono in una misteriosa e antica chiesa nel cuore di Roma.

    003. GIORNATA A SPASSO NELLA ROMA MEDIEVALE

    Una passeggiata sulle tracce dei segni che il Medioevo ha lasciato sul volto di Roma

    Le fortezze

    Castel Sant’Angelo: è indicativo della storia della città il fatto che il monumento che in origine era il mausoleo dell’imperatore Adriano sia anche uno dei simboli più significativi del Medioevo romano e del potere pontificio. Già nel V secolo, con il suo inserimento all’interno delle mura Aureliane, il mausoleo aveva cominciato a trasformarsi in fortezza merlata per poter resistere agli assalti dei barbari. La sua importanza era legata alla posizione di collegamento ideale e reale tra il cuore della Roma antica, che si trovava al di là del Tevere, e la nuova Roma che stava crescendo intorno alla tomba di Pietro. Ma è con la grande processione del 590, organizzata da papa Gregorio Magno per debellare una terribile epidemia di peste, che la roccaforte prese il nome attuale diventando il simbolo del potere spirituale ma anche militare della Chiesa: sulla sua sommità c’è un angelo, ma con la spada. Secondo la leggenda, quando la processione, dopo aver attraversato una città dolente e devastata, giunse davanti al castello, in cima alla rocca comparve l’arcangelo Michele nell’atto di rinfoderare la spada: fu chiaro a tutti che il flagello era stato debellato con un miracolo. Come atto di riconoscenza, Gregorio Magno diede al castello il nome attuale, cristianizzandolo. Da quel momento la fortezza diventò protagonista della Roma medievale e delle continue lotte tra le famiglie nobili, il papa e gli invasori, perché controllare il castello significava controllare la città. Alla fine furono i papi ad avere la meglio, conquistando la fortezza e quindi Roma. Qui si barricarono per resistere ai tumulti cittadini, ma anche agli assedi dei barbari invasori, rendendola in seguito un’inespugnabile via di fuga per scampare ai pericoli con la costruzione dello strategico Passetto, che la collegava direttamente ai palazzi Vaticani. Se per la Chiesa era un rifugio, per i suoi nemici era una terribile prigione di massima sicurezza. Ma, a quel punto, il Medioevo ormai era passato, il papa era il re e la fortezza divenne uno strumento di potere e non più di difesa.

    Santi Quattro Coronati

    Sarà la sua collocazione un po’ appartata, sarà che si giunge qui dopo aver percorso una salita, sarà la sua imponenza massiccia, fatto sta che l’arrivo alla chiesa dei Santi Quattro Coronati è un’esperienza molto particolare in uno dei luoghi più suggestivi della città. Ci si trova faccia a faccia con l’austera e minacciosa severità tipica del Medioevo cui Roma non è abituata. Chiesa, convento e roccaforte: i Santi Quattro è tutto questo insieme, misteriosa sopravvivenza delle fortificazioni medievali, più volte usata dai papi come rifugio quando abitavano al Laterano, e testimonianza di un periodo avvolto dal mistero che sembra ancor più lontano nel tempo rispetto alla Roma imperiale. Perché il Medioevo, si sa, è un periodo buio. Il mistero avvolge anche l’identità dei Santi Quattro: secondo una leggenda erano legionari uccisi in seguito al rifiuto di adorare la statua di un falso dio, mentre secondo un’altra erano quattro artisti uccisi da Diocleziano perché si erano rifiutati di scolpire la statua di cui sopra (magari alla fine i Santi Coronati erano tutti e otto!). Questo complesso fortificato include precedenti edifici paleocristiani, una torre campanaria, tracce di mura merlate e di un cammino di ronda che, tuttavia, non bastarono a difenderlo dal terribile sacco del 1084 a opera di Roberto il Guiscardo che, senza fermarsi di fronte a nulla, mise a ferro e fuoco la città. Non a caso, nel luogo di culto più fortificato della Roma medievale, immortalato sulle pareti della cappella di San Silvestro, i papi hanno custodito il documento ufficiale (anche se falso) della famigerata donazione di Costantino, che sanciva il passaggio del potere temporale dall’imperatore al papa, quel potere che i papi avrebbero rivendicato per tutto il Medioevo. A dimostrazione che i Santi Quattro Coronati dovessero fungere da "bodyguard", a difesa del primato della chiesa di Roma, è anche la recente scoperta dell’Aula Gotica, che si trova all’interno del palazzo cardinalizio, nato come residenza di Stefano Conti, nipote di Innocenzo III, nonché vicarius urbis, ossia una sorta di segretario di stato che amministrava la giustizia. L’Aula Gotica, definita la Cappella Sistina del Medioevo per la ricchezza del ciclo di affreschi che raffigura i mesi dell’anno, i vizi, le arti, le stagioni, i lavori quotidiani, lo zodiaco, le costellazioni e scene del Vecchio e Nuovo Testamento, apre una nuova prospettiva sulla pittura medievale a Roma, di cui ben poco è sopravvissuto. Al di là dell’alto valore artistico, gli affreschi che decorano quella che possiamo considerare una sorta di stanza dei bottoni in cui si amministrava la giustizia dello Stato pontificio e dove si prendevano importanti decisioni politiche e spirituali, sono un unicum anche per quello che raccontano. A essere raffigurati non sono santi o martiri, ma scene di vita reale e soggetti pagani, sicuramente più adatti alla sala di un palazzo pubblico comunale che non a un edificio religioso. Ma proprio questo sembrerebbe confermare la funzione del complesso dei Santi Quattro, pensato come un prezioso scrigno dove proteggere la legittimità del potere temporale della Chiesa, fondato su una macroscopica balla, in un momento in cui era fortemente minacciato.

    Le torri

    Ormai sono ridotte a mozziconi malconci, ma le torri sono una delle poche testimonianze del Medioevo romano, della sua parte più violenta, quella delle sanguinose lotte tra famiglie nobili per la contesa del potere in una città lasciata in balìa di se stessa e priva di una guida. Le torri hanno una giornata tutta loro, ma se volete potete inglobare il tour in questa passeggiata.

    I campanili

    A fare da contraltare alle torri, simbolo dello strapotere delle famiglie bellicose, ci sono i campanili, silenziose dita puntate verso il cielo come a voler ricordare chi è che comanda. Una delle poche testimonianze del Medioevo arrivate fino a noi, sono circa cinquanta i campanili medievali a Roma, ne ho scelto qualcuno in rappresentanza. Il più antico superstite è quello dei Santi Quattro Coronati, del IX secolo, mentre il più recente è quello di Santa Maria Maggiore, del XIV secolo, che è anche il più alto (75 metri) e uno dei più belli. Una delle sue campane è detta la sperduta. La leggenda racconta di una pellegrina che una notte, dopo essersi persa nella campagna romana, sentì i rintocchi della campana in lontananza e seguendoli si ritrovò sana e salva a Santa Maria Maggiore. Grata alla Madonna, lasciò una rendita alla chiesa perché ogni notte, alle due, la sperduta suonasse (contenti quelli che abitavano vicino!). Oggi suona alle nove di sera. Il campanile più piccolo, invece, è quello di San Benedetto in Piscinula a Trastevere, mentre quello dalla vita più rocambolesca appartiene a San Biagio de Mercato, ai piedi dell’Aracoeli, che ha saputo resistere tenacemente sia quando gli è stata costruita sopra la chiesa di Santa Rita, sia quando questa fu smantellata negli anni Trenta durante i lavori per il Vittoriano. Vince per resistenza anche il campanile della chiesa delle Sante Rufina e Seconda, a via della Lungaretta, sopravvissuto al rifacimento della chiesa e anche agli zuavi, che proprio nel campanile si asserragliarono per resistere all’attacco degli insorti capeggiati dall’eroina di Trastevere Giuditta Tavani Arquati. Degli scontri garibaldini del 25 ottobre del 1867 il campanile porta ancora le ferite di guerra. Il più elegante e snello è quello di Santa Maria in Cosmedin al Foro Boario, cui risponde per le rime il poco lontano campanile romanico della chiesa dei Santi Giovanni e Paolo al Celio, svettante e arioso con le sue bifore e colorato con croci e dischi di ceramica. L’outsider è l’alto campanile di Santa Francesca Romana che porta un tocco medievale al Foro e alla facciata barocca della chiesa. Lascio a voi il divertimento di passeggiare per Roma con il naso all’insù, alla ricerca dei campanili medievali che si nascondono pur svettando verso il cielo.

    Le case

    Poco rimane del Medioevo nell’architettura civile. Suggerisco di vedere tre complessi di case, piuttosto vicini, che rendono l’idea della tipologia edilizia della Roma dell’epoca. A via San Paolo alla Regola si trova probabilmente il gruppo di case più grande, un unicum che comprende due case-torri, un portico con loggia e le classiche finestre monofore e bifore. Nonostante sia stato evidentemente restaurato, mantiene il suo fascino medievaleggiante, piuttosto inusuale per Roma, accresciuto dalla sua collocazione in un angolo seminascosto che si svela all’improvviso come una quinta teatrale. Arrivando a via del Portico d’Ottavia, proprio accanto al teatro di Marcello, ci si imbatte in un delizioso complesso frutto della sintesi di case trecentesche e cinquecentesche. L’edificio è noto come Casa dei Vallati, dal nome della famiglia che possedeva numerosi immobili nella zona tra il Duecento e il Trecento. I resti della casa medievale sono venuti alla luce negli anni Venti durante i lavori di restauro del teatro di Marcello. Effettivamente la parte trecentesca dell’edificio è proprio quella rivolta verso il teatro, come si può notare da alcuni elementi architettonici tipici dell’edilizia del XIII secolo: il portico al pian terreno, il loggiato al primo piano e alcune bifore in marmo e peperino. Oggi è sede della Soprintendenza ai Beni Culturali. La Casa dei Vallati offre la possibilità di immaginare una Roma diversa, una città fatta anche di portici, dove le botteghe diventavano il prolungamento delle case private. Ma i portici ebbero breve vita, perché Sisto IV ne decretò la demolizione con un editto del 1480, ritenendoli pericolosi in quanto facili nascondigli per malintenzionati.

    Basta attraversare l’isola Tiberina per trovarsi di fronte a un altro esempio di palazzo medievale e rinascimentale insieme, che è anche uno dei più deliziosi complessi architettonici di Roma: le case Mattei. Era la dimora del ramo trasteverino della potente famiglia cui spettava il titolo ereditario di guardiano dei ponti e delle ripe, che consisteva nel controllare l’ordine pubblico durante il conclave, ossia quando la sede papale era vacante. Il palazzo, che affaccia su Lungotevere degli Anguillara, di fronte all’isola Tiberina, ma anche su piazza in Piscinula, è formato da cinque corpi cronologicamente distinti che vanno dal XIII al XV secolo. Tra bifore, trifore, balconcini, pergolati e rampicanti, l’insieme è un incanto, tanto che si fatica a credere che fu teatro, alla metà del Cinquecento, di un terribile fatto di sangue: in seguito a feroci litigi, proprio tra queste amene mura, furono uccisi ben cinque membri della famiglia.

    Per saperne di più, visitate

    il Museo dell’Alto Medioevo

    Inaugurato nel 1967, espone una collezione di reperti di vario genere (oggetti, corredi d’armi, gioielli, vasi, vasellami, ceramiche) databile tra il IV e il XIV secolo. Da non perdere l’opus sectile, bellissimo pavimento in marmi colorati proveniente da una domus di Ostia, oltre alle testimonianze del passaggio dei longobardi e dei carolingi. Il museo è interessante per la possibilità di fare luce sul periodo di passaggio che va dal tramonto dell’impero fino al Rinascimento, poco conosciuto ma tutto da esplorare.

    Viale Lincoln, 3 – 06 54228199

    archeoroma.beniculturali.it

    004. GIORNATA A SPASSO NELLA ROMA RINASCIMENTALE

    Il Rinascimento è il periodo storico che ha maggiormente cambiato il volto di Roma. La passeggiata, quindi, non può che essere selettiva e, tralasciando volutamente chiese e piazze, si srotola sui luoghi simbolo del percorso che ha portato alla conquista del potere temporale della Chiesa, il cui effetto è stata la trasformazione di Roma nella capitale di un nuovo Stato, quello pontificio

    La rinascita della Roma dei papi, tornati definitivamente alla guida della città dopo il buio Medioevo, non può che iniziare dalla chiesa simbolo della cristianità: San Pietro. La costruzione della nuova basilica comincia con Giulio II nel 1506 per terminare con Urbano VIII più di un secolo dopo, nel 1626. Tanti i pontefici che si sono avvicendati durante i lavori, altrettanti i progetti e lunghissima la sfilata di artisti chiamati da tutta Italia per realizzare la più grandiosa basilica del mondo. A cominciare furono Bramante, Raffaello, Antonio da Sangallo il Giovane e Baldassarre Peruzzi, poi subentrò Michelangelo, rivoluzionando tutto il progetto, seguito da Giacomo della Porta e Carlo Maderno. Infine sarà Bernini, con il suo tocco teatrale, a portare a termine i lavori, facendo calare il sipario sull’infinita fabbrica di San Pietro e alzandolo sul nuovo simbolo della città. Ma, a quel punto, siamo già nella Roma barocca.

    Da San Pietro è poca la distanza per raggiungere a piedi via Giulia, arteria creata da quello stesso Giulio II che radunò i migliori artisti del tempo per realizzare la basilica e decorare gli appartamenti papali in Vaticano, Cappella Sistina compresa. Nel 1508 il grande papa costruttore incaricò Donato Bramante di progettare la prima strada a tracciato rettilineo dell’Urbe. Originariamente chiamata via Recta – poi la vanità del papa ha fatto prevalere il nome di via Giulia – era la più importante arteria della Roma rinascimentale. Dopo che le lunghe lotte tra famiglie nobiliari per il dominio sulla città erano terminate con la vittoria del papa, tutto il potere era ormai nelle mani della Chiesa. Ed è proprio percorrendo via Giulia che ci si rende conto che la recta via era smarrita ed era iniziato un percorso che vedrà i papi impegnati in un’affannosa ricerca del potere che eserciteranno anche attraverso l’arte. Il disegno originale del papa per via Giulia era molto ambizioso e prevedeva di trasformarla nella sede del potere amministrativo, giudiziario ed economico della città, il tutto a due passi dal Vaticano. Il progetto si realizzò solo parzialmente, ma ormai la strada verso il potere temporale era lastricata di affari, infatti i principali abitanti della nuova via erano per lo più banchieri toscani, grandi finanziatori delle imprese papali. Da sempre ci vogliono soldi per esercitare il potere, anche quello mediatico, che nella Roma del Cinquecento fu affidato ai più grandi maestri dell’epoca. Ecco che la zona intorno a via Giulia, racchiusa nell’ansa del Tevere, divenne il quartiere del Rinascimento, popolandosi di artisti, mercanti, artigiani, commercianti legati al pellegrinaggio in Vaticano e cortigiane erudite. Tutto questo fermento determinò il raffinato volto della strada, disseminata dai prestigiosi palazzi delle ricche famiglie, che così dimostravano il potere acquisito (per dettagli, vedi le Giornate nei palazzi). Il papa non poteva essere da meno e così, alla fine di via Giulia, c’è la dimora più spettacolare, quel capolavoro del Rinascimento che è palazzo Farnese, voluto dal cardinale Alessandro Farnese, poi papa Paolo III, per ribadire che il più potente tra tutti era lui. L’ingresso principale di questa imponente reggia – miracolo di equilibrio ed elegante sobrietà, per realizzare la quale ci vollero anni e artisti di prim’ordine – è su piazza Farnese e porta i segni indelebili del genio di Michelangelo (per dettagli su palazzo Farnese, vedi Giornata nei palazzi – Prima parte e Giornata con Michelangelo – In giro per Roma).

    Nella sua mente vulcanica, il Buonarroti aveva anche immaginato di collegare il palazzo con la villa della Farnesina che si trova dall’altra parte del Tevere, sontuosa residenza di Agostino Chigi, poi acquistata dai Farnese, la cui smania di mettere la mani sulla città non aveva limiti. Il progetto non si realizzò, ma, attraversando ponte Sisto, con una piccola passeggiata si raggiunge comunque la cinquecentesca villa a via della Lungara, altro gioiello del Rinascimento romano. Per realizzarla il ricco banchiere Agostino Chigi chiamò l’architetto e pittore senese Baldassarre Peruzzi. La villa doveva essere un luogo dove offrire ai propri ospiti ogni tipo di delizia per l’anima e il corpo, in perfetta coerenza con gli ideali rinascimentali. Per decorare gli interni, fu assoldata una squadra di artisti capeggiata da Raffaello con al seguito Giulio Romano, Giovanni da Udine, Francesco Penni e Sebastiano del Piombo, per citarne alcuni (per dettagli, vedi Giornata con Raffaello e le donne, Giornata scientifica e Giornata nelle ville rinascimentali).

    Ritornando sull’altra sponda del Tevere, con una piccola deviazione prima di raggiungere la prossima meta, ci si imbatte in un altro splendido esempio di edificio rinascimentale romano: palazzo della Cancelleria, a due passi da palazzo Farnese. L’architetto è ignoto, incerta è l’attribuzione a Bramante del chiostro, ma l’eleganza dell’insieme è indiscutibile. L’incarico di decorare i saloni interni fu affidato a Giorgio Vasari, Perin del Vaga e Francesco Salviati (per dettagli, vedi Giornata nei palazzi – Prima parte).

    Puntiamo ora verso la nostra prossima tappa, un luogo simbolico della città dove l’antica Roma si incontra con il Rinascimento: il Campidoglio. Centro della vita politica e religiosa praticamente ab Urbe condita, gli interventi cinquecenteschi che hanno conferito alla piazza del Campidoglio il suo elegante aspetto attuale si devono soprattutto a Michelangelo. Fu Paolo III Farnese a commissionare all’artista i lavori nel 1536 e il risultato è uno dei primi e più riusciti esempi di piazza moderna (per dettagli, vedi Giornata sul Campidoglio e Giornata con Michelangelo – In giro per Roma). Con il restyling della piazza, i pontefici conquistarono un altro luogo strategico della Roma antica, di cui volevano recuperare il ruolo di prestigio dandole però un nuovo volto, il volto della Roma dei papi. Ecco che la strada verso il potere era arrivata alla meta.

    Proprio ai piedi del Campidoglio, si trova il primo grande esempio dell’architettura rinascimentale romana: palazzo Venezia. Sarà stato soprattutto per ragioni pratiche, ma certo ha una forte valenza simbolica il fatto che, costruito alla metà del Quattrocento per volere del cardinale Pietro Barbo, futuro Paolo II, fu realizzato utilizzando il travertino del Colosseo e del teatro di Marcello, come a voler ribadire che la nuova Roma si ricopriva con i fasti della vecchia. Nonostante alcuni elementi dell’edificio anticipino il Rinascimento, il palazzo ha ancora un aspetto tardomedievale. Palazzo Venezia è tra i primi esempi di residenza papale, una moda che, come abbiamo visto, è tipica del Rinascimento, quando, più che una moda, diventa proprio un progetto politico.

    Da piazza Venezia, percorrendo tutta via del Corso, arriviamo a piazza del Popolo, la cui porta, che si apre nelle mura Aureliane, fu oggetto di particolare cura da parte dei papi proprio durante il Rinascimento. Questo interessamento non era, ovviamente, casuale. Porta del Popolo doveva rappresentare il monumentale accesso alla nuova Roma dei papi, doveva lasciare senza fiato i pellegrini, gli imperatori, i re e tutti coloro che, giungendo da nord, entravano nella Città Eterna (per dettagli su porta del Popolo, vedi Giornata lungo le mura Aureliane – Prima parte).

    Seguendo il percorso delle antiche mura, giungiamo a un’altra porta, monumentale anche questa, che incornicia l’uscita dei papi dalla scena politica. La nostra passeggiata si conclude a porta Pia. Prima di tutto perché qui, ancora una volta, la Roma rinascimentale si innesta su quella antica: la porta, infatti, si apriva all’interno delle mura Aureliane e fu ridisegnata su progetto di Michelangelo alla metà del Cinquecento per volere di Pio IV (per dettagli, vedi Giornata lungo le mura Aureliane – Prima parte). Ma soprattutto perché nel 1870 a porta Pia si è combattuta la celebre battaglia che ha portato alla fine del secolare potere temporale dei papi, con la conseguente restituzione di Roma al resto d’Italia.

    interni

    005. GIORNATA A SPASSO NELLA ROMA BAROCCA

    Una passeggiata per lasciarsi stupire dal barocco romano, che al rigore della Controriforma contrappone vitalità, dinamismo e un tocco di spettacolarità

    Piazza San Pietro

    Iniziata nel Cinquecento, la lunga gestazione della basilica di San Pietro termina solo nel Seicento con la realizzazione della splendida piazza a opera del Bernini. Da qui comincia la nostra passeggiata nella Roma barocca sia perché la piazza, pensata dal geniale artista come due braccia pronte ad accogliere, rappresenta l’urgenza della Chiesa, minacciata dalla riforma luterana, di tenere stretti a sé i fedeli, sia perché è espressione di quel gusto teatrale e scenografico, tipico del barocco, che sarà il filo rosso della nostra giornata.

    Ponte Sant’Angelo

    È un altro esempio di come il barocco abbia trasformato il volto della città. L’antico ponte, costruito già da Adriano come accesso al suo mausoleo, poi utilizzato a lungo come luogo dove venivano esposti i corpi dei condannati a morte, venne trasformato alla fine del Seicento da Bernini in una sensazionale e scenografica parata di angeli pronti ad accogliere i pellegrini diretti a San Pietro (per dettagli, vedi Giornata degli angeli custodi e Giornata sui ponti – Seconda parte).

    Piazza Navona

    Dal ponte, percorrendo via dei Coronari, si arriva a piazza Navona. È uno straordinario esempio di persistenza urbanistica: il suo perimetro ovale, infatti, ricalca perfettamente quello del sottostante stadio di Domiziano, con i palazzi al posto delle gradinate. Ma anche la sua destinazione è rimasta nei secoli fedele al divertimento. A cominciare dal nome, che è legato proprio ai giochi sportivi che qui si tenevano all’epoca di Domiziano: Navona è una derivazione dell’antico nome in agone che si riferiva alle gare di atletica. Quando lo stadio si trasformò lentamente in piazza, i romani continuarono a riunirsi qui in occasioni festose, come arrampicarsi sull’albero della cuccagna, assistere alle giostre, ai tornei e perfino alle corse dei tori. Per non parlare di quello che succedeva nel Seicento quando, sfruttando la sua conformazione cava, ogni sabato e domenica d’agosto la piazza veniva allagata per ospitare imponenti battaglie navali che ricchi, poveri, nobili e straccioni, correvano ad ammirare. Proprio nel Seicento la piazza preferita dai romani fu oggetto di una vera e propria rivoluzione voluta da Innocenzo X Pamphilj, su consiglio di Donna Olimpia, per celebrare la grandezza della sua famiglia che proprio lì aveva il proprio palazzo (per dettagli, vedi Giornata nei Palazzi – Seconda parte). Per trasformare la piazza in un fondale di lusso, a spese dei romani, il papa chiamò a raccolta i maggiori artisti dell’epoca: Bernini realizzò la movimentata e fantasiosa fontana dei Fiumi che domina il centro, Borromini e Rainaldi lavorarono alla chiesa di Sant’Agnese in Agone, mentre Pietro da Cortona realizzò i meravigliosi affreschi all’interno di palazzo Pamphilj. Vestita a festa da cotale stuolo di maestri, piazza Navona mantiene ancora oggi il suo carattere ludico, che culmina con il teatrino allestito ogni Natale tra bancarelle di dolci, giocattoli, addobbi, finti Babbi Natale e Befane in quantità. Tutto il resto dell’anno, qui si danno appuntamento caricaturisti e artisti di strada, oltre agli istrionici camerieri che cercano di attirare i clienti nei tanti locali i cui tavolini esterni ricordano i palchetti di un teatro all’italiana: basta prendere posizione per godersi l’incessante e animato viavai (il costo di un aperitivo può essere pari a quello di un biglietto dell’Opera).

    Lasciatevi coinvolgere anche voi da questa magica piazza, la cui conformazione circolare permette di percorrerla come un carosello, trasformandola in una giostra d’arte e di vita. Perché questa non è una piazza, è una festa cui siamo tutti invitati. Non saprei trovare parole più adeguate per descriverla di quelle usate dal Belli in un celebre sonetto: «Se pò ffregà Piazza-Navona mia / E dde San Pietro e dde Piazza-de-Spagna / Cuesta nun è una piazza, è una campaggna / Un treàto, una fiera, un’allegria».

    Quattro passi indietro nel tempo: sotto piazza Navona, la festa continua con la possibilità di visitare i resti dell’antico stadio di Domiziano. Il sito archeologico è stato recentemente rimesso a nuovo e aperto al pubblico con una pluralità di iniziative che, oltre alle visite guidate agli scavi, prevedono mostre, convegni e attività culturali che coinvolgono anche i bambini.

    www.stadiodomiziano.com

    Sant’Ivo alla Sapienza

    Alle spalle di piazza Navona, Sant’Ivo alla Sapienza è una delle realizzazioni più significative del barocco romano, nonché una delle più belle chiese nella storia dell’architettura. Realizzata alla metà del Seicento nel complesso dell’antica università, si deve al genio tormentato del Borromini la capacità di trasformare in libertà il vincolo di doversi adattare a un cortile preesistente. Questo guizzo di movimento e di energia, questa interpretazione della sapienza come capacità di elevarsi e di raggiungere alte vette, culmina con la celebre chiocciola, il magnifico campanile che si avvita in una cuspide elicoidale e che sembra librarsi in alto verso il cielo. Tale libertà fu pagata a caro prezzo dal Borromini: si dice, infatti, che per il timore di un possibile crollo della virtuosa lanterna, il rettore dell’università pretese dall’artista che rispondesse in prima persona di eventuali danni per almeno quindici anni.

    Sant’Ignazio

    e piazza dei Burrò

    Il gusto per lo spettacolo e l’illusione è protagonista anche a Sant’Ignazio, la chiesa costruita nel 1626 e dedicata al fondatore dell’ordine dei gesuiti. All’interno lo stupore è il sentimento dominante, grazie ai formidabili affreschi del soffitto, realizzati da padre Pozzo, che riescono a trasformare una superficie piatta nell’incavo di una cupola. Questa illusione di tridimensionalità altro non è che un escamotage per ovviare all’impossibilità di realizzare una vera cupola per mancanza di fondi (per maggiori dettagli, vedi Giornata magie e magiche illusioni).

    Davanti alla chiesa, piazza Sant’Ignazio è scenograficamente chiusa da eleganti palazzetti colorati tutti mossi e ondeggianti, la cui conformazione ricorda gli scrittoi rococò francesi, i burrò. E così, scherzosamente, è stato chiamato il gruppo di bizzarri edifici opera del napoletano Filippo Raguzzini (1727). Altri dicono che il termine burrò derivi dal fatto che, durante l’occupazione napoleonica, i francesi avevano lì i loro uffici, i bureaux. Lo stile rococò è più tardo del barocco ma condividono il gusto per la spettacolarità, e questa piazzetta sembra davvero un palcoscenico dotato di quinte.

    Fontana di Trevi

    La fontana non è un monumento, ma uno spettacolo per gli occhi e per le orecchie, teatrale ancora prima della nascita, visto che la sua genesi, durata trent’anni, sembra una commedia degli intrighi che ha per protagonisti scultori, architetti, papi e pure una vergine. Sì, perché tutto inizia con un’antica leggenda romana secondo la quale una fanciulla indicò ad alcuni soldati assetati una sorgente di acqua purissima. Nel 19 a.C. Agrippa, per portare l’acqua di quella fonte alle sue terme, fece costruire l’acquedotto Vergine che scorre sotterraneo da secoli e che, dalla fine del Cinquecento, alimenta le fontane più importanti della città. Fontana di Trevi ricopre fastosamente e festosamente la parte finale della conduttura. Tra i numerosi artisti che hanno preso parte in maniera attiva alla complessa trama che ha portato infine alla realizzazione della spettacolare fontana, ci fu anche Gian Lorenzo Bernini, al quale Urbano VIII commissionò il progetto nel Seicento. Conoscendo il senso dello spettacolo del geniale artista, doveva essere maestoso. I lavori cominciarono, ma i soldi finirono presto (soldi che venivano da un’odiatissima tassa sul vino). Quando, poi, Urbano VIII morì e Bernini cadde in disgrazia, il suo progetto venne abbandonato. Passarono altri anni, altri papi e altri progetti, finché non si arrivò finalmente al 1732, quando Clemente XII ne affidò l’esecuzione a un illustre sconosciuto, Nicola Salvi, che realizzò uno strepitoso monumento. Perfettamente integrata al retrostante palazzo Poli, la fontana mette in scena il trionfo di Oceano che, in un tripudio di scogliere, viene avanti su una conchiglia trainata da due cavalli marini guidati da Tritoni. A ricordarne la lontanissima origine, tra le statue collocate nelle nicchie, compaiono Agrippa nell’atto di approvare il disegno dell’acquedotto e la Virgo della leggenda. Non c’è dubbio: il risultato complessivo è sorprendente, teatro scolpito nella pietra, uno spettacolo acquatico in cui si fondono scultura e architettura. Tutto è movimento, danza e musica, il cui effetto finale è ancora più potente e sbalorditivo date le piccole dimensioni della piazza. In molti sostengono che il progetto di Salvi deve molto a quello del Bernini, di cui ricorda il vigore fantastico e impetuoso, cosa che non deve aver fatto piacere all’artista, gelosissimo della sua arte. Per quegli strani e bizzarri rivolgimenti della vita, Bernini dedicò alla turbolenta gestazione della fontana una commedia, arrivata parzialmente integra a noi, in cui si parla proprio di gelosie tra architetti e segreti da rubare. Nella realtà, che è una commedia ben più amara, il povero Nicola Salvi non riuscì a portare a termine la sua opera. Racconta il biografo che, schiacciato dalle continue liti con i collaboratori e macerato dalle invidie dei colleghi, «gli convenne morire di cinquantadue anni». L’opera fu così portata a termine da Giuseppe Pannini. Si possono dire tante cose su fontana di Trevi, si può anche rimanere senza fiato (nonostante la marea di turisti), ma penso che siano perfette quelle pronunciate da Anita Ekberg in La dolce vita, film che ha reso la fontana una diva: «It’s wonderful!».

    Scalinata di Trinità dei Monti

    Assecondando il gusto barocco, è concepita proprio come una scenografia, con una fontana, una scalinata e una chiesa, elementi architettonici di cui Roma è piena, ma la differenza è che in questo caso sono assemblati in modo tale che il risultato è un unico complesso armonico, monumentale ed elegante. Una delle piazze più rappresentative della città è stata, oserei dire, litigata dalle potenze straniere, che qui, a partire dal tardo Cinquecento, si sono contese il ruolo di primedonne. Ha cominciato la Francia con la costruzione della chiesa, dedicata alla Trinità, sulla sommità del monte, e ha risposto la Spagna collocando ai piedi dello stesso monte la sua ambasciata presso la Santa Sede. Tutte e due ancora resistono allo stesso posto e chissà se continuano a guardarsi in cagnesco. A tal punto le due potenze si sono contese la scena che, per circa un secolo, una metà della piazza si chiamò di Francia e l’altra di Spagna. Il nome attuale non dovrebbe lasciare dubbi su chi abbia avuto la meglio, ma a pensarci bene la Francia domina dall’alto la piazza con la sua chiesa, come una diva pronta a

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