Angel's Suspicion
Di Eileen Ross
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Info su questo ebook
Verrà affiancato da Michael Birkin, eccelso professore universitario dotato di una bellezza disarmante, arrivato direttamente dall'America per risolvere questi intricati delitti.
Alexandra e Lucrezia Gherardi avranno un ruolo essenziale nello svolgimento delle indagini e, cosa più importante, nella vita dei misteriosi protagonisti, che verrà stravolta da inaspettate rivelazioni e lussuriosi incontri.
Ognuno di loro metterà in gioco la propria esistenza per difendere l'umanità… ma riusciranno a salvare sé stessi?
E, soprattutto, saranno in grado di distruggere i loro demoni interiori
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Anteprima del libro
Angel's Suspicion - Eileen Ross
Eileen Ross
Angel's Suspicion: L'Eterna Condanna
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Indice dei contenuti
Angel’s Suspicion
Indice
Prologo
Capitolo I
Capitolo II
Capitolo III
Capitolo IV
Capitolo V
Capitolo VI
Capitolo VII
Capitolo VIII
Capitolo IX
Capitolo X
Capitolo XI
Capitolo XII
Capitolo XIII
Capitolo XIV
Capitolo XV
Capitolo XVI
Capitolo XVII
Capitolo XVIII
Capitolo XIX
Capitolo XX
Capitolo XXI
Capitolo XXII
Epilogo
Ringraziamenti
Angel’s Suspicion
L’Eterna Condanna
Proprietà letteraria riservata
Copyright © 2016 Eileen Ross
© Immagine di copertina by Amanda Grioni
Book design a cura di: Elena Palma, Simone Barzaghi,
Manuel Curti e Lisa Argentini
Impaginato per la stampa da WadeBooks.com
Questo libro è un’opera di fantasia. Nomi, personaggi, luoghi ed avvenimenti sono frutto dell’immaginazione dell’autore. Qualsiasi somiglianza con fatti, luoghi o persone reali è del tutto casuale.
Indice
Prologo. 5
Capitolo I. 11
Capitolo II. 15
Capitolo III. 19
Capitolo IV.. 23
Capitolo V.. 29
Capitolo VI. 43
Capitolo VII. 55
Capitolo VIII. 69
Capitolo IX.. 79
Capitolo X.. 113
Capitolo XI. 129
Capitolo XII. 153
Capitolo XIII. 177
Capitolo XIV.. 195
Capitolo XV.. 227
Capitolo XVI. 245
Capitolo XVII. 277
Capitolo XVIII. 361
Capitolo XIX.. 377
Capitolo XX.. 397
Capitolo XXI. 403
Capitolo XXII. 411
Epilogo. 425
Ringraziamenti 437
Prologo
Accasciata sul freddo ed umido pavimento, la ragazza cercò di sollevarsi, invano.
Tentò di urlare, di chiedere aiuto... ma dalla sua gola non uscì che un flebile lamento.
Passi, udiva dei passi in lontananza che, piano piano, si avvicinavano a lei. Credette che qualcuno si fosse accorto della sua presenza.
Una luce le ferì gli occhi. Corrugando la fronte e sbattendo le palpebre, mormorò flebilmente:
«Aiutatemi...»
Intravide sul soffitto affreschi sacri e tutt’intorno santi e crocifissi. Si trovava in una chiesa.
Arrivarono individui con lunghi sai neri, il cui cappuccio nascondeva il loro volto.
Si udiva cantare una nenia, una litania...
Fermandosi, si disposero a cerchio attorno a lei. Uno di loro le si avvicinò, scostandole i capelli dal volto. Pose lo sguardo su di lei, dicendo: «Ora è tempo di aprire le sette porte, è tempo del tuo ritorno, Oscuro Signore. Prendi questo dono e benedici i tuoi figli!»
Quel salmodiare diventava sempre più fastidioso, orribile.
Un’altra figura ignota si avvicinò: la sua voce aveva qualcosa di macabro.
«Gioisci, vergine! Questa notte nostro padre ti reclama... attraverso il tuo corpo berremo il suo sangue, mangeremo la sua carne... l’Onnipotente si manifesterà, noi saremo gli eletti.»
Lucia fece solo in tempo a scorgere un luccichio. Dopo di che, un dolore insopportabile al ventre la sconvolse.
Voleva urlare, voleva fuggire, ma continuava a non potersi muovere...
«Perché? Perché mi fate questo?!» sibilò.
Le lacrime le offuscarono la vista, mentre il suo corpo veniva martoriato. Due colpi inflitti, tre... Sangue, sangue ovunque.
Una voce che la chiamava.
Poi, il nulla.
La chiesa fu scossa da un terribile boato: il pavimento in basalto inghiottì il corpo privo di vita. Uno dei dodici apostoli cadde all’interno, urlando. Gli altri fecero appena in tempo a balzare indietro.
Silenzio.
Uno di loro si sporse sulla voragine. La profondità pareva infinita.
«Solo oscurità! Abbiamo sbagliato qualcosa nel rito, lui non c’è! Lui non è risorto!»
L’individuo che aveva assassinato brutalmente la povera vittima gli rispose: «Tutto è stato compiuto come descritto nel papiro.»
«Forse... non l’abbiamo compreso sino in fondo.»
«Impossibile! Dubito di aver confuso la traduzione.»
«È stato tutto inutile, inutile! Forse hai sbagliato qualcosa, dannazione!»
Il dubbio si insinuava anche negli altri che, intanto, continuavano a fissare quell’enorme crepatura.
Una mano, artigliandogli improvvisamente la gola, gli fece emettere un grido straziante.
Artigli neri e possenti gli tranciarono la giugulare dalla quale il sangue cominciò a sgorgare copiosamente.
Cercò di dimenarsi, portandosi le mani alla gola e, tra urla disumane, venne trascinato all’interno della voragine; il suo corpo pareva lacerarsi ed il rumore di ossa frantumate echeggiava violentemente. Gli altri tentarono di fuggire.
L’apostolo supremo li richiamò, ridendo sadicamente. Ripeteva di continuo: «Non fuggite, non fuggite! Lui è qui!»
Esponendosi incautamente urlò:
«Mio Signore! Vieni a noi! Siamo i tuoi figli, ti abbiamo fatto risorgere dall’oscurità!»
Il demone scaturì dal foro, librandosi nell’aria con membranose ali picee e il volto mefitico. Spalancò le tremende fauci emettendo un suono baritonale. Gli spaventosi occhi vitrei terrorizzarono gli apostoli, i quali si inginocchiarono ad un cenno del loro superiore.
Solo lui rimase in piedi, continuando a sghignazzare istericamente.
Il demone avvicinò il proprio volto al suo, studiandolo. L’apostolo trattenne il respiro. Gli occhi neri e lucidi continuarono a fissarlo. Le orribili fauci si spalancarono stringendo in una morsa la testa del malcapitato, dilaniandolo.
Il corpo cadde a terra con un tonfo mentre il sangue imbrattava il pavimento. Il demone si accucciò e con la lunga lingua biforcuta leccò rumorosamente.
Gli altri, in preda al panico, cercarono di fuggire verso il portone d’uscita, invano. L’essere spaventoso alzò il capo, dinoccolandolo: lasciò dietro di sé una carneficina.
Smembrò i loro corpi e si nutrì della loro carne, straziandoli.
Certo, qualcosa non aveva funzionato, qualcosa era andato storto.
Forse, in realtà, tutto era stato compiuto.
Belial aprì il portone della chiesa sconsacrata, finalmente libero dal limbo. Quando i bagliori del nuovo giorno lo scorsero, il suo aspetto orribile mutò per lasciare spazio ad una meravigliosa creatura. Scese lentamente la scalinata, nudo.
Un sorriso beffardo gli si dipinse sul bel volto. La trasformazione era completata. Si disse: «Se devi spargere terrore in mezzo a loro, devi essere come loro.»
Si osservò le grandi mani ora prive di artigli, piegando più volte le dita.
Pareva soddisfatto.
Si avvicinò alla grande fontana con l’acqua stagnante, e vi scorse il proprio riflesso. Lunghi capelli neri, occhi del medesimo colore; gli zigomi alti e le labbra carnose. Sorrise esponendo denti bianchissimi. Si toccò il muscoloso petto, passandosi successivamente la mano sul bel ventre piatto.
Si sfiorò il volto, partendo dalle guance e percorrendo con l’indice il profilo del naso perfetto. Il sole del mattino gli scaldava la pelle lievemente bronzea.
Lentamente il suo corpo si ricoprì come se qualcosa gli si stesse tessendo addosso: calzoni in pelle, stivali della medesima fattura, con la punta allungata e, infine, una maglietta nera tanto attillata da definirne i pettorali granitici.
Cominciò con il camminare lentamente, per lasciare spazio ad un’andatura sempre più veloce, saettando quasi a non toccare il suolo.
In pochi minuti si ritrovò a perlustrare le vie di quella nuova città: Torino...
Gli occhi dei passanti erano puntati su di lui, che si aggirava per le vie del centro con una camminata lenta. Gli uomini, squadrandolo, capirono quanto fosse temibile. Le donne... ah le donne!
Ne erano terribilmente attratte... era come un magnete: nessuno riusciva a staccare gli occhi da quell’ uomo alto quasi due metri.
Una creatura pericolosamente attraente! Nella mente di Belial un solo imperioso comando: cibo, cibo! Aveva una fame diabolica.
Entrò nel ristorante che si affacciava sulla piazza principale ed un cameriere si precipitò verso di lui.
«Ha prenotato, signore?»
Lui si guardò intorno, squadrando l’elegante sala. Tavoli rotondi, tovaglie bianche inamidate e posate brillanti. Fece schioccare la lingua. «No.»
Il cameriere si affrettò a dire: «Guardi... è tutto prenotato, non so se...»
Non terminò la frase, poiché Belial lo superò e si sedette ad un tavolo accanto al grande caminetto. Il povero ragazzo gli corse appresso. «La prego, signore, questo posto è occupato!»
Belial lo afferrò per la gola. «Ora non più.»
Prese il segnaposto e lo porse al cameriere che si allargò lo scollo della camicia, iniziando a sudare. Il resto del personale guardava la scena. Erano straniti; il direttore, un uomo di mezza età completamente calvo, arrivò tutto trafelato nel suo bel completo nero e candida camicia bianca.
«Signore, la prego, devo chiederle di accomodarsi fuori.»
Belial sfoggiò un magnifico sorriso che pareva un ringhio. «Ho fame, voglio mangiare. Ora!»
Prese il tovagliolo, lo scrollò e se lo posò sulle ginocchia. Il direttore, con disappunto, lo supplicò. «Signore, la pre... prego!»
Il demone si frugò nel taschino dei pantaloni e ne estrasse una carta di credito. «American Express, Black Card con credito illimitato.»
Un sorriso ebete si dipinse sul viso del direttore, il quale diede un colpetto sulla schiena del cameriere. «Vai a prendere il menù, svelto!»
Si piegò quasi in un inchino. «Il signore desidera?»
Capitolo I
Torino, Parco del Valentino
Il commissario Biancardi ancora non poteva credere che una ragazza e dodici studenti fossero scomparsi due giorni prima. Si trovava in quell’enorme parco, uno dei tanti polmoni verdi della sua amata città. Le indagini partivano da lì, dove Monica Scabini era stata vista correre per il lungo sentiero che serpeggiava tra quei notevoli platani secolari.
La rocca medioevale si stagliava all’orizzonte, forte dei suoi secoli, come un antico monito. Ormai erano passate le ventitré e trenta e non aveva nessun indizio, nemmeno una traccia.
Come se Monica fosse scomparsa nel nulla.
In quei due giorni, interrogandone i genitori disperati e gli amici, era emerso che la ragazza fosse una studentessa modello ed avesse una vita semplice. Era al terzo anno di università e seguiva i corsi della facoltà di scienze politiche, con ottimi risultati. Nessun fidanzato.
Sportiva, faceva volontariato due giorni a settimana in un canile. Il commissario sospettava fosse stata rapita quel giorno nel parco, dopo un’aggressione a sfondo sessuale. Ma nessuno aveva sentito o visto niente quella mattina, nonostante il parco fosse popolato da sportivi e dai soliti anziani, che lì si ritrovavano per ricercare un po’ di ristoro dalla iniziale calura di quel maggio soleggiato. Il suo cellulare, improvvisamente, squillò, distraendolo dalle sue congetture. «Commissario, sono Peretti! Ho la traccia del cellulare della Scabini.»
Biancardi si accese una sigaretta. «Dove portano le tracce?» L’agente diede le coordinate. Il commissario, perplesso, richiamò i suoi agenti.
«Dobbiamo andare fuori città, nelle campagne circostanti.»
Poi pensò tra sé e sé: una chiesa sconsacrata... dovrò contattare... quello stronzo borioso.
Si sedette sulla volante, al posto del passeggero; prese gli occhiali e li pulì nervosamente con il bordo della camicia. Preferirei puntarmi la pistola nei coglioni piuttosto che chiamare Thorn! Si infilò di nuovo gli occhiali. «Vai, Giudici, portami a quella chiesa e chiama tua moglie: dille che stasera non tornerai.»
Biancardi e la sua squadra arrivarono all’una del mattino nel luogo convenuto. Il buio avvolgeva ogni cosa. La chiesa si stagliava piccola ma allo stesso tempo spettrale sotto la luna nuova.
Entrarono cercando di fare luce con le potenti torce elettriche in loro dotazione.
Illuminarono le pareti affrescate, il pavimento polveroso e l’altare.
Tutto pareva in ordine: nessun segno di colluttazione, nessun segno di infrazione. Richiamò l’agente Peretti alla centrale: «Peretti, manda una squadra della scientifica. Qui abbiamo perlustrato in lungo e in largo ma del cellulare della Scabini non c’è traccia! Sei sicuro che le coordinate fossero esatte?»
L’altro rispose: «Affermativo, capo: abbiamo provato ad agganciare più volte la cellula del telefonino e non c’è dubbio... è in quella chiesa!»
Il commissario uscì dal portone e si sedette sui gradini; prese il cellulare, strinse i denti e compose un numero.
Il suo orgoglio venne trafitto prepotentemente.
Gabriel Thorn sentì il cellulare squillare e schiuse gli occhi, emergendo dal sonno. Lo afferrò dal comodino e rispose: «Thorn.»
Biancardi sbraitò: «Abbiamo un lavoro per te, squilibrato! Porta qui le tue chiappe.»
Gli diede le indicazioni per raggiungerlo. Gabriel ringhiò: «Biancardi, spero tu non mi abbia disturbato per un’altra delle tue stronzate!»
Il commissario, esasperato, lo spronò: «Ti conviene venire. Ora!»
Thorn rispose: «Fanculo!» e riattaccò.
Imprecando, Gabriel Thorn, agente speciale del dipartimento di polizia torinese, gettò indietro le lenzuola mentre la rossa che dormiva con lui si svegliò e cercò di appoggiare il viso al suo petto.
Lui la scansò e lei, con gli occhioni sgranati, cercò di accarezzagli il viso. «Dove stai andando?»
Le rivolse un’occhiata confusa. «Ma chi cazzo sei?»
La giovane donna si coprì il corpo con il lembo del lenzuolo. «Sono Milena! Ci siamo conosciuti ieri al Bellini!»
Lui si alzò, infilandosi i jeans. «Ok, Milena... porta fuori di qui il tuo bel culo. A mai più rivederci.» Shockata, cercò di schiudere le labbra, marcate dal rossetto ormai sbiadito, ma lui raccolse i suoi vestiti e glieli gettò addosso. «Fuori di qui!»
Le diede le spalle e si diresse in bagno. La ragazza, infuriata, lo insultò e si rivestì. Lui si affacciò e le fece il dito medio, poi sbatté la porta. La rossa corse fuori, ancora semi svestita. Gabriel fece scorrere l’acqua fredda e si sciacquò il viso. Prese un asciugamano e si sfregò energicamente. Svegliati, fottuto figlio di puttana.
Gettò l’asciugamano a terra. Quando imparerò a selezionare quelle che mi scopo? Devo smettere di bere, cazzo.
Si osservò allo specchio con i bellissimi occhi indaco, le ciglia folte che sbattevano per la stanchezza. Scrollò la folta chioma nera che gli arrivava oltre le spalle tornite. Si aprì in un sorriso, mostrando la dentatura perfetta. «Fanculo!» Ripeté. Poi si infilò gli anfibi, una camicia nera aperta quel tanto che bastava per mostrare il petto muscoloso ed arraffò il casco poggiato al tavolino del soggiorno. Prese le chiavi della sua Harley, si infilò il giubbotto nero di pelle ormai consunta ed uscì.
Il rombo della potente moto e la luce del faro fecero capire a Biancardi che il bastardo era arrivato e gli andò incontro. Lo odiava per il suo carattere di merda, per la sua bravura conclamata ma, soprattutto, per il suo successo con il gentil sesso. Il figlio di puttana era di una bellezza incredibile: persino lui lo doveva ammettere. Fisico asciutto, un metro e novanta di muscoli guizzanti nascosti da una pelle nivea. Occhi da predatore e lunghi capelli d’inchiostro che incorniciavano il viso da angelo imbronciato. Pensò: ti sei scopato mezza della mia centrale! Tutte le agenti! Thorn lo apostrofò: «Biancardi, hai messo su pancia dall’ultima volta...» mentre la sua attenzione si spostava sulla chiesa. «Dettagli commissario, dammi tutti i fottuti dettagli!» Il commissario fece un breve rapporto, ma Gabriel l’ascoltò a malapena, poiché, nel frattempo, aveva varcato la soglia della chiesa. Fu lì che capì che questa volta Biancardi aveva fatto il suo dovere contattandolo.
Capitolo II
Venerdì sei maggio
Lucrezia chiamò di nuovo la sua segretaria usando il telefono del suo ufficio posto al terzo piano di un elegante palazzo nel centro di Torino. «Paola, ancora nulla?»
«No, architetto. Ancora non risponde.»
Lucrezia batté più volte l’indice con l’unghia scarlatta, perfettamente curata, sul pregiato legno di mogano della scrivania. Sporse le labbra rosee e si mise una folta ciocca bionda dietro l’orecchio.
Ma dove sei, Alexandra...
Quella mattina, il veggente l’aveva contattata telepaticamente. In preda al panico, le aveva comunicato di precipitarsi da lui come era solita fare. Il veggente era un ragazzo di vent’anni che, dopo un incidente automobilistico, avvenuto in circostanze misteriose, era finito in coma vegetativo. Da quel giorno, tutte le volte che qualcosa di malevolo si manifestava, lei e la sorella Alexandra venivano contattate da lui.
Massimo era rimasto intrappolato in un soffocante limbo, tra la vita e la morte: un involucro corporeo che faceva da portale fra il terreno e l’ultraterreno. Lui le aveva comunicato che un potente demone era stato risvegliato tre giorni prima ed era loro compito contrastarlo, altrimenti l’umanità sarebbe stata minacciata. Ecco il motivo per cui Lucrezia stava cercando disperatamente Alexandra: se solo lei avesse risposto alla sua chiamata! Si alzò, guardando oltre la grande finestra. Accarezzò distrattamente il ciondolo di antica manifattura, con un grande topazio verde come i suoi occhi. Lo scricchiolio famigliare di quei maledetti anfibi le fece sollevare lo sguardo. Alexandra era in piedi, appoggiata allo stipite della porta con le braccia conserte. Le sorrideva. Lucrezia si alzò in tutto il suo metro e settanta e girò intorno alla scrivania. Esasperata, esclamò: «Ma dove ti eri cacciata?» Alexandra attraversò la stanza e si sedette sulla poltrona in pelle, appoggiando i piedi sulla preziosa scrivania.
«Ciao sorellina, hai già fatto colazione?»
Lucrezia sbuffò.
«Non è questo il momento... il Veggente ci ha contattato!»
L’altra le rispose distrattamente: «Sì, lo so!»
Lucrezia scrollò i lunghi e setosi capelli color del grano.
«Tu, naturalmente, come al solito non hai risposto!»
Alexandra cambiò posizione ed appoggiando il mento sulle mani le fece un sorriso sornione.
«No, ma illuminami, sorellina!»
Lucrezia, spesso, perdeva le staffe a causa di quella sorella così diversa da lei. Dio, erano agli antipodi sia nel carattere che nell’aspetto: Alexandra era di una bellezza sconvolgente ma non se ne curava... forse l’avvenenza era l’unica cosa che le accomunava. Alexandra aveva due occhi così azzurri da sembrar glaciali, dal taglio impertinente, il viso spigoloso con gli zigomi alti, la bocca carnosa, un naso proporzionato al resto del viso e la pelle d’avorio. Lucrezia era bionda, con il grazioso nasino all’insù, la pelle dorata e due occhi da cerbiatta verdi come i prati delle immense distese estive.
Alexandra indossava sempre jeans o calzoni in pelle nera, magliette di gruppi heavy metal, i quali ascoltava sempre a tutto volume. Quella mattina indossava jeans strappati, anfibi neri fino al ginocchio, una maglietta dei Venom e l’inseparabile chiodo nero. Lucrezia aveva provato più volte a convincerla a valorizzare quel corpo tutto curve, così proporzionato anche se era solo alta un metro e sessanta: eppure lei non ne voleva sapere. Non che la vita sessuale di Alexandra non ne giovasse, anzi... lei cambiava uomini come Lucrezia cambiava abiti, ossia tutti i giorni. Lucrezia... così riflessiva, solare, mal si assortiva con quella sorella decisamente impulsiva, rissosa e smodatamente sboccata. Eppure la amava così tanto! Lei c’era, sempre. L’unica ragione di vita per Alexandra era la sorella, poco le importava di tutti gli altri.
Capitolo III
Torino, sette maggio
Quel pomeriggio Gabriel, mentre beveva l’ennesimo caffè, ripercorse con la mente quello che era successo dopo aver varcato la soglia di quella maledetta chiesa.
«Ancora una volta, maledizione!» imprecò.
Appena aperto il portone, un brivido lo aveva percorso. Non era un buon segno. C’era qualcosa che metteva in allerta il suo sesto senso, quel dannato sesto senso! Spaziando con lo sguardo scandagliò l’ambiente: le figure iconografiche parevano osservare ogni suo movimento, come se volessero comunicare un monito. Eppure lui doveva continuare, nonostante quel grande crocifisso raffigurante un Cristo sofferente, lo osservasse con occhi agonici, come ad implorare di non procedere oltre. Ma doveva procedere: solo lui poteva capire cosa fosse accaduto in quel luogo.
Ad ogni passo quel senso di malessere aumentava, attanagliandogli lo stomaco, mentre le ondate di adrenalina lo aggredivano tanto da lasciargli un forte sapore metallico in bocca.
«Cazzo!»
Esclamò, stringendo i denti mentre il cuore gli martellava nel petto. La parte razionale del suo cervello gli gridava di uscire subito da quella chiesa. Qualcosa sarebbe presto successo ancora, lo sentiva.
Aveva percorso pochi metri nella navata centrale quando i suoi sensi vibrarono con maggiore intensità, inducendolo ad arrestarsi come se una forza invisibile e potente lo tenesse incollato al pavimento. Si abbassò, sfiorandolo con una mano. «Qui, è qui...»
Poi tutto accadde repentinamente e, all’improvviso, gli occhi gli si rivoltarono nelle orbite, mentre il corpo veniva scosso da violenti tremiti. Si accasciò, poggiando entrambi i palmi sul freddo marmo: uno squarcio gli aprì la mente e gli fece rivivere tutto l’orrore che lì era accaduto con vorticosa accelerazione, lasciandolo senza respiro.
Ogni scena di ciò che era avvenuto si svolgeva come se la bobina di un film fosse stata riavvolta a tutta velocità sino al momento nel quale, con un boato, il marmo sottostante si aprì e lui cadde nella voragine. Precipitò a tutta velocità nel buio mentre udiva il continuo trillo di un cellulare che si mischiava a grida di angoscioso terrore. Passarono pochi secondi che gli parvero infiniti; chiuse gli occhi e, quando li riaprì, tutto era finito. Respirò boccheggiando mentre le dita artigliavano il pavimento intonso.
Aveva rivissuto ogni macabro dettaglio, come tutte le maledette volte che aveva avuto quelle visioni durante l’esecuzione delle sue particolari indagini. Madido di sudore, si passò una mano sul volto.
«Ma che cazzo!»
Poi si alzò e fissò le geometrie del marmo sottostante... lentamente apparve una figura che si faceva man mano sempre più distinta.
I contorni composero un volto. Lui indietreggiò.
«Cristo santo!» ma ormai quel simbolo gli si era stampato nella mente, lasciandolo sconvolto.
Doveva investigare e provvedere ad uno dei casi più angoscianti e irto di pericolose incognite che avesse mai dovuto affrontare. Si avvicinò alla finestra e ingurgitò un’altra sorsata di quel caffè ormai freddo, facendo una smorfia di disgusto. Puntò gli occhi verso la facciata di Palazzo Reale, che dominava Piazza Castello, brulicante di persone che nemmeno sapevano quale pericolo potesse abbattersi su di loro. Appoggiò la tazza vuota e si sedette sulla poltrona consunta incrociando le mani dietro alla testa, tendendo i muscoli perfetti dell’addome e del petto. Realizzò che questa volta da solo non sarebbe riuscito a farcela, che aveva bisogno di aiuto e questo peggiorò il suo umore. Alzò la cornetta.
«Paolo, trovami i migliori esperti in iconografia, demonologia e teologia.» Odiava quella pletora di saccenti gobbi damerini privi di midollo che sicuramente lo avrebbero fatto imbestialire con le loro mille scartoffie, congetture e richieste di materiale inutile e costoso. L’agente all’altro capo del telefono fece una breve ricerca sul rifornito database in dotazione alla squadra speciale, poi disse: «Ho la persona che fa a caso nostro.»
Gabriel strinse la cornetta. «Ma... gli altri esperti?»
L’agente rispose: «Michael Birkin: lui è il massimo esperto in tutti questi indirizzi e molto di più.» Gabriel sospirò. «Almeno avrò a che fare con un solo cazzone...» poi ordinò: «Convocalo.»
Capitolo IV
Torino, dieci maggio
Lucrezia rientrò alle otto di sera: aprì la porta del lussuoso appartamento arredato con mobili estremamente costosi e, dopo aver attraversato l’ampio salotto, si accomodò sul divano in pelle. Si tolse i sandali neri accompagnati da un vertiginoso tacco, prese il telecomando posto sul tavolino in prezioso cristallo ed accese il televisore. Il telegiornale, quella sera, in un dettagliato servizio spiegava la totale assenza di nuovi sviluppi nelle indagini sulla sparizione di Monica Scabini e dei dodici studenti. Dopo mezz’ora anche Alexandra rientrò.
Sfilò la sacca da palestra dalla spalla e la lasciò cadere sul prezioso tappeto orientale, accomodandosi accanto alla sorella e appoggiando gli anfibi sulla superficie pregiata.
«Alexandra, per favore, togli i piedi da lì e porta quel ricettacolo maleodorante nella lavanderia!» Alexandra aprì la borsa da ginnastica. «Dici?»
Ne estrasse una maglietta nera e corta assieme ad un paio di pantaloncini e posò i guantoni da box sulla pelle immacolata del divano. Lucrezia sbuffò.
«Alexandra. per favore...»
La sorella le cinse le spalle. «Dopo! Ora raccontami come è andata la giornata, Lu.»
«Perché non apri il canale mentale con il Veggente?» Le domandò Lucrezia.
«Non ne ho voglia, né tantomeno intendo sprecare il mio tempo con il suo vagheggiare.» Lucrezia tentava di tenere a bada la crescente irritabilità. Era stanca! Stanca di quella sorella che non faceva altro che indisporla con il suo comportamento infantile. Stanca di lavorare come una stacanovista mentre lei arrivava in ufficio solo a cose fatte perché, essendo socie in affari, doveva apporre la sua firma sui contratti di compravendita delle case di pregio che Lucrezia sapientemente e faticosamente otteneva. Era sfibrata anche perché doveva agire sempre per prima quando il veggente chiamava. Alexandra interveniva solo quando la sorella era in pericolo. Lucrezia si alzò guardandola dall’alto in basso, poi mormorò:
«Stavolta è diverso, Alexandra. Il Veggente sente che questa è una delle peggiori catastrofi, abbiamo a che fare con un nemico spietato.»
Alexandra si diresse nella spaziosa cucina, aprì il frigorifero e stappò una birra, bevendone un sorso.
«Lu, ce la farai! Vedrai che se avrai bisogno d’aiuto, io arriverò... come sempre.»
La sorella, esasperata, si appoggiò all’ampio pianale.
«No! Questa volta tu seguirai tutta la faccenda dall’inizio.»
Alexandra prese una mela dal cesto sul tavolo e l’addentò.
«Non credo proprio. Ah, non aspettarmi sveglia perché stasera esco!»
Fece per andarsene, ma ormai Lucrezia aveva perso ogni freno e gridò: «Basta! Dove vai? Eh? Ad ubriacarti fino a stordirti per poi ritrovarti nel letto di chissà chi?»
«Lu, stai calma!»
«No! Io non sto calma, sono stanca! Stanca di come ti comporti, stanca del tuo cinico menefreghismo! Sono stanca di te! Alexandra, cresci!»
Alexandra gettò la bottiglia nel lavandino, facendola frantumare in mille pezzi.
«Vaffanculo, Lu.»
Si diresse in camera sua. Lucrezia, sconvolta, la lasciò andare. Più volte avevano avuto queste discussioni, ma era tutto inutile: lei non sarebbe mai cambiata.
Alexandra si spogliò ed entrò nella doccia. Aprì il getto dell’acqua gelida ed appoggiò la fronte sulle piastrelle azzurrine.
Cazzo, quando mi lascerà in pace... picchiò un pugno contro la parete.
Lei sa che io ci sarò sempre, sa che è l’unica persona a cui voglio bene anche più di me stessa!
Le lacrime cominciarono a rigarle il volto. In fondo, cosa c’è da amare in me...?
Si vestì, indossando i soliti pantaloni scuri tanto attillati da definire le forme delle cosce e del sedere morbido e sodo.
Indossò una maglietta che aderiva come una seconda pelle, valorizzando l’abbondante seno. Calzò gli anfibi, recuperò il chiodo nero dall’armadio e raggiunse il salotto. Lucrezia era dove l’aveva lasciata, accasciata sul divano. Fissava il televisore, senza però prestare attenzione alle immagini proiettate, gli occhi velati dalle lacrime. Alexandra, con ancora i capelli umidi, prese il casco, le fece un cenno di saluto con il mento e uscì, lasciandola sola.
Belial era riuscito presto ad ambientarsi in quella città: aveva acquistato l’attico all’ultimo piano di un antico palazzo dal quale si godeva la vista della Mole Antonelliana. Quella notte aveva parcheggiato la sua lussuosa e sportiva Audi fuori città. Si aggirava per i vicoli della periferia in preda ad una febbrile ricerca: non ci aveva messo molto a capire che la sua fame atavica non veniva placata dal cibo che ingurgitava continuamente. Inoltre, doveva concentrare tutte le sue forze per mantenere la sua forma umana. Lo sforzo era gravoso e doloroso, tanto da portarlo allo spasmo.
Aveva ben presto compreso ciò di cui necessitava per poter mantenere le sue sembianze. Ne sentiva l’odore, il quale gli stuzzicava le narici e, in quel momento, era in quel vicolo buio e si dirigeva verso di lui. Si sforzò di andare incontro alla sua cena con passo sicuro, ma ormai la trasformazione era vicina e doveva fare in fretta per placare i suoi istinti. La scorse mentre camminava con passo veloce, ogni tanto si guardava alle spalle per poi girare lo sguardo da destra a sinistra come se avesse saputo di essere in pericolo. Lui avanzava lentamente, le spalle larghe che accompagnavano i movimenti delle gambe possenti. Dinoccolò il collo e la vide. Una ragazza bruna, piccola e ben fatta, dagli occhi felini, giovane e bellissima. Il viso angelico, con labbra morbide e il naso impertinente. Il corpo del demone reagì immediatamente, la grossa erezione a fatica contenuta nei jeans neri. Lei lo vide e si arrestò, turbata, poiché all’inizio il timore di trovarsi da sola con un uomo in un vicolo semibuio e deserto, presto aveva lasciato il posto ad una strana eccitazione. Quell’uomo era... magnifico! La fissava con quegli occhi neri, così magnetici, sorridendole. Lei, come ipnotizzata, passo dopo passo lo raggiunse, tremando per la crescente eccitazione.
Senza dire nulla, Belial allungò il braccio e l’attirò a sé per poi scostarle i lunghi capelli dal collo. La giovane fu inebriata, tanto che si sentiva pronta per essere presa. Lui incominciò a baciarle una spalla, tracciando bollenti linee con la lingua. Ad ogni tocco, la sua eccitazione aumentava esponenzialmente, in particolar modo grazie al continuo sfregamento tra i loro bacini.
Belial aveva urgente bisogno di soddisfare le sue ataviche esigenze mentre lei, ormai, come impazzita dall’estasi gli disse: «Che aspetti? Prendimi, subito!»
Belial le tolse la camicetta di seta, strattonandola: i bottoni schizzarono contro i muri lì accanto e, subito dopo, fece lo stesso con la corta gonna.
Le strinse un seno tra le mani e lei sospirò. Volendo sentire quelle mani contro la propria pelle, si sfilò il reggiseno lasciandolo scivolare a terra. Il demone le prese un capezzolo in bocca e cominciò a stuzzicarlo. Lei, ormai in preda all’estasi, mugolava di piacere mentre lui lasciava scivolare una mano verso gli slip per accarezzarle i bollenti lombi eccessivamente sollecitati.
Lui le strappò l’indumento intimo, per poi spingerla contro il muro e, abbassandosi i calzoni quel tanto che bastava per farne uscire l’imperiosa erezione, le fece appoggiare una gamba sul fianco e si spinse in lei con completezza.
Il demone, inchiodandola alla parete, incominciò a pompare quell’enorme verga dentro di lei ad un ritmo serrato, mentre con una mano le stringeva forte un seno. Gli affondi erano sempre più veloci e profondi, quindi lei gli intimò: «Piano, così mi fai male!»
Ma la creatura non l’ascoltava, tanto che cercò di allontanarlo spingendo con le mani sul torace granitico, questa volta gridando: «Basta! Lasciami andare!» Ma lui non voleva saperne. Strinse una mano attorno al suo esile collo. «Stai ferma!»
Il dolore divenne insopportabile: il demone la stava lacerando dall’interno, il sangue che le scendeva in copiosi rivoli cremisi dalle cosce.
Fu in quel momento che la bestia ebbe il sopravvento. Belial lasciò che la sua vera natura sfogasse tutto il suo imperioso bisogno. Le zanne crebbero a dismisura e le addentarono il collo suggendone il sangue ad ogni poderoso morso. Gli artigli laceravano le carni sino a scoprirne le bianche ossa: il dolore la faceva impazzire, tanto che ormai non poteva nemmeno emettere alcun suono. Stava soffocando nel suo stesso sangue!
La bestia aveva bisogno di continuare il suo pasto, ma lei cercava ancora di difendersi. In preda ad un allucinante furia le strappò le braccia e, spalancando le enormi fauci, le maciullò, per poi inghiottirle una dopo l’altra. Durante quell’atroce carneficina non aveva smesso di stuprarla e, in preda ad una frenesia animalesca, le strinse forte i seni per poi strapparli e masticarli rumorosamente. La vittima perse i sensi mentre la vita lentamente abbandonava ciò che rimaneva del suo corpo. Belial le estirpò le gambe, aprendole infine uno squarcio nell’addome nel quale infilò il capo, strattonando e riducendo in brandelli abbondanti porzioni di carne ed interiora. Pareva una belva che consumava il suo pasto. Come ultimo sfregio le infilò la lunga lingua biforcuta nella bocca spalancata senza vita per un unico ed ultimo bacio raccapricciante e, con un grugnito, gettò a terra quello che ne era rimasto del corpo che cadde con un tonfo. Belial era appagato. Una bruciante forza lo invase scuotendone il corpo e così, riassunse la sua stupenda forma umana. Alzando gli occhi al cielo emise un acuto grido di soddisfazione. Si guardò le mani lordate e, ridendo sguaiatamente disse: «Ora so! Ora darò inizio all’apocalisse!»
Infine, scomparve.
Capitolo V
Torino, dodici maggio
Michael Birkin ancora non poteva credere che, dopo solo due giorni, fosse riuscito ad arrivare in Italia. Il fuso orario, provenendo dalla California del sud, lo aveva lasciato scombussolato. Adesso era in quell’ufficio disordinato, di fronte ad un uomo che non aveva stretto la sua mano quando si era presentato. Il rettore dell’università dove era docente, aveva insistito parecchio perché lui saltasse sul primo volo. «Collaborazione di ricerca, di prestigiosa e altrettanta primaria importanza!»
gli aveva detto. Lui, incuriosito, aveva accettato. Ma ora che si trovava di fronte a quell’uomo che era restio a spiegare tutti i dettagli su cui doveva basare le sue ricerche, non riusciva a capacitarsi e incominciava anche ad irritarsi.
«Quindi, professor Thorn, mi dica... lei in che cosa è specializzato?»
Gabriel incrociò le mani dietro la testa.
«Ascolta, americano, bando ai convenevoli! A me servono le tue specializzazioni.»
Michael lo apostrofò. «Ne sono sicuro, credimi, italiano!»
Gabriel non si aspettava di certo che il professorone che gli avevano affibbiato fosse dotato di un certo carattere e di sicuro non se l’era immaginato con quell’aspetto. Più lo osservava e più non associava il fatto che fosse un cervellone! L’americano forse sarebbe potuto comparire su qualche rotocalco di fotomodelli, piuttosto che dietro ad una polverosa scrivania, con quei capelli biondi che gli arrivavano oltre le spalle, il fisico asciutto e ben scolpito, la carnagione dorata, di chi faceva sport all’aria aperta, il viso totalmente perfetto, con gli occhi color nocciola ed una bocca carnosa e sensuale. Quando l’aveva visto entrare nel suo ufficio, vestito con jeans chiari che gli fasciavano le gambe lunghe e snelle e quel giubbotto in pelle sopra ad una camicia in jeans, aveva pensato: «Ma chi cazzo è questo?!»
«Thorn, spiegami da dove iniziare le mie ricerche. Se ho ben capito, si tratta di iconografia religiosa.»
Gabriel trasse un respiro. «In realtà, a suo tempo ti fornirò tutti i dettagli, per ora ti dico solo che sei entrato a far parte di una squadra speciale...» e guardandolo dritto negli occhi specificò: «la mia squadra speciale!»
«Ah, capisco, ma vorrei sapere su cosa indaga la nostra squadra speciale!»
Thorn gli rispose: «Una ragazza e dodici studenti sono scomparsi. Ecco su cosa indaga!»
«Bene. Cosa posso fare, Thorn? In realtà pensavo che dovessi collaborare con un professore almeno al mio pari, per qualche ritrovamento arcaico, non capisco cosa potrei fare per voi.»
Gabriel si stiracchiò.
«Ascolta, bellezza, a tempo debito avrai il tuo bel da fare! Ora dimmi come te la cavi con l’iconografia.»
Michael sorrise, scoprendo una dentatura perfetta.
«No, ascoltami tu, bellezza! O mi dici su cosa devo indagare senza tralasciare nessun dettaglio, o me ne vado e lascio che sia la tua spocchiosa quanto lacunosa conoscenza a lavorare per la tua squadra!»
Thorn sorrise a sua volta. «Potrei dirti di toglierti dai coglioni, ma preferisco farti sapere che qui abbiamo a che fare con il soprannaturale!»
«Non sono un chiaroveggente, Thorn, ma un professore universitario.»
«Ok, professore, mi hai stancato. Ti ho detto che a tempo debito saprai tutto, ora dimmi cosa sai sull’iconografia post-cristiana!»
Birkin era già in piedi, torreggiando sul suo metro e novanta di vertiginosa altezza.
«Credo che il mio lavoro qui non sia nemmeno iniziato, ma già terminato. Ho bisogno di sapere tutto e subito, per poter agire, altrimenti... adios, amigo!»
Gabriel poggiò gli anfibi sulla scrivania: «Professore, siediti.»
Birkin si sporse in avanti e,