Dark Dreams
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Info su questo ebook
Ben Horton dovrà fare i conti anche con il suo passato mentre alcuni eventi della sua infanzia che, lentamente, stanno venendo a galla, stanno risvegliando in lui poteriche il tempo aveva assopito. Ma, soprattutto, si accorgerà che questi due misteriosi individui sono inspiegabilmente legati a lui e a Samantha, la sorella da cui Ben si era separato causa dissapori e litigi.
Il corpo dell’uomo aveva le gambe completamente immerse nell’acqua. Era sdraiato sulla schiena, la testa declinata sulla destra e le braccia aperte, come in una specie di macabra immagine dell’uomo vitruviano.
«Dio santo!»
Sul volto del cadavere, al posto degli occhi, due inquietanti orbite vuote.
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Anteprima del libro
Dark Dreams - Paolo Passerini
PROLOGO
«Vuoi stare un po’ fermo?»
Il bambino sembrava non aver ascoltato per niente la madre che lo pregava di calmarsi mentre lui, del tutto incurante, continuava a correrle intorno come una trottola impazzita. La donna reggeva a fatica il pesante borsone della Panda Clothing e, con l’unica mano libera, cercava di frenare il figlioletto, animato da un’energia che pareva non esaurirsi mai. Con uno scatto improvviso, la madre riuscì quindi ad agganciare il polso del piccolo, che finalmente si bloccò.
Kevin Gray, che aveva assistito a tutta la scena dall’altro lato della strada, sorrise al pensiero che il bambino sembrasse uno di quei giocattoli a batteria a cui avessero pigiato il tasto di spegnimento. Quella era una zona particolarmente trafficata e ricca di uffici per il noleggio, o punti vendita, di attrezzature per la pesca sportiva. Da quel lato della Scott St. si poteva accedere alla strada pedonale che costeggiava il porto turistico. Era quasi mezzogiorno e i marciapiedi cominciavano ad affollarsi, soprattutto di turisti decisi a visitare Shelter Island e la penisola del Coronado, che si affacciavano sulla baia di San Diego; la temperatura era stranamente mite e, per Kevin, quello si sarebbe preannunciato un pomeriggio di relax a zonzo. Attraversò la strada in prossimità dell’incrocio con la Garrison e, a passo svelto, entrò nell’area pedonale del porto dove un via vai incessante di visitatori, addetti portuali e proprietari delle barche e dei battelli per la pesca animavano quella giornata di fine settembre.
Appena arrivato sul molo, Kevin si fermò a scrutare le numerose imbarcazioni ormeggiate; inalò qualche boccata d’aria al profumo di salsedine, che gli saturò i polmoni donandogli quel piacere sottile che lo rendeva avulso da tutti i pensieri e i problemi quotidiani della vita. Ma il motivo principale di quelle sue passeggiate, in ogni possibile ritaglio di tempo, era poter osservare il comportamento delle persone. Anzi, volendo essere più precisi, poter osservare le persone perché ogni individuo ha una storia da raccontare.
Sorrise ricordando il momento in cui questa frase gli si fissò nella mente in modo indelebile: frequentava ancora il college, e il professor Sweatte pronunciò queste esatte parole, anche se inizialmente Kevin non ne comprese appieno il significato. Mentre adesso, finiti gli studi e con un lavoro da giornalista freelance, sapeva che quella massima udita anni prima era una verità assoluta.
Ogni individuo ha una storia da raccontare, era solito dire, sperando che con quelle affermazioni qualcuno dei suoi studenti avesse potuto intraprendere la strada della scrittura. Non importa se sceglierete di diventare giornalisti o scrittori o poeti, aggiungeva sempre, ma dovete imparare a osservare le persone perché ognuno ha una sua storia da raccontare; e voi dovete essere bravi a saper leggere fra le pieghe della realtà che vi circonda, se volete davvero riuscire a trovare una storia che valga la pena di essere raccontata.
Da allora, ma adesso in modo più continuo, Kevin faceva di tutto per ritagliarsi un po’ di tempo all’interno delle sue settimane lavorative, dedicandosi a osservare, analizzare e studiare i comportamenti umani. Spesso se ne stava seduto sul molo ad ascoltare i dialoghi dei passanti nella speranza di catturare qualcosa di interessante, mentre altre volte interveniva direttamente nelle conversazioni, dapprima scambiando qualche semplice convenevole, poi addentrandosi sempre più nella storia che avevano da raccontare. Era molto bravo in questo: riusciva a mettere a proprio agio le persone che aveva di fronte, o più semplicemente era la sua indole di giornalista che si faceva strada portando avanti tutta la conversazione.
O, forse, era solo la sua sete di storie sempre nuove.
Il professor Sweatte ripeteva di continuo che esistono due modi di scrivere. Kevin non aveva capito immediatamente a cosa si riferisse, intuendolo solo anni dopo. Il prof. infatti non accennava a qualche tecnica specifica su come si deve scrivere, bensì sul perché si decide di scrivere. Infatti, i due modi a cui alludeva Sweatte rappresentavano la molla che ti spingeva a intraprendere la strada dello scrittore o del giornalista o poeta, come ripeteva di consueto. Se l’impulso di scrivere ti arrivava solo ed esclusivamente dalla sete di guadagni facili o dal raggiungimento della fama o di qualche premio importante, la tua strada era destinata a interrompersi perché, era solito aggiungere, non avete capito la vera essenza e il principio che sta alla base dello scrivere: voi lo dovete fare per il semplice piacere di farlo e per comunicare qualcosa… ma, prima di tutto, lo si fa per se stessi. Si comincia dal foglio vuoto che, parola dopo parola, si riempie. E quelle che prima erano solo idee, adesso stanno prendendo forma…
Senza rendersene conto, concentrato nei suoi pensieri, si era inoltrato sul molo fino a raggiungere l’estremità dove era ormeggiato il battello Old Glory, della H&M Landing, per la pesca d’altura. Una barca stava uscendo dal porticciolo, e le onde prodotte dal suo passaggio andarono a sbattere sullo scafo dei battelli ormeggiati, facendoli dondolare e producendo il tipico rumore dello sciabordio, come tanti piccoli schiaffetti. Dopo aver lasciato sfogare i flutti e ascoltando il rumore che via via andava scemando, Kevin decise di ritornare indietro per pranzare al Mitch’s Seafood, che si trovava proprio all’inizio del molo. Il ristorante, sebbene frequentato da turisti, era un posticino tranquillo e quasi mai affollato. Più volte era stata la meta ideale di Kevin che, soprattutto dalla balconata esterna, poteva godere del panorama regalato da quello scorcio di baia. Sul davanti dell’edificio bianco capeggiava lo stemma del ristorante: un cerchio blu con la scritta Mitch’s Seafood e, all’interno, la rappresentazione grafica di un peschereccio. Entrando ci si ritrovava subito nell’ampia sala occupata dai tavolini, mentre sul fondo si intravedeva il bancone. Le pareti erano tutte tappezzate di quadri, eccetto quella a fianco del banco, dove era fissata una grande lavagna che riportava i menù a prezzi fissi o le specialità del giorno.
Dopo aver ordinato una porzione di tacos con pesce grigliato e gamberi, accompagnando il tutto con l’immancabile birra Stone Ruination Double, Kevin uscì sulla veranda e si accomodò al tavolo quarantuno; alla sua sinistra una coppia di turisti parlottava in allegria, mentre sulla destra tre uomini, forse addetti portuali o pescatori, chiacchieravano animatamente dell’ultima partita di baseball disputata dai Padres, la squadra di San Diego, mimando i colpi di mazza e ridendo rumorosamente. Lo schiamazzo dei tre si contrapponeva al dialogo sommesso della coppia.
Kevin si mise a esaminare questi ultimi in modo discreto, ruotando la testa nella loro direzione e cercando di carpire quelle informazioni che si potevano intuire da una prima osservazione. L’uomo, sulla quarantina, aveva uno sguardo che gli diede immediatamente l’impressione di una persona decisa ma sincera; i capelli leggermente mossi erano di un castano scuro che, a seconda di come muoveva la testa, sembravano assumere una tonalità più chiara, forse per effetto di qualche strano riflesso di luce. La donna, invece, pareva nascondere un’espressione più enigmatica; il sorriso aperto e i lunghi capelli dorati che le ricadevano sulle spalle la rendevano decisamente affascinante. Kevin non riusciva, almeno a prima vista, a intuirne l’età, anche se ipotizzava fosse coetanea del compagno.
Sicuramente, pensò Kevin, non sono soltanto amici. Sorrise a quel pensiero mentre osservava la coppia che, sebbene non avesse un comportamento troppo esplicito, mostrava un atteggiamento inequivocabilmente tenero. Rimase in ascolto della conversazione, ma senza farsi notare. Avevano qualcosa – forse più lei, con il suo fascino misterioso – che lo incuriosivano; chissà che non ci scappi una storia interessante, qualche spunto per scrivere qualcosa di buono, meditò il giornalista. Poi l’uomo disse qualcosa a proposito del bel tempo a San Diego, delle giornate calde ma ventilate.
«Oggi è proprio una bella giornata» intervenne Kevin, rivolgendosi alla coppia con un tono di voce basso, come a voler entrare nella discussione in punta di piedi. «Il bel tempo dovrebbe continuare per tutto il weekend e anche per la settimana prossima».
«Speriamo. Speriamo davvero» rispose l’uomo. Dall’accento non erano della zona e, quindi, dovevano per forza essere turisti oppure in viaggio di lavoro; optò per la prima ipotesi, anche perché era stata la sua prima impressione quando li aveva visti entrando nel Mitch’s Seafood.
«È quello che hanno annunciato le previsioni del tempo» replicò prontamente Kevin. Non aveva nessuna intenzione di lasciar cadere la conversazione. «Così potrete passare un bel fine settimana a San Diego e godervi le spiagge e il mare».
«In verità, stasera ripartiamo».
«Quindi avete già finito le vacanze?»
«Purtroppo sì» ribadì l’uomo. La donna sorrise e gli accarezzò delicatamente la mano.
Non sono solo amici, rimuginò. «Avete avuto modo di visitare la città e la costa? Ci sono parecchie cose interessanti da vedere, soprattutto se si hanno a disposizione qualche giorno e la voglia di viaggiare nei dintorni».
«A dirla tutta, ci siamo fermati solo tre giorni».
«Capisco…»
«Diciamo che la nostra è stata più una toccata e fuga. Mettiamola così, un po’ di meritato relax» proseguì l’uomo, strizzando l’occhio con fare complice.
La sua voce era profonda, calma e rilassata e – notò Kevin – si aveva l’impressione di trovarsi di fronte a una persona sicura di sé, ma non arrogante o, peggio, presuntuosa o altezzosa.
«Ne sono certo. Anch’io, quando posso, mi prendo mezza giornata per staccare da tutto. Sempre di corsa, senza mai una sosta, soprattutto nel lavoro».
«Infatti».
«Quindi capisco benissimo cosa vuol dire relax».
«Infatti» ripeté l’uomo. «Ogni tanto bisogna sapersi fermare».
«Lo so» affermò Kevin, dandosi un colpetto con il pugno chiuso sulla testa, come per autoinfliggersi una punizione. «Lo so, è quello che mi dico sempre. Ma poi finisce che devo concludere un lavoro, rispettare una scadenza e il risultato è sempre lo stesso: non ho mai tempo di prendermi una vacanza» ancora un altro colpetto sulla fronte, seguito da una risatina. Tutti e tre risero divertiti.
«Che lavoro fai?» domandò la donna, incuriosita.
«Giornalista, sono un freelance. Quando prendo in carico un lavoro, poi devo rispettare le scadenze. Ultimamente, mi capita anche di lavorare su più progetti contemporaneamente» disse, allargando le braccia sconsolato. «Ma cosa ci dobbiamo fare? Questo è il ritmo della vita di oggigiorno».
«Esattamente» confermò l’uomo, seguito da un cenno di assenso della compagna.
Kevin si fece pensieroso per un istante, domandandosi: e se questi due avessero una storia interessante da raccontare? Ne ebbe conferma incrociando lo sguardo di lui; era più una sensazione, ma ne era quasi sicuro. Ok, mi gioco il jolly e vediamo. «In realtà, quando ho un po’ di tempo vengo spesso qui e, parlando con le persone… chissà che non riesca a trovare qualche spunto interessante per costruire una buona storia da raccontare». Rimase in silenzio per studiare le reazioni dei due. Il sasso è stato gettato, e adesso vediamo se si muove qualcosa.
«Quindi cerchi un episodio da riportare su carta?»
«Sì, qualche vicenda personale da prendere come ispirazione per scrivere un racconto».
La coppia si fissò per un istante; era come se si fossero scambiati dei segnali telepatici. Poi, lui proseguì: «Io avrei dei fatti da narrare».
«Davvero?»
Il cellulare sul tavolo prese a squillare, facendo sussultare Kevin, che si aspettava l’inizio della storia. L’uomo rispose alla chiamata.
«Sì» disse voltandosi un poco, quasi a non voler farsi sentire. «Certo amore… sì… grazie e tu come stai?» qualche attimo di silenzio, interrotto solo da un mmh biascicato, poi ancora: «Sì certo amore… e il piccolo Jr come sta? Oh, bene… gli sta passando il dolore? Certamente, stanno spuntando i primi dentini... Certo, certo» continuò, prima di riattaccare: «Stasera torno… sì, ti chiamo dopo, quando sono in aeroporto. A dopo, un bacio tesoro».
Kevin si stupì della telefonata, e parecchio. Ma non per il fatto che l’uomo potesse essere lì con l’amante, questo no. Per il semplice motivo, invece, che… aveva forse sbagliato giudizio su di lui?
«Scusatemi, ritorniamo a noi. Vuoi che ti racconti una strana vicenda?»
«Certamente».
Kevin osservò la donna che, alzandosi, sorrise mentre si sistemava i capelli dietro la nuca. Si abbassò quel tanto per dare un bacio sulla guancia al compagno. «Intanto che voi due parlate» disse indicandoli mentre si allontanava, «io vado a fare una passeggiata sul molo». L’occhio attento del giornalista la guardò passare sotto la balconata per tutto il tempo finché lei, alzando la mano destra, li salutò sparendo dalla loro vista.
Un fuggevole pensiero attraversò la mente di Kevin – strano, non ci siamo nemmeno presentati… – poi l’uomo fece una domanda, interrompendo quell’attimo di silenzio calato fra i due.
«Prima di cominciare, sai dove si trova Beaver?»
«Intendi la stazione sciistica? Beaver Creek in Colorado?»
«No, no. Beaver in Nord Dakota» replicò l’uomo, attendendo la conferma del giornalista, che invece non arrivò. «Si trova fra Rock River e Greenville…» attese nuovamente. Kevin scrollò la testa. «Fa lo stesso, non importa. È una piccola cittadina ed è qui che hanno inizio le vicende che ti voglio riferire».
«Molto bene, sono tutto orecchi» lo incitò a proseguire.
«Fammi fare una piccola premessa prima di entrare nel vivo della storia. I fatti cominciarono nell’aprile di due anni fa, quando alcuni eventi scossero un po’ la quiete della città. Prima di tutto, il clima di quella strana primavera. L’inverno freddo aveva lasciato il posto a un mese di marzo troppo caldo, che si era protratto anche nel mese successivo e, come se non bastasse, la situazione fu persino aggravata dalla pioggia. Non la pioggerella primaverile ma veri e propri acquazzoni, qualcosa che in quella zona non si era mai vista. Infatti era piovuto veramente tanto, ininterrottamente per due settimane, se non ricordo male, tant’è che anche il Bullettin ne aveva scritto per i giorni a seguire. Il fiume Turner, che passa proprio vicino al limite nord della città, naturalmente si era ingrossato. Niente di cui preoccuparsi, se non che un vecchio canale di scolo, ormai inutilizzato, aveva ceduto sotto la pressione delle acque del fiume inondando i terreni a ridosso di quella parte dell’argine, lambendo le abitazioni più a nord. A complicare ulteriormente le cose, la rottura di alcune tubazioni della rete fognaria che, unendosi alle acque del Turner, aveva provocato un allagamento dell’intera zona. Naturalmente a Beaver, in quei giorni, non si parlava d’altro. C’è chi ha scomodato perfino il Buon Dio domandandosi il perché di tanto accanimento e chi, invece, era convinto fossero i primi segnali mandati dal Maligno seguiti, poi, dai Cavalieri dell’Apocalisse che sarebbero arrivati in sella ai loro cavalli alati. Altri dicevano che era, semplicemente, il destino. Tu credi nel destino?» domandò l’uomo.
«Non proprio. Credo piuttosto che il destino esista nella misura in cui noi ce lo creiamo».
«Benissimo» sentenziò il narratore. «Nemmeno io credo nel destino. Devi però capire che a Beaver, da sempre una comunità tranquilla, non erano mai accaduti eventi fuori dall’ordinario controllo. Soprattutto mi riferisco alle persone, agli abitanti. Tutti erano parte integrante della città e, prendi pure la mia affermazione con le dovute cautele, ma oserei dire che era un luogo perfetto in cui vivere. Pensa, era una città talmente tranquilla che lo sceriffo non si era mai dovuto occupare d’altro se non di qualche lite famigliare o delle solite risse del sabato sera nell’unico locale di periferia. Figuriamoci di un omicidio».
«Omicidio?» ripeté Kevin, incuriosito.
«Conosci quel detto popolare? O bere o affogare? Niente fu più appropriato e calzante nel momento in cui tutto ebbe inizio con l’omicidio dell’uomo con la felpa blu».
1
Un grosso cartello CONGRATULAZIONI a caratteri cubitali spiccava appeso allo scaffale del magazzino. Alan Caper, un ragazzone di trent’anni, sorrideva mentre i colleghi intorno a lui lo festeggiavano. L’allegria di Alan era così contagiosa che tutti i presenti ridevano e scherzavano: tre bottiglie vuote di spumante, e non si sa quante di birra, erano ciò che rimaneva della festa appena conclusa. Il premio come miglior impiegato di magazzino della BEST BUY dell’intera contea era stato assegnato proprio a lui. Di tutte le filiali, quella di Greenville era risultata la migliore. Alan andava fiero di quel premio ricevuto il giorno prima, che gli era stato consegnato con tanto di cerimonia alla sede centrale di Rock River. Certo, la targa ricordo era un bel trofeo da esibire, ma il premio in denaro… Oh, quello sì era un bel riconoscimento!
Quei seimila dollari, abbinati alle due settimane di ferie retribuite, erano proprio quello che ci voleva.
«E bravo il nostro Alan» sbraitò Pete. «Un bel… IP… IP… URRÀ… forza, tutti insieme!»
Pete rideva a crepapelle mentre gli ultimi colleghi rimasti inneggiavano a suon di grida e schiamazzi; la festa in suo onore era ormai conclusa e molti se ne erano già andati.
«Sono veramente contento per te» disse Pete. Il viso segnato dalle rughe e lo sguardo, lasciavano trasparire la sua sincerità. «Davvero Alan, te lo meriti».
«Grazie Pete, grazie».
«E adesso cosa ci farai con quei soldi?»
«Non ci ho ancora pensato. E poi non sono milioni di dollari» asserì Alan, sorridendo. «Certo mi fanno comodo, ma non mi cambiano la vita».
«Lo so» replicò prontamente l’amico.
«Però sono contento delle ferie. Ho già pronti i bagagli. Vado a Las Vegas».
«Ma non mi dire? A Las Vegas? È un cliché, non sai dove andare e vai a chiuderti in qualche casinò».
«Non è come credi».
«Vai a sputtanarti i soldi ai tavoli verdi?»
«Ma no, cos’hai capito! Certo che no. Magari una puntatina me la faccio, giusto per giocare qualche dollaro, ma questo è il viaggio che volevo fare da tempo e che ho sempre rimandato. Adesso che mi è capitata l’occasione, voglio godermi questa vacanza. E poi, chissà che non riesca a farmi sistemare questa» disse il ragazzo, toccandosi la profonda cicatrice sulla guancia destra.
«Saprei io come impegnare i soldi e il tempo» annunciò Pete puntando gli occhi sul fondoschiena e il davanzale a dir poco prorompente di Lisa, che stava uscendo per andarsene a casa. «Con due tette come quelle saprei come impiegare le settimane di ferie!» Risero insieme, di gusto, mentre Lisa si allontanava dalla loro vista sculettando.
Gli ultimi a lasciare il magazzino – adibito per l’occasione ai festeggiamenti – furono Alan e Pete, che si salutarono nel piazzale prima di salire ognuno sulla propria auto.
«Quando parti?» domandò Pete, mentre il beep del radiocomando segnalava l’apertura delle serrature.
«Adesso. Con calma, mi metto in strada».
«Parti subito? Hai intenzione di guidare tutta notte».
«No, no. Mi fermo quando sarò stanco. Preferisco così piuttosto che fare tutto il viaggio domani».
Pete allungò la mano e diede una stretta vigorosa al collega: «Divertiti». L’augurio era sincero e, altrettanto sinceramente, Alan ricambiò con un sorriso. La cicatrice, ora, sembrava più profonda.
Uscito dalla zona industriale, svoltò per imboccare la statale 29 in direzione sud, verso Beaver. La mente di Alan era già al giorno dopo, quando sarebbe arrivato a Las Vegas mentre la sua berlina, una Nissan nuova fiammeggiante, macinava chilometri e i fari illuminavano la strada proiettando lunghi coni sull’asfalto nella notte appena scesa. Oltrepassò un cartello con la scritta BEAVER 30 MILES. La strada, in quel punto, saliva fino a scollinare per poi ridiscendere: lo scenario cambiò drasticamente, sostituendo i verdi pascoli e i campi adibiti a coltivazioni in sconfinati boschi che si perdevano a vista d’occhio. La statale 29 si snodava all’interno delle boscaglie, seguendo il naturale percorso della vallata. Ai lati della strada, si alternavano in modo regolare delle piazzole per la sosta, rompendo la monotonia del paesaggio. La luna, quasi piena, faceva capolino sopra le fronde degli alberi illuminando appena la notte, mentre le ombre dei fusti si gettavano sulla strada e come spettri diafani si muovevano sotto i colpi della brezza notturna. La Nissan Altima procedeva a passo spedito e, al momento, era l’unica a percorrere quel tratto. Alan sorrise al pensiero di essere il padrone della strada, una sorta di novello Mad Max alla ricerca del cammino per raggiungere la sua meta. Si sentiva su di giri. E non per effetto dell’alcol. Si sentiva come... un guerriero della notte!
«Cazzo sì! Sono un cazzo di padrone della strada!» gridò a gran voce Alan, euforico. Il ghigno che gli si disegnò ai lati della bocca rendeva la cicatrice ancora più ampia: carico ed esaltato come non gli succedeva da tempo, era pronto a godersi a pieno quel viaggio. Sempre con gli occhi fissi avanti a sé, scorse in lontananza i fari di un’altra auto che si stava avvicinando. Si incrociarono e Alan seguì con lo sguardo, nello specchietto retrovisore, i fanali di coda allontanarsi nella notte. Un cartello con la scritta BEAVER 15 MILES gli sfilò sulla destra. Armeggiò con i comandi della radio, cercando compagnia in una stazione che trasmettesse a quell’ora della buona musica.
La melodia di Stairway to Heaven dei Led Zeppelin, e le note della chitarra che si susseguivano armoniose, proiettarono la mente di Alan lontano migliaia di anni luce. La Nissan stava macinando l’asfalto della statale 29 che, a quell’ora, continuava a essere insolitamente deserta. Almeno, quella fu l’impressione di Alan, ma ormai era questione di minuti, sarebbe arrivato a Beaver e da lì avrebbe proseguito verso sud.
In quel punto la strada si articolava in una serie di curve e contro curve, che richiedevano particolare attenzione nella guida. Per un attimo, però, l’uomo distolse lo sguardo dalla carreggiata, attirato da un bagliore rosso improvviso che proveniva dalla piazzola di sosta poco più avanti.
Se lo era immaginato?
Alan aguzzò la vista. Rallentò l’andatura della sua berlina, in direzione di quello spiazzo. Improvviso, come un laser, di nuovo quel bagliore. Rallentò ancora fino a fermarsi.
Era stranamente incuriosito.
Cos’era stato? Se lo era immaginato? Si guardò intorno senza vedere niente. Certo il buio della notte non aiutava, ma la luce diffusa della luna e i fari dell’auto qualcosa facevano. Le foglie si muovevano piano, sospinte dalla leggera brezza, e tutto era calato in un silenzio innaturale. Mentre Alan osservava attraverso il parabrezza alla ricerca di qualcosa, o qualcuno, uno strano brivido gli percorse l’intero corpo. Una scossa veloce e intensa: eppure non aveva paura, anzi era insolitamente tranquillo e calmo. Nei momenti di tensione, e purtroppo succedeva spesso senza che lui ne avesse il controllo, le mani da umidicce si facevano completamente grondanti di sudore. Ma non adesso. Se le sfregò più volte, erano fredde e asciutte.
Si voltò a sinistra. La statale 29 era desolata. Sembrava che il tempo si fosse fermato, bloccato e congelato in quell’attimo. Interminabile e assoluto. Inevitabile.
Si voltò a destra in direzione del bosco, cercando di scrutare meglio. Qualcosa si stava muovendo, sbucò da dietro una pianta e si fermò sul delimitare della piazzola. Era un uomo vestito di scuro. Un paio di jeans logori e un maglione, forse grigio; i suoi capelli neri, la mascella squadrata e lo sguardo fisso avanti a sé, conferivano ad Alan uno strano senso di quiete. La figura si avvicinò alla Nissan con passo deciso mentre, con il palmo della mano rivolto verso l’alto, faceva cenno ad Alan di seguirlo.
Seguirlo per dove?
Se Alan Caper avesse potuto spiegare quello che successe immediatamente dopo, sicuramente non avrebbe saputo trovare le parole adatte a descrivere le sensazioni che provò. Anche perché, nella sua mente gli eventi successivi si riducevano a poche e confuse immagini, che non riusciva a focalizzare. Ricordava la sua mano che apriva lo sportello, come mossa da volontà propria. Forse, avrebbe potuto ricordare che stava in piedi davanti all’uomo a non più di due passi. Poi, però, il nulla. Come se fosse caduto in un sonno profondo. Come se fosse stato sotto l’effetto di qualche droga.
Cazzo! È tutto così in pace! fu l’unico pensiero coerente che riuscì a formulare in quei momenti. Poi, di nuovo più niente. Solo un’ultima immagine prima di quel sonno forzato: la luce bianca della luna che filtrava dagli alberi.