Ti insegnerò a volare
Di Elena Ungini
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Ti insegnerò a volare - Elena Ungini
Cover
CAPITOLO UNO
La ragazza sedeva a testa bassa in un angolo della guardiola, china sul telefonino nuovo, mentre le dita correvano sulla tastiera veloci come un fulmine. I capelli biondi le ricadevano sulle spalle in dolci boccoli. Le labbra, appena velate da un filo di rossetto rosa perlaceo, accennavano un pallido sorriso.
La porta di fronte a lei si spalancò e un uomo alto, moro, in elegante abito grigio, la osservò con lo sguardo imbronciato e la fronte corrugata.
«Angela!»
La giovane sospirò, alzò gli occhi dal telefono e li fissò in quelli di lui, sostenendo il suo sguardo con aria beffarda.
L’uomo represse la sua ira e si avvicinò alla ragazza, l’afferrò per un braccio e la trascinò via senza dire una sola parola. La costrinse a percorrere il corridoio, dove i loro passi rimbombarono come spari nel silenzio. Si fermò davanti a una porta, che la bidella gli aprì per permettergli di uscire.
«Buona giornata, signor Lorenzi», balbettò la donna, imbarazzata.
«Buona giornata», farfugliò lui, sempre strattonando Angela per un braccio.
La trascinò fuori dall’edificio scolastico e fino alla fiammante Jaguar parcheggiata nell’ampio cortile, aprì le portiere con il telecomando e spinse la ragazza sul sedile. Imperterrita, lei riprese a smanettare col telefono. Si aspettava che il padre reagisse da un momento all’altro, ma la cosa non la preoccupava più di tanto. Si era abituata alle sue sfuriate. Lui si sedette al posto di guida, strinse con rabbia il volante e fissò la figlia, immersa nel gioco con il quale si stava trastullando.
«Vorresti mettere giù quel cavolo di telefono, una buona volta?» esplose.
Ci siamo. Eccolo che comincia. Sospirò forte, pronta ad affrontare l’ennesima ramanzina.
Alzò appena gli occhi dal telefono, per puntarli verso il finestrino. Sapeva che questo avrebbe irritato suo padre e lo fece di proposito.
«Guardami.»
Lei si voltò e lo fissò con il solito sguardo canzonatorio.
«Così ti sei fatta cacciare da scuola.»
Lei non rispose. Si limitò a guardarlo con aria di sfida.
«Il preside mi ha raccontato quello che hai fatto. Posso sapere almeno il perché? Per quale dannato motivo hai agito in questo modo?»
Silenzio. Lei continuava a fissarlo. Il padre sbuffò, trattenendo a stento la rabbia che continuava a crescere.
«Quest’anno avevi già avuto comportamenti poco corretti e alcuni professori ti avevano già sgridata a dovere, ma non ti è bastato. Hai idea di quanto costi l’iscrizione a una scuola privata? Credi che i soldi li trovi per strada?» urlò.
«Si direbbe di sì, visto che non ti mancano», rispose lei, acida.
Giorgio strinse il volante, cercando di mantenere la calma. Certo, per loro i soldi non erano un problema, ma sapeva che sarebbe stato inutile spiegare a sua figlia la fatica che faceva per mandare avanti tutto da solo, per occuparsi delle numerose attività, della villa, delle tenute, dei dipendenti e di una figlia diciassettenne delusa e ribelle. Ingoiò l’ennesimo rospo, pensando con nostalgia a quando, solo qualche anno prima, Angela era una dolce bambina che adorava i genitori, che sorrideva sempre e non combinava guai. Perché la vita era stata così dura con lui? Perché continuava a esserlo? Perché non poteva sperare in qualcosa di meglio per se stesso e per sua figlia? A cosa servivano tutti i suoi soldi se non riusciva neppure a intavolare un discorso normale con l’unica persona che aveva vicina? Lei lo stava ancora fissando, gli enormi occhi, verdi e inquisitori, puntati sul suo viso, quell’aria di sfida, di dispetto, a volte persino di odio profondo, come se fosse stata colpa sua. Come se tutto quello che era accaduto negli ultimi due anni fosse stato colpa sua. Per l’ennesima volta Giorgio si perse in quegli occhi, che tanto gli ricordavano quelli di Gloria.
Pigiò un pulsante e accese il motore. Era inutile insistere: lei non lo ascoltava più. L’aveva persa, così come aveva perso sua madre.
Si infilò nel traffico dell’ora di punta. Doveva fare presto. Lo attendeva l’ennesimo viaggio di lavoro, l’ennesimo congresso, l’ennesimo aereo da prendere. Aveva giusto il tempo di accompagnare a casa Angela e prendere la valigia.
Mezz’ora più tardi, la lussuosa automobile si fermò davanti a un cancello in ferro battuto, sul quale campeggiavano le lettere G
e L
. Giorgio azionò il telecomando e i battenti si aprirono, lasciandolo passare. Parcheggiò nel vialetto e, scendendo dall’auto, si rivolse a uno dei tanti membri della servitù.
«Lascia qui la macchina, Alberto. Riparto subito.»
Angela sentì montare la rabbia: se ne andava di nuovo. La lasciava ancora sola. Una volta entrati nel grande ingresso, Giorgio fece per dirigersi verso il suo ufficio, ma il maggiordomo lo raggiunse, preoccupato.
«La signorina Angela non si sente bene? Devo chiamare un dottore?» chiese, ossequioso.
«La signorina Angela sta benissimo. Si è soltanto fatta cacciare dalla scuola», sbottò Giorgio con tono alterato. «Vai nella tua stanza e restaci!» intimò poi alla figlia.
Entrò nel suo studio e si allentò il nodo della cravatta, sfinito e nervoso.
«Mi dispiace, signore. C’è qualcosa che posso fare per lei?» domandò ancora il maggiordomo, che lo aveva seguito.
«Sì, Omar. Io devo partire, per forza. Ho bisogno di qualcuno che si occupi di Angela a tempo pieno. Un conto è quando va a scuola, ora però sarà a casa per tutto il giorno.»
«Capisco signore, l’ultima volta che lei è andato via la signorina non è stata troppo… gestibile», ammise Omar.
«Lo so. Chiama un centro per l’impiego, una ditta di baby-sitter, chiunque mi trovi alla svelta qualcuno che si occupi di lei.»
«Va bene, signore.»
Omar chinò appena la testa in un cenno di congedo e uscì dalla stanza. Giorgio si sedette sulla poltrona, dietro la scrivania, e prese fra le mani la foto di Gloria.
Perché mi hai lasciato, Gloria? Perché devo affrontare tutto questo da solo?
Ricacciò indietro le lacrime e sospirò. Avrebbe voluto soltanto dormire, invece doveva prepararsi a un altro viaggio. E se avesse perso anche lei? Se avesse perso anche sua figlia? No, non poteva permetterlo. Lo aveva promesso. Aveva promesso di occuparsi di lei, di crescerla e di farne una donna meravigliosa, come sua madre. Non poteva deludere Gloria. Il telefono sulla scrivania prese a suonare. Un suono fastidioso, opprimente, che pareva voler distruggere ciò che rimaneva del suo autocontrollo. Alla fine si costrinse a rispondere.
Una voce femminile lo salutò cordialmente, avvisandolo che l’aereo prenotato per il viaggio a New York era in ritardo di due ore.
«Ha intenzione di confermare comunque la partenza, signor Lorenzi?» chiese la voce all’altro capo del telefono.
«Sì, certo. Speriamo che non ci siano ulteriori ritardi.»
«Non credo. Comunque, c’è un altro aereo che parte fra un’ora, se vuole posso prenotarle quello.»
«No, non si preoccupi. Aspetterò. Questo mi darà anche modo di sistemare qualche faccenda qui, a casa.»
«Di nuovo problemi con sua figlia?» azzardò la segretaria.
«Purtroppo sì, Laura. Buona giornata», tagliò corto lui.
Mentre usciva dalla stanza incontrò Omar.
«Signore, ho avvisato il centro per l’impiego. Nel pomeriggio la signorina avrà una baby-sitter.»
«Perfetto, Omar. Prenditi cura di lei, ti prego.»
«Può starne certo, signore.»
CAPITOLO DUE
La sveglia suonò alle nove meno dieci e Luca la spense, voltandosi nel letto e sbadigliando rumorosamente. Pochi secondi dopo sentì un piccolo tonfo e il tipico rumore di fusa feline che si avvicinavano. Il gatto si sfregò contro il volto del padrone, poi iniziò a leccarlo con la lingua rugosa, facendolo sorridere.
«Fiocco, smettila!»
Lo spinse giù dal letto e lui iniziò a miagolare, andando a sedersi davanti alla ciotola della pappa.
«Sì, adesso arrivo», bofonchiò Luca, alzandosi e sfilandosi la maglia del pigiama. Una serie di colpi alla porta d’ingresso lo fece sussultare.
«Luca, sono io, la signora Ronchi. Ti ho portato l’affitto da pagare.»
Sospirando, il ragazzo aprì la porta e prese la busta che l’anziana donna gli porgeva.
«Lo pagherò appena possibile», disse, imbarazzato.
«D’accordo», bofonchiò la donna, storcendo un po’ il naso. «Non farmi aspettare troppo, però. Devo pagare l’IMU», lo redarguì mentre si voltava per scendere le scale.
«Stia tranquilla», la rassicurò.
Chiuse la porta e aprì la busta per leggere l’importo della mensilità.
«Cinquecento euro. Lo aveva detto che sarebbe aumentato, questo mese. Come diavolo faccio a pagarlo?» chiese rivolgendosi al gatto, che miagolò, si strusciò contro le sue gambe e tornò a mostrargli la ciotola vuota.
Luca aprì una scatoletta di cibo per gatti e glie ne diede un po’, poi finì di vestirsi. Qualcuno bussò di nuovo alla porta.
Chi cavolo è, adesso? si chiese, andando di nuovo ad aprire.
«Luca, sono Anna. Apri, per favore.»
Lui la fece entrare.
«Che ci fai qui?»
«Devo prendere alcune cose di Giulia. Le servono dei vestiti.»
«Fai pure. Sono nell’armadio, però sbrigati, sto per uscire. Comunque, avrebbe potuto venire lei a prenderli. Non la mangio mica.»
«Non le andava di vederti. Sai com’è…»
Lui sospirò. Lo sapeva eccome. Erano passate due settimane da quando si erano lasciati e Luca non aveva ancora metabolizzato il fatto. Gli mancava da morire. Probabilmente era lo stesso anche per lei.
«Come sta?» si azzardò a chiedere.
«Come vuoi che stia? Sta come te: male.»
«È stata lei a lasciarmi», rimarcò con astio.
«Lo sai il perché! Sei troppo geloso, Luca. Lo sei sempre stato. Lei ha bisogno della sua libertà», continuò lei, togliendo dall’armadio alcune paia di jeans e dei maglioni che poi infilò in una borsa che si era portata appresso.
«Libertà? Usciva tutte le sere.»
«E tutte le volte, al suo rientro, doveva sorbirsi rimbrotti e scenate. Avresti potuto uscire con lei. Non avrebbe desiderato altro.»
«Ci sono gli esami! Devo studiare! Io non ce la faccio a uscire, stare fuori fino alle quattro, poi tornare a casa e al mattino andare all’università per seguire i corsi. Ci ho provato… una settimana ed ero steso.»
«Beh, inutile piangere sul latte versato. Comunque, ti saluta.»
«Dille che la saluto anch’io.»
Anna prese il borsone e si diresse verso la porta.
«Aspetta, ti aiuto», si offrì lui, prendendo la borsa e accompagnandola per le scale.
Quando rientrò fissò di nuovo la busta che la signora Ronchi gli aveva consegnato. Per quasi un anno lui e Giulia avevano condiviso l’appartamento e diviso qualunque cosa, anche l’affitto. Ora era rimasto solo. Doveva trovarsi un lavoro. Non poteva chiedere ai suoi di mandargli cinquecento euro al mese solo per l’affitto, soprattutto adesso che sua madre aveva perso il lavoro e che sua sorella aveva iniziato l’università in un’altra città. Avevano già troppi pensieri e troppe spese. Doveva arrangiarsi da solo. Accese il portatile e diede un’occhiata alla posta elettronica. Negli ultimi tempi aveva inviato diverse domande di lavoro. Anche questa volta non trovò alcuna risposta. Sospirò. Si prospettava un anno difficile. Se tutto fosse andato nel migliore dei modi, però, sarebbe