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La kitsune
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E-book228 pagine3 ore

La kitsune

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Info su questo ebook

È il 13 giugno. Pietro Moschin si reca in Piazza dei Martiri a Belluno per il consueto aperitivo del sabato e assistere al passeggio. Legge un annuncio che lo incuriosisce e contatta un numero di telefono.
Pietro si trova coinvolto in un’avventura dai contorni incerti. Una donna, Elisa, dice di averlo conosciuto a scuola ma in realtà non è possibile. Marco, il proprietario di un bosco alla pendici del Monte Antelao, cerca di convincerlo ad acquistarlo.
Sullo sfondo una storia vecchia di qualche decennio prima, sembra la fotocopia di quella che Pietro ed Elisa stano vivendo nella baita all’interno del bosco, dove stanno trascorrendo una settimana di vacanza.
Una volpe dai poteri sopranaturali cerca di catturare Elisa ma Pietro fa buona guardia.
Al loro ritorno a Belluno Pietro scopre di essere l’erede del bosco, della baita e di altre proprietà.
Poi anche Elisa, oltre a Marco, scompare ma compare Amanda, la figlia di Pietro ed Elisa.

LinguaItaliano
Data di uscita22 mag 2019
ISBN9781370408887
La kitsune
Autore

Gian Paolo Marcolongo

Un giovane vecchio con la passione di scrivere. Amante delle letture cerca di trasmettere le proprie sensazioni con le parole. Laureato in Ingegneria. In pensione da qualche anno, ha riscoperto, dopo gli anni della gioventù, il gusto di scrivere poesie e racconti.Non ha pubblicato nulla con case editrici ma solo sulla piattaforma digitale di Smashwords e su quella di Lulu.

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    Anteprima del libro

    La kitsune - Gian Paolo Marcolongo

    Copyright © 2018-2019 Gian Paolo Marcolongo

    Design di copertina © 2019 Kongiku by Muramasadb.fandom.com

    Tutti i diritti sono riservati. È vietata ogni riproduzione, anche parziale. Le richieste per la pubblicazione e/o l’utilizzo della presente opera o di parte di essa, in un contesto che non sia la sola lettura privata, devono essere richiesti all'autore.

    Smashwords Edizione, Licenza d’uso

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    Grazie.

    NOTE DELL’AUTORE

    Il presente romanzo è opera di pura fantasia. Ogni riferimento a nomi di persona, luoghi, avvenimenti, indirizzi e-mail, siti web, numeri telefonici, fatti storici, siano essi realmente esistiti o esistenti, è da considerarsi puramente casuale e involontario.

    ISBN

    1.

    Pietro Moschin guardò fuori dalla finestra e decise di uscire. Finalmente un sabato decente.

    Il 13 giugno del 2009 il sole splendeva su Belluno dando una percezione di caldo benessere dopo le piogge delle settimane precedenti. Le persone animavano le strade del centro per gustare il ritorno del bel tempo.

    La primavera era stata incerta e più fredda del dovuto e non decideva di rimanere sul bello stabile dopo un inverno lungo ma poco nevoso. Tutti erano stanchi di ombrelli e impermeabili, di quella sensazione di umidità che penetrava nelle ossa. Speravano che il fine settimana fosse decente dopo il grigiore di quelle precedenti.

    Il cielo era limpido e pulito, mentre lo sguardo poteva abbracciare la corona dei monti circostanti liberi dalle nuvole. Sui picchi più alti si notavano le macchie bianche sporcate dalle rocce affioranti. Durante l’inverno non era nevicato moltissimo, ma la neve primaverile aveva lasciato il segno e si notava.

    Le due caffetterie di Piazza dei Martiri avevano potuto mettere all’aperto i tavolini, che vennero presi d’assalto per respirare l’aria dell’estate che non voleva arrivare.

    Pietro Moschin, chiuso il portone di casa, si incamminò con passo svelto verso il centro. La giornata odierna era adatta per prendere l'aperitivo alla Caffetteria Belluno, il più spettacolare punto d’osservazione cittadino secondo il suo parere personale: da qui si poteva ammirare il passeggio dei bellunesi.

    A trentacinque anni era single e riteneva che non fosse giunto il momento di trovare l’anima gemella, perché si sentiva appagato dalla condizione attuale.

    Sarò egoista ma sto bene così. Trovare una donna mi sembra complicato. Danno solo scocciature. Sconvolgerebbe la mia vita quotidiana. Insomma… si era detto con lucida determinazione.

    Tutti i tavoli erano occupati e si guardò intorno alla ricerca di qualcuno che ne liberasse uno. Ebbe fortuna: ne trovò uno in posizione defilata ma tutto sommato era un buon punto d’osservazione. Ordinò un prosecco e qualche stuzzichino prima d’immergersi nella lettura dei quotidiani, acquistati nell’edicola di Piazza Piloni. Nell’attesa sfogliò la cronaca di Belluno del Gazzettino alla ricerca di qualche notizia interessante che non riguardasse le beghe cittadine.

    «Sempre le solite» mormorò scuotendo il capo. «Mai nulla d’intrigante! Furti, lamentele, cortei di protesta… Insomma il nulla! Mah!»

    Scorrendo le pagine, si imbatté in un annuncio, di per sé per nulla strano, ma non per lui che lo trovò singolare.

    ‘Vendesi duemila pertiche di bosco sulle pendici del monte Antelao con ampia baita ben attrezzata raggiungibile con strada privata. Pochi vincoli. Prezzo interessante e trattabile. Trattativa riservata. Sei interessato? Chiama il 3313303133 tra le dodici e le quattordici. Marco’

    Guardò l’orologio che segnava mezzogiorno in punto. Potrei chiamare. Sono curioso di sapere quanto vuole. Chissà perché lo vende. Non ho mai avuto un bosco tutto mio si disse, componendo il numero.

    «Salve, sono Pietro Moschin. Il signor Marco?»

    «Sì» rispose una voce giovanile senza troppa enfasi.

    «La chiamo per l’annuncio sul Gazzettino. Potrei essere interessato all’acquisto».

    Il suo tono era deciso, di chi non vuole perdere tempo in schermaglie dialettiche.

    L’interlocutore sembrò riflettere prima di rispondere.

    «Ha impegni?»

    «No».

    «Allora le propongo un incontro. Così possiamo parlarne direttamente».

    «Sono alla Caffetteria Belluno. Possiamo chiacchierare mentre prendiamo l'aperitivo».

    «Tra venti minuti sono da lei. Come la riconosco?» chiese con un tono tra l’interrogativo e il perplesso.

    «Sono seduto nel tavolo sulla destra dell’ingresso, il più esterno rispetto alla piazza. Non ci saranno difficoltà a riconoscermi, perché sono l’unico con giacca e cravatta».

    «A dopo» disse chiudendo la comunicazione.

    Pietro ripose il telefono sul tavolo ma ripensò alla conversazione che gli aveva lasciato domande e dubbi.

    Non ho mai posseduto nulla, tanto meno un bosco pensò ma si mise a ridere. Proprio nulla, no. Ho comprato una casa e una vecchia auto. Il bosco è qualcosa di diverso! Non conosco quale valore commerciale possa avere.

    Rifletté su Marco, che dalla voce gli sembrava avere la sua età, sul bosco, di cui non sapeva cosa ne avrebbe fatto. Si chiese come ne fosse entrato in possesso e perché lo voleva vendere. Aveva la convinzione che il bosco si tramandasse di padre in figlio ma forse si sbagliava.

    La vendita di un bosco non era come alienare un immobile: i compratori di un bene così particolare non si trovavano con facilità.

    Però non aveva compreso quale molla l’avesse spinto a telefonare e poi accettare l’incontro. Pietro non pensava di trasformarsi in boscaiolo, perché non aveva un’idea di come si gestisse un bosco e tenesse una baita.

    Tuttavia stava pensando al dopo, quando avrebbe concluso la trattativa. Come conciliare il lavoro, che mi impegna dal lunedì al venerdì, con la vita tra i boschi?

    Gli appariva complicato la gestione della sua casa. La donna a ore per le pulizie, la tintoria per vestiti e camice, cucinare il più modesto dei pranzi, rigovernare la tavola e rifare alla mattina il letto. Insomma pur essendo abituato a vivere da solo, trovava il quotidiano irto di difficoltà ma immaginò che il bosco fosse più complesso da gestire.

    La vita nella baita come si sarebbe svolta? si domandò, perché sarebbero mancate le comodità di una casa di città: l’acqua corrente, la luce elettrica e le tecnologie moderne. Dovrò sostituire la vecchia Punto con un fuoristrada più adatto allo sterrato. Stava trascurando il fattore economico, perché non aveva grandi disponibilità per finanziare l’acquisto. Come pagherò l’acquisto del bosco, se il conto in banca non è a sette cifre e nemmeno a sei?

    Questi dubbi e i conseguenti problemi gli fecero pensare che aveva preso una decisione avventata: più di pancia che di testa.

    Immerso in queste riflessioni che gli facevano comprendere come la telefonata fosse stata azzardata, alzò gli occhi scorgendo una persona minuta dai capelli candidi alla ricerca di qualcuno.

    L'istinto prevalse sul razionale. Agitò la mano per farsi riconoscere.

    «Sono Pietro Moschin» esordì in maniera calorosa. «Lei è Marco?»

    Senza attendere la risposta lo fece accomodare al tavolo.

    2.

    Per la seconda volta nel giro di pochi minuti si comportava senza ponderare parole e azioni. Pietro era così: istintivo, imprevedibile agli occhi degli altri, incapace di amare e di essere riamato. Non aveva amici, ma solo persone che gli dicevano un buon giorno o buona sera, viveva solitario in una casa con mansarda che guardava i tetti di Belluno. Era preparato sul lavoro, ma inadatto a legare stabilmente con gli altri. Viveva a sprazzi l’avventura professionale: brillante e ricercato per le sue opinioni, che alternava a isolamento e solitudine.

    Da dieci lavorava in una delle tante fabbriche di occhiali disseminate lungo la valle del Piave. Il suo compito era disegnare le montature. Tutte le mattine alle sei si alzava, apriva le finestre e preparava il caffè, che prendeva a letto con un paio di biscotti secchi. Il rituale si ripeteva dal lunedì al venerdì con i medesimi gesti e gli stessi orari.

    Un osservatore frettoloso lo avrebbe giudicato come una persona metodica, priva d’invettiva: un ripetitivo. La doccia, vestirsi con giacca e cravatta estate e inverno, col sole e con la neve, erano i rituali mattutini prima di partire diretto a Longarone. Però appena messo un piede fuori dalla porta, si trasformava e dava sfogo alla creatività che era innata dentro di lui attraverso il suo lavoro di grafico.

    Non poteva stupirsi del comportamento che stava tenendo. Era la sua essenza: l’annuncio l’aveva incuriosito, l’istinto l'aveva guidato.

    «Si accomodi» esordì Pietro indicando la poltroncina di vimini di fronte alla sua. «Cosa prende? Un prosecco? Un analcolico?»

    Osservò l’uomo che gli stava davanti: aveva sbagliato tutto. La fisionomia era diversa da quella immaginata: doveva essere alto e giovane, in realtà era piccolo e anziano.

    «Prendo un caffè» rispose cortese con un debole sorriso sulle labbra.

    Fece un cenno al cameriere, che accorse per prendere la nuova ordinazione.

    Nell’attesa rimasero in silenzio come se non avessero nulla da dirsi.

    Pietro si chiese se era sposato, divorziato, vedovo o single, senza trovare la risposta giusta: non c’era nulla nella personalità di Marco che gli indicasse il suo stato. Pura curiosità la sua. Faceva un raffronto con se stesso, perché non aveva ancora una compagna. Percepiva fastidio verso i conoscenti che lo ritenevano un gay, perché nessuno l’aveva visto in compagnia di una donna. Si mostrava impacciato e insicuro quando una ragazza gli rivolgeva la parola. Conscio che avrebbe incontrato la persona giusta, aspettava quel momento con pazienza che ne aveva da vendere.

    Marco sorseggiò il caffè con calma senza mai staccargli gli occhi di dosso, pareva che volesse analizzarlo e valutarlo.

    Il silenzio era diventato imbarazzo, quando Pietro decise di rompere il ghiaccio.

    «Il suo annuncio mi è sembrato strano. Vendere un bosco non è una cosa abituale».

    Marco lo guardò senza modificare la sua espressione: il viso sembrava privo di muscoli e l’occhio sempre aperto ma spento.

    «Ha ragione in un certo senso…» replicò con pacatezza.

    Fece una pausa prima di riprendere.

    «Se non le dispiace, io passerei al tu, meno formale. Perché dici che è un annuncio insolito? È come vendere un frutteto. Non c'è nulla di straordinario».

    Pietro lo guardò senza abbassare gli occhi.

    «Perché considero inconsueta la vendita? Non ho mai visto un annuncio per un bosco! Mi piacerebbe averne uno e tu mi dai la possibilità di comprarlo. Dove si trova?»

    «Sulle pendici del monte Antelao che guardano San Vito. Sono duemila pertiche di un bellissimo bosco di larici e abeti. In mezzo c’è la baita con annessi due edifici: uno funge da forno e l’altro da dispensa, una sorta di frigorifero naturale».

    «Come mai lo vendi?» chiese incuriosito Pietro, strizzando gli occhi colpiti dal sole.

    «È una storia lunga. Un giorno te la racconterò» tagliò corto Marco. «L’ho avuto in eredità».

    Dunque è il frutto di un’eredità scomoda pensò Pietro, appoggiandosi allo schienale della sedia.

    3.

    La mente di Pietro tornò indietro nel tempo, dodici anni prima quando aveva lasciato Venezia, la casa, che lo aveva ospitato fino a quel momento, i genitori e le sorelle. Non aveva rimpianti, ma la parola eredità, appena ascoltata, aveva riacceso ricordi che credeva sepolti per sempre.

    Dopo la laurea breve come graphic designer col massimo dei voti aveva vinto una borsa di studio per un master stage a Milano. Da quel momento e per due anni visse da precario con contratti a termine di due o tre mesi.

    Non mancavano le offerte, che arrivavano con regolarità, ma psicologicamente era stressante. Passare da un myjob all'altro per elemosinare un contratto, versando il classico pizzo sotto la voce compenso di mediazione, era frustrante. Quando alla sera tornava nel bilocale che condivideva con Augusto, un altro più precario di lui, si domandava cosa ci stava a fare nella grande metropoli.

    L’ondata di ricordi sembrò inarrestabile dopo aver ascoltato la parola eredità. Immerso nel flusso dei flashback si dimenticò dell’interlocutore che stava parlando del bosco.

    Sembravo un barbone come vivevo. Augusto lo faceva per scelta, io per necessità rifletté Pietro, ricordando quando preparava la minestrina di dado e tre foglie d’insalata come cena.

    A malapena sopravvivevo. Passavo da uno studio di grafici a un altro con la stessa velocità della bora a Trieste si disse pensando ai curriculum spediti senza ricevere risposta.

    Restavo tra l’indifferenza generale. A casa non potevo ritornare. Non potevo darla vinta ai miei genitori che con sarcasmo avevano predetto: «Ti aspettiamo tra quindici giorni». Però questa esperienza mi ha temprato. Mi ha insegnato molto.

    Continuò nell’analisi della sua vita, mentre osservava Marco senza vederlo, senza ascoltare le parole dette. Rifletté che non sarebbe mai capitato a Belluno se il caso non avesse disposto in altra maniera.

    Dieci anni prima l’avevano incaricato di disegnare la montatura per una nuova linea di occhiali da sole. Nei consueti due mesi doveva consegnare disegni e bozzetti. Fu un lavoro pulito e veloce, terminato in venti giorni. Era soddisfatto perché era uscito dalla sua matita un bel modello. Però era presto per cantare vittoria. Era già capitato di dover rifare tutto, non avendo superato il gradimento del committente. Non ebbe feedback né buoni né cattivi: ricevette quanto era stato concordato per i due mesi. Rimase sorpreso nel ricevere il compenso completo, perché aveva ipotizzato che, con trenta giorni di contratto non utilizzati, l’avrebbero sfruttato per un altro lavoretto. Nell’attesa di una nuova commissione Pietro sentì squillare il telefono. Lo guardai incuriosito per capire chi mi stava cercando: era un numero privato. Decisi di rispondere. Volevo sapere chi mi stava chiamando. A parte le agenzie di lavoro interinale non lo conosceva nessuno.

    Quel colloquio telefonico gli cambiò la vita. L’avrebbe ricordato per sempre.

    «Pietro Moschin?» chiese una voce femminile dal tono gradevole.

    A quella domanda formulata con garbo seguirono nella sua testa mille pensieri accavallati nello spazio di un secondo. Pensò che fosse uno dei tanti curriculum inviati, ma era più prudente non immaginare nulla: l’illusione produceva amarezze e depressioni.

    «Sì, sono io».

    «Rimanga in linea. Le passo il dottor Lunardon».

    Un silenzio carico di ansia precedette l’offerta dell'assunzione presso la fabbrica di occhiali «Luni» di Longarone come progettista grafico. Era quella dell'ultimo progetto.

    Quindici giorni dopo era in partenza per Longarone con un carico di speranze e un contratto a tempo indeterminato in tasca. Eseguita una deviazione su Venezia per salutare i genitori risalì la statale delle Dolomiti per iniziare la nuova vita.

    Loro rimasero delusi, perché avevano pensato che avesse gettato la spugna tornando per sempre a casa. Capirono che la partenza era definitiva. Rimaneva la consolazione del lavoro sicuro.

    Per cinque anni visse a Longarone, ma la cittadina gli andava stretta. I due anni vissuti a Milano gli avevano fatto comprendere che era meglio abitare a Belluno percorrendo i venti chilometri che dividevano le due località piuttosto che avere un’esistenza insoddisfacente a due passi dal lavoro.

    Un giorno trovò un annuncio di vendita di una piccola casa nella parte alta di Belluno. Da solo non ce l’avrebbe fatta perché i risparmi erano insufficienti per chiudere l’affare. Quindi si rivolse ai genitori per un aiuto. Vinse l’orgoglio che gli diceva di non farlo ma andò a Canossa, anzi a Venezia. Messo da parte l’amor proprio, andò come un penitente a perorare il prestito come anticipo della ancor lontana eredità. Da quel momento si trasformò in un pendolare.

    Ascoltava o fingeva di farlo, mentre in realtà si era perso nei ricordi. Per associazione d’idee aveva collegato alla parola eredità, detta da Marco, alla casa dove abitava adesso. Si domandò, mentre l’altro continuava

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