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101 perché sulla storia di Torino che non puoi non sapere
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E-book492 pagine5 ore

101 perché sulla storia di Torino che non puoi non sapere

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101 scatole cinesi, anzi torinesi, che ci accompagnano alla scoperta della città odierna. Scatole che contengono storie, curiosità, aspetti insoliti. Leggere questo libro sarà come entrare in una macchina del tempo per assistere, ad esempio, a un’eclissi dal funesto presagio o alle feste organizzate per gli annoiati nobili francesi riparati a Torino nel 1789. Presenziare ai preparativi di una battuta di caccia per lo zar Nicola II o alla conquista del Karakorum in Himalaya da parte del duca degli Abruzzi. O ancora, vedere la Gioconda tutta impacchettata che transita da Porta Nuova per ritornare al Louvre, o imbattersi in un tronfio Lombroso che pretende di studiare la mente di Tolstoj. E perché no, passeggiare su un ponte di ferro precursore del ponte di Brooklyn mentre un idrovolante decolla sul Po verso Trieste, o magari accogliere preziosi reperti egizi arrivati dopo lunghi viaggi. Per partire basta solo sfogliare le pagine.

Perché Torino si chiama così?
Perché a Torino “inciampando” qualcuno ritorna a casa?
Perché Torino ha un oroscopo?
Perché a Torino si cuciva senza sosta nel 1915-18?
Perché nel Santuario della Consolata rivivono le disavventure dei torinesi?
Perché la “pietra della bancarotta” arrivò a Torino?
Perché a Torino la Gioconda transitò da Porta Nuova?
Perché Paolina Bonaparte visse “in collina”?
Daniela Schembri Volpe
è nata a Palermo nel 1963. Ha conseguito al Politecnico di Torino il titolo in Scienze e arti della stampa. Si è occupata di grafica come art director junior e da tempo lavora nell’editoria come correttrice di bozze e editor. Pubblicista, ha vissuto all’estero in diverse città del mondo. Con la Newton Compton ha pubblicato 365 giornate indimenticabili da vivere a Torino e Keep calm e passeggia per Torino.
LinguaItaliano
Data di uscita20 set 2018
ISBN9788822725219
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    101 perché sulla storia di Torino che non puoi non sapere - Daniela Schembri Volpe

    TRA LEGGENDA E STORIA

    immagine

    La chiesa della Consolata in un'incisione di fine Ottocento.

    1.

    Perché Torino si chiama così?

    Ci pensate? Cinquecento milioni di anni prima di Cristo, tutto il Piemonte, e quindi anche il territorio di Torino, non era che una distesa d’acqua. Alcuni esperti immaginano questo mare come un ramo dell’Adriatico che si propendeva verso ovest. All’inizio del periodo Quaternario forti scosse telluriche composero l’arco alpino occidentale e lentamente il mare si ritirò. Valli, declivi, pianure e il fiume Po si formarono dal gioco delle acque che scavavano i terreni, modellandoli e ricoprendoli di un humus che forniva preziosa linfa alla crescita di una rigogliosa vegetazione. Tutto ciò è avvalorato dal ritrovamento nella zona collinare di Torino, durante le varie ricerche archeologiche che hanno avuto luogo nel tempo, di molluschi, conchiglie e piccole parti di enormi pesci affini agli squali o ai cetacei.

    La presenza dell’uomo ci riporta circa a ventimila anni fa. Che origini aveva quest’uomo che per primo lasciò la propria impronta? In tempi più recenti un indizio importante verrà rimarcato dal battesimo romano della città: Iulia Augusta Taurinorum. Non vi è alcun dubbio che Iulia sia un riferimento al ricordo di Cesare, Augusta ad Augusto (in onore dell’imperatore), ma Taurinorum? Le genti che già popolavano il territorio, prima che giungessero i Romani, dapprima con l’insediamento di un presidio militare nel 58 a.C. e poi con la fondazione del Castrum, nel 28 a.C., erano di origine ligure; le coste aperte alle razzie e la necessità di espandersi e di avere a disposizione un entroterra fruibile erano stati motivo di migrazione verso le Alpi. I Taurini, provenienti appunto dalle coste, a un certo punto dovettero fare i conti con tribù molto determinate che giungevano dal Nord: i Celti. Popoli che puntavano verso il meridione d’Europa, mirando a una vita resa più facile da un sole che scaldasse popoli e animali. Ma parte dei Celti trovò già le condizioni per arrestare la lunga marcia e col tempo si amalgamò con i Taurini. I Taurini si insediarono in una zona denominata, dagli antichi storici, Taurasia o Taurinia, posta alla confluenza degli attuali fiumi Po e Dora Riparia (all’incirca in zona Vanchiglia). Quanto c’entra il simbolo cittadino odierno del toro con i Taurini? A parte le leggende, poco o nulla. Una prima leggenda riguarda un toro rimpinzato di vino che riesce ad abbattere, morendo anch’esso nella perigliosa tenzone, un feroce drago che impediva agli abitanti del villaggio di uscirne e di recarsi a coltivare i campi pena l’essere divorati; l’altra risale all’Antico Egitto e ne fa cenno lo storico e letterato seicentesco Emanuele Tesauro (così come l’altro storico di corte, Filiberto Pingone), il quale scrive di un principe egizio in fuga dalla madre patria, che fermatosi in una pianura con un fiume, avrebbe introdotto il culto del dio-toro chiamato Api (di tori-Api ne sono stati scoperti molti, racchiusi in sarcofagi a Saqqara, nei pressi del Cairo).

    immagine

    Frontespizio dell’Augusta Taurinorum, pubblicato nel 1577

    Non si trattò di leggenda ma di grande Storia quando i Taurini si trovarono a tu per tu con il cartaginese Annibale nel 218 a.C. Erano in atto le guerre puniche e i Romani già avevano iniziato a familiarizzare con i Taurini. Travolgendo la Spagna, Annibale aveva varcato i Pirenei con 30.000 uomini e 37 elefanti (animali mai visti che terrorizzavano le popolazioni) e successivamente le Alpi in un punto che pare essere localizzato a pochi chilometri dal Moncenisio (il Col de la Traversette e non il Monginevro). Taurinia con il suo popolo di semigalli si trovava proprio sul territorio da attraversare per raggiungere Roma. Annibale chiese alla città di rifocillare i suoi soldati stremati da oltre mille chilometri. Taurinia, sperando forse in un aiuto dei Romani, rispose con un bel diniego. Dopo tre giorni di battaglia venne distrutta e messa a fuoco e fiamme; poi piano piano venne ricostruita caparbiamente.

    E allora, concluse le leggende e la storia, occorre ancora svelare l’arcano. Da dove deriva il termine Taurini? Potremmo rispondere con un dimmi dove abiti e ti dirò chi sei, ma più semplicemente affidarci alla radice indoeuropea taur, legata o alla voce dell’antico grec o £ρος (oros, montagna), o al sanscrito sthur (massiccio, selvatico). Eccole lì le montagne! E ancor più vicine le colline. I Taurini quindi erano il popolo delle montagne e guarda la combinazione, ancora dopo secoli, la regione che ingloba Torino si chiama Piemonte. Il simbolo del toro comparve successivamente, rimanendo in grande auge fino ai giorni nostri, amato da torinesi e turisti.

    2.

    Perché Torino e Roma si contendono una storica visione?

    La Storia spesso si incrocia con la leggenda e Torino, si sa, di leggende di ogni genere ne è ricca. Torino o per meglio dire, in tal caso, i suoi immediati dintorni, perché parliamo di una zona imprecisata vicino Rivoli, contendente a Roma un episodio leggendario che ha segnato la Storia nonché la religione cristiana. Innumerevoli dipinti, libri e anche pellicole si sono ispirati a quanto accadde nel 321 d. C.

    "In hoc signo vinces, che tradotto dal latino significa con questo segno vincerai, la cui traduzione del greco è: ἐν τούτῳ νίκα (letteralmente: con questo vinci"), è la scritta che comparve in cielo, accanto a una croce, a Costantino i e sarebbe uno dei segni prodigiosi che avrebbe preceduto… quale battaglia? L’episodio è raccontato nell’opera del vescovo Eusebio di Cesarea (265-340) – che dal 325 fu a stretto contatto con Costantino – dal titolo Vita di Costantino del 337. Eusebio afferma di considerare il fatto veritiero solo perché l’imperatore stesso glielo aveva raccontato sotto giuramento; al contempo gli studiosi moderni vedono Eusebio come un abile propagandista politico al servizio di Costantino i.

    Secondo quanto afferma Eusebio, nel trattato scritto subito dopo la morte dell’imperatore, Costantino i raccogliendosi in preghiera alla divinità, poco dopo mezzogiorno fu testimone, lui con il suo esercito, di un evento celeste a dir poco prodigioso e abbagliante: l’apparizione in cielo di un incrocio di luci sopra il sole e della scritta ἐν τούτῳ νίκα.

    Nella notte seguente gli sarebbe apparso Cristo, suggerendo di adottare come proprio vessillo imperiale, durante la battaglia contro Massenzio, il segno che gli aveva mostrato in cielo. Durante la visione, Cristo gli suggerì inoltre di iscrivere sugli scudi il monogramma greco del Salvatore xp, con la leggendaria promessa «In hoc signo vinces», simbolo cristiano del Chi-Rho, detto anche monogramma di Cristo (che costituisce le prime due lettere greche della parola ΧΡΙΣΤΟΣ cioè Christòs, sovrapposte). Sotto queste insegne i soldati sconfissero l’avversario. Nei giorni successivi all’apparizione Costantino i avrebbe chiamato a sé dei sacerdoti cristiani per cercare di comprendere una religione, il cui contenuto non era a lui conosciuto, lasciando il paganesimo per convertirsi al cristianesimo.

    La battaglia di Torino fu combattuta nel 312, nei pressi del castrum allora conosciuto come Augusta Taurinorum, tra le forze di Costantino i e quelle del suo rivale Massenzio che si contendevano il titolo di imperatore romano per il trono d’Occidente. Costantino vinse, muovendosi poi verso Mediolanum e verso Verona e, infine, presso Roma, dove avrebbe sconfitto in maniera decisiva Massenzio nell’ottobre dello stesso anno, nella famosa battaglia di Ponte Milvio. Le truppe di Massenzio si opposero all’esercito di Costantino i, proveniente dal Moncenisio, a Segusia (Susa), che venne presa e data alle fiamme ma, per non rendersi nemiche le popolazioni locali, Costantino diede l’ordine di spegnere l’incendio, per poi dirigersi verso la pianura e Augusta Taurinorum, dove dovette scontrarsi con l’esercito di Massenzio, che non scherzava affatto per dotazione e presenze, forte di un contingente di clibanarii e catafratti, la famigerata cavalleria i cui cavalieri erano completamente ricoperti da corazze così come in parte i loro cavalli. Questo tipo di cavalleria aveva come tattica la disposizione a cuneo per sfondare come un ariete l’esercito avversario. Costantino ordinò al proprio centro di arretrare il più possibile il fronte dell’esercito, in modo che i fianchi si chiudessero inesorabilmente sul nemico, il quale, avendo un equipaggiamento pesante (avete mai provato a indossare un’armatura? Circa 20-25 chilogrammi di metallo!) non era in grado di cambiare tattica repentinamente. All’opposto Costantino disponeva di una cavalleria leggera, e quindi con una mobilità più immediata, dotata di mazze chiodate che, essendo di violento impatto, rendevano meno efficace la corazzatura pesante dei cavalieri avversari. Successivamente Costantino ordinò ai soldati di fanteria di avanzare contro quelli di Massenzio per tagliarne le vie di fuga. A questi ultimi, in ritirata, gli abitanti di Augusta Taurinorum si rifiutarono di dare asilo, chiudendo loro le porte di accesso alla città. Dopo la battaglia, Costantino e le sue truppe entrarono in città per essere acclamati dal popolo. Altre città della pianura italiana, riconoscendo il genio militare di Costantino e la volontà di infierire il meno possibile sulla popolazione civile, gli inviarono ambascerie per congratularsi della sua vittoria. Ecco perché sul monte Musinè, allo sbocco della Val di Susa, in prossimità della pianura, per celebrare l’apparizione del simbolo cristiano, nel 1901 venne edificata una gigantesca croce, visibile da tutta la pianura torinese, sulla quale vi è una piastra con la seguente scritta:

    IN HOC SIGNO VINCES

    A PERPETUO RICORDO DELLA VITTORIA DEL CRISTIANESIMO CONTRO IL PAGANESIMO RIPORTATA IN VIRTÙ DELLA CROCE NELLA VALLE SOTTOSTANTE IN PRINCIPIO DEL SECOLO IV SUA MAESTÀ IL RE VITTORIO EMANUELE III MARCH. MEDICI SEN. DEL REGNO CONT. CARLO E CONT. GIULIA CAYS DI CASELETTE.

    Nel 313 con l’editto di Milano fu messa fine alla persecuzione contro i cristiani. Quale sia la leggenda e ovunque sia avvenuta la visione, resta il fatto che Torino e dintorni furono protagoniste, ancora una volta, della Storia.

    3.

    Perché il simbolo del toro impera a Torino?

    Tori, torelli, teste di toro, toret, toretti… tori per tutti. Non siamo per le strade di Pamplona, alla festa di San Firmino, ma semplicemente a Torino dove il simbolo del toro è entrato in simbiosi con la città da secoli. Come visto al punto che riguarda il presunto antico legame con l’Antico Egitto, nel testo di Emanuele Tesauro Historia dell’Augusta città di Torino c’è un’immagine in cui compaiono ben due tori: uno campeggia su una sorta di piedistallo, barocco, quasi sorretto da un muscoloso puttino, il secondo toro, alla base del piedistallo, ha sembianze antropomorfe e un fisico erculeo da odierno palestrato. La figura e quanto scritto da Tesauro sembrano avallare l'ipotesi che i riferimenti taurini siano dovuti all’adorazione, sette secoli prima della fondazione di Roma, della divinità egizia Api, un toro sacro a Iside. Sempre Tesauro riconduce la nascita di Torino a un faraone egizio Eridano che fonda l’Urbe e l’origine del suo simbolo sarebbe proprio il toro Api. Tesauro scrive infatti:

    Perché prendendo gli auspici dal suo Api, adorato in Egitto per patrio nume sotto sembianza di toro; del nume istesso le diede le insegne e 'l nome. Peroché da quel Toro Augurale fu detta Taurinia: & Taurini gli suoi Cittadini e popoli del suo Distretto, essendo Capo di Provincia. Et Taurine le Alpi sopra lei eminenti, che lunghi secoli appresso furono chiamate Cottie. Dal cognome del suo Fondatore fu cognominata Eridania; & Eridano il suo Fiume unico Re de’ Fiumi.

    Per farla breve Tesauro ci suggerisce, nella sua lettura dei fatti, che tutti questi bovini non castrati che simboleggiano Torino, per l’appunto i tori, sono un’eredità egizia. In realtà il simbolo rappresenterebbe Torino da tempi più recenti.

    Un altro arco temporale ci fa fare un balzo, in avanti, fino al Medioevo. Quanti in quell’epoca sapevano leggere e scrivere? Decisamente pochi eletti, al resto della popolazione correvano in aiuto i simboli. Nel Codice della Catena, del 1360, cosiddetto perché per evitare che fosse rubato, quando veniva esposto alla consultazione, gli furono applicate due catene di ferro, sono raccolti gli statuti e le franchigie che nel 1360 il conte Verde (Amedeo vi di Savoia) concesse, in cambio dell’omaggio di fedeltà, al Comune di Torino, sottraendo formalmente la città al governo del cugino, il principe Giacomo d’Acaja. In un’immagine del codice pergamenaceo sono riprodotti i santi, allora protettori della città, Ottavio, Avventore e Solutore, con al di sotto dei tori rossi passanti (non ancora rampanti) alternati a croci bianche (bianco e rosso, colori che si rifacevano al potere imperiale, ripresi nei tempi odierni dallo stemma della circoscrizione i di Torino, Crocetta).

    I tori torinesi nelle loro varie rappresentazioni, nei secoli, hanno abbandonato la loro posizione quasi naturale per divenire rampanti (in araldica furiosi), in equilibrio sulle due zampe posteriori, un po’ infuriati. L’attuale stemma vede il toro riprodotto su di uno scudo di colore blu, dorato con le corna argentate, e sormontato da una corona comitale a nove perle. Il povero toro dovette sopportare in età napoleonica di essere sormontato da una banda rossa su cui erano poste tre api d’oro, poi con la Restaurazione e la fine dell’egemonia napoleonica la nuova araldica sparì. Come da piazza Carlina sparì la ghigliottina dell’armée francese. Nel 1849, con la promulgazione dello Statuto Albertino, la corona comitale venne sostituita da una muraria per poi essere ripristinata dal podestà di Torino (siamo ai tempi del Fascio) nel 1928. Nel 1933 il nostro toro dovette tollerare pure il capo del Littorio, eliminato poi con la fine del secondo conflitto mondiale.

    A chi volesse riprodurre il toro rampante e il logo di Torino in maniera fedelissima non resta che acquistare il Manuale di immagine coordinata di Giovanni Brunazzi, dove il nostro toro ha avuto un restyling atto a renderlo istituzionalmente fruibile, creandone una sola e unica versione. Per chi si volesse cimentare eccone la ricetta della quadricromia: cyan 100, magenta 72, black 6, yellow 100. Niente taurobolium mi raccomando! Le iconiche fontanelle di ghisa verde con la testa di toro sgorgante acqua e i tanti tori che si notano in giro per Torino sarebbero dunque gli eredi del toro Api? Cosa chiedere ancora di più a un toro! Per ringraziarlo evitare proverbi come tagliare la testa al toro o prendere il toro per le corna, il toret potrebbe immediatamente smettere di dissetarvi…

    4.

    Perché Torino ha il suo Assassinio nella cattedrale?

    Nell’aura di mistero torinese non si può non ricordare un fatto di sangue che si svolse in una delle tre chiese preesistenti all’attuale Duomo di Torino, in piazza San Giovanni. Shakespeare, a saperlo, avrebbe potuto confezionarci su un bel drammone! La macchina del tempo va a ritroso fino al dominio longobardo. Certo, i nomi dei protagonisti non sono così adatti per un giallo truculento e bieco, occorre concentrazione per non cadere nel ridicolo! Dopo varie vicende storiche i Longobardi riuscirono a occupare Torino nel 569 e la città fu messa a capo di un ducato longobardo di confine con le terre dei Franchi. La presenza longobarda a Torino è documentata anche da ritrovamenti di resti nelle necropoli. Nel 590 il duca di Torino Agilulfo andò in sposo alla regina Teodolinda, vedova del re Autari, divenendo re anche degli altri ducati piemontesi. Proprio questo duca adattò a proprio palazzo (Curtis ducis) alcuni degli edifici preesistenti, nell’attuale largo iv Marzo, che corrispondevano in tempi ancora più antichi, si pensa, alla sede delle magistrature romane. Per volontà della cristiana Teodolinda fu eretta la chiesetta dedicata a san Giovanni Battista, esattamente nell’area dove ora troviamo il Duomo di Torino, luogo che già ospitava nel passato piccoli templi dedicati ai martiri, soldati romani, Ottavio, Solutore e Avventore (e prima ancora templi pagani), e su cui sorsero altre due chiese, Santa Maria de Dompno e San Salvatore.

    Le tre chiese principali della città vennero poi abbattute tra il 1490 e il 1492 per lasciare posto sufficiente alla edificazione del Duomo, sempre dedicato a san Giovanni, la cui prima pietra fu posta il 22 luglio 1491 dalla reggente di Savoia, vedova di Carlo i, Bianca di Monferrato. Ma non corriamo troppo. Con la morte del re Rodoaldo, cominciò un’epoca di particolare incertezza tra i Longobardi. A Rodoaldo, perito in una congiura – all’ordine del giorno in quei tempi, ma un’altra teoria, più romantica, afferma che fu assassinato da un longobardo a cui aveva sedotto la moglie –, seguì re Ariperto i che prese il trono dal 653 al 661. Ariperto nominò i suoi due figli, Godeperto e Pertarito, successori congiunti al trono longobardo. La successione congiunta era frequente tra i Franchi ma non tra i Longobardi e i due fratelli, inferociti, da subito entrarono in conflitto. Godeperto si insediò a Pavia e Pertarito a Milano. Garibaldo, duca longobardo di Torino, con l’appoggio di Grimoaldo, duca di Benevento, decise di sostenere Godeperto, almeno apparentemente: lo scopo era in realtà impossessarsi del trono longobardo. Giunto a Pavia, nel 662, Grimoaldo assassinò Godeperto, mentre Pertarito fuggiva alla larga. Certo di non aver lasciato tracce del suo coinvolgimento, Garibaldo si recò il giorno di Pasqua dello stesso anno nella chiesa di San Giovanni; immaginiamolo, tronfio e falsamente devoto, ad assistere alla funzione. Ma chi la fa l’aspetti, ed ecco giungere la morte proprio nella chiesa, pugnalato alla schiena da un familiare della cerchia di Godeperto. Vendetta era fatta con il corpo di Garibaldo che stramazzava al suolo. A succedere al duca assassinato fu Ragimperto, figlio di Godeperto e nipote di Ariperto, dopo aver sconfitto Ansprando, tutore di Liutperto, in una tenzone nei pressi della campagna novarese. Questi eventi sono narrati dallo storico e monaco Paolo Diacono nella sua opera Historia Langobardorum. Si capisce, con questa girandola, come durante la narrazione alcuni nomi siano stati taciuti per pietà, c’è da farsi venire il mal di testa.

    L’ultimo duca longobardo di Torino a portare il titolo di re fu Ariperto ii, per la durata di nove anni e fino a che non fu sconfitto nel 710 da Liutprando. Nel 773 quando arrivò il potente Carlo Magno con l’esercito franco a sbaragliare i Longobardi, i torinesi dovevano essere stufi marci del potere germanico dato che non opposero alcuna resistenza. Forse si erano stancati di pronunciare, storpiandoli, i nomi dei duchi e dei loro familiari durante i pettegolezzi da mercato? Torino divenne quindi una contea franca e i cittadini tirarono un sospiro di sollievo. In seguito con le ramificazioni dell’albero genealogico dei Savoia, imperarono i variCarlo, Umberto, Emanuele, Vittorio, Eugenio, Amedeo, Tommaso, decisamente meno cacofonici e confortanti: basta combinarli tra loro, aggiungere qualche numero romano, mixare il tutto e il gioco è fatto!

    5.

    Perché i Templari si fermarono strategicamente a Torino?

    Molte fonti storiche, avvalorate in tempi recenti da ritrovamenti archeologici, sono in grado di testimoniare la presenza dei Cavalieri Templari nella città di Torino, in provincia e in generale in buona parte del Piemonte. Certo, la datazione rispetto al loro arrivo o all’insediamento definitivo non è precisa e in alcuni casi differisce a seconda delle fonti, e su alcuni luoghi che dovrebbero essere stati loro dimora vige uno sdoppiamento tra leggenda e verità, della serie sono stati qui davvero oppure ce la stanno raccontando?. Nonostante questi aspetti è interessante conoscere qualcosa in più sulla presenza dei Templari in una città che da sempre è intrisa di mistero e fascino, e intreccia la sua storia con la leggenda, la fede e anche con le vicende che riguardano i numerosi personaggi che vi hanno soggiornato.

    Per dare solo un veloce cenno all’origine dell’Ordine Militare del Tempio di Gerusalemme, possiamo dire che nacque tra il 1118 e il 1120 e il suo compito principale era quello di difendere la Terra Santa, attraversata da centinaia e centinaia di pellegrini in quel momento storico; in seguito i Templari si occuparono anche della fondazione e gestione di ostelli che potessero accogliere i pellegrini durante i loro lunghi viaggi. Ragion per cui i Cavalieri si spostarono anche verso Occidente. E questo è uno dei motivi per cui giunsero in Piemonte. C’è poi un altro aspetto che risulta un po’ contraddittorio e per la verità sempre molto attuale, che potrebbe accomunare i Templari a categorie di persone che fanno parte della nostra quotidianità: avevano fatto voto di povertà, ma i loro possedimenti, frutto di ricche e sostanziose donazioni, erano davvero notevoli!

    Procediamo con ordine. I Cavalieri Templari giunsero quindi in Piemonte attratti dalla posizione strategica che la regione occupava: le strade che scendevano dai colli del Piccolo e del Gran San Bernardo (in Valle d’Aosta) e i valichi del Monginevro e del Moncenisio nella Valle di Susa confluivano tutti nella pianura piemontese, ed era da lì che molti pellegrini transitavano avendo bisogno di luoghi caldi e confortevoli che li accogliessero dopo aver attraversato i monti. Inutile forse aggiungere che i Cavalieri non erano esattamente dediti al solo benessere dei pellegrini, infatti da questi passi transitavano anche molti commercianti, che andavano giustamente controllati! Come dato storico possiamo aggiungere che attraverso questi valichi si snodava anche la Via Francigena, lungo la quale la presenza dei monaci soldati è stata documentata.

    Per inquadrare un periodo storico abbiamo principalmente due fonti: quelle che vedono i loro primi insediamenti risalire al 1170 a Susa e nel 1174 a San Giorgio Canavese, mentre il loro arrivo a Torino è datato 1203. Inoltre le province interessate anche a un solo passaggio dei Templari sono Novara, Asti, Vercelli, Chieri e Ivrea. Esiste però una seconda ipotesi, con una documentazione che smentisce in parte quanto appena detto, e vede i Cavalieri già presenti nel capoluogo piemontese dal 1156, chiamati in città dal vescovo Carlo ii verso il 1148.

    Tornando a far riferimento a quelle che erano le loro proprietà, possiamo individuare la loro presenza in diverse zone cittadine e della provincia: c’era Vanchiglia, la zona di Sassi e una porzione della collina, e pare che uno dei loro insediamenti di residenza, detto domus, fosse tra via Po, via Accademia delle Scienze e via Principe Amedeo, dunque in pieno centro per noi! Per loro era invece subito fuori la porta occidentale della cinta urbana. Ma i loro possedimenti riguardavano anche la zona provinciale: Moncalieri prima di tutte e pare anche il castello del borgo di Cavoretto, situato nella zona collinare, che precede appunto la provincia di Moncalieri… insomma, il voto di povertà era decisamente controbilanciato da considerevoli donazioni!

    Infine il presidio fortificato maggiormente noto dei Cavalieri, dal 1204 al 1314, fu il Monte dei Cappuccini. Da questa postazione potevano vegliare sul ponte in legno e sulla Via Francigena, che permetteva di oltrepassare il Po e giungere dentro le mura, e oltre a questo riscuotevano anche il pedaggio! Al di là di ulteriori battute, possiamo sicuramente immaginare che cittadini e governanti si sentissero ben tranquilli e tutelati, visto che probabilmente nessuno avrebbe mai tentato di sfidare un Templare cercando di evitare il pagamento, sia per attraversare il ponte che per navigare in quel tratto di fiume!

    Il Monte dei Cappuccini è oltretutto importante nella ricostruzione storica della presenza dei monaci soldati a Torino. Nel novembre del 1943, nel Bastiglione est, mentre si zappava un grazioso orticello, sono stati rinvenuti i resti di un uomo indicato come notabile templare, ma non solo: un cucchiaio di rame, un piatto in ceramica con le insegne dell’Ordine del Tempio e un bacile con una decorazione che rappresenta il nodo di Salomone (simbolo templare), sono stati ritrovati nella stessa area del Bastiglione nel 1922.

    Li abbiamo visti in tanti film, abbiamo letto di loro e qualcuno sarà anche fortemente affascinato dalle numerose leggende che avvolgono di mistero la Terra Santa e i culti religiosi che da lì hanno preso vita; è quindi ancor più interessante pensare che là dove beviamo una birra all’ora dell’aperitivo (Vanchiglia) o laddove osserviamo uno splendido panorama della città (Monte dei Cappuccini), abbiano vegliato i Cavalieri dell’Ordine Militare del Tempio di Gerusalemme.

    6.

    Perché a Torino è conservato un vessillo della battaglia di Lepanto?

    Un piccolo ducato, qual era allora il Ducato di Savoia, ebbe la ventura di partecipare all’epica, quanto profondamente importante per la cristianità e il mondo occidentale (e per i suoi commerci!) battaglia di Lepanto. Oggi, pensando per luoghi comuni, la stirpe dei Savoia non riporta alla nostra mente mari solcati da galee, bensì monti e verdi distese, ma allora il ducato, al cui vertice era Emanuele Filiberto di Savoia, deteneva tra i suoi possedimenti una flotta a capo della quale c’era un personaggio che definire eclettico è dir poco: Andrea Provana di Leynì. Torino e il Piemonte non parteciparono alla battaglia solo dal punto di vista pratico, ma soprattutto il grande regista e diplomatico, che mise insieme anche marinerie che mal si digerivano tra loro, fu l’unico papa piemontese salito al soglio pontificio: papa Pio v, Antonio (fra’ Michele) Ghisleri, originario della provincia di Alessandria, di Bosco Marengo (altro luogo, altra battaglia epica, ma per ora Napoleone può attendere ancora qualche secolo prima di venire a disturbare i torinesi).

    Tra le varie imprese, la più ambiziosa e riuscita di Pio v fu la costituzione della Lega Santa (sotto il supremo comando di don Giovanni D’Austria, figlio naturale dell’imperatore Carlo v). Dopo una serie di tentativi Pio v, proclamato santo nel 1712, riuscì a giungere a un accordo firmato a Roma nel maggio 1571 con potenze quali l’Impero spagnolo (con il Regno di Napoli e il Regno di Sicilia), la Repubblica di Venezia, la Repubblica di Genova, la Repubblica di Lucca, il Granducato di Toscana, il Ducato di Urbino, il Ducato di Ferrara, il Ducato di Mantova, i Cavalieri di Malta e il Ducato di Savoia che partecipò con tre galee, oltre naturalmente

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