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Promesse ingannevoli
Promesse ingannevoli
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E-book417 pagine4 ore

Promesse ingannevoli

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Info su questo ebook

Zoey Reynolds cresce in un ambiente di sfiducia e discriminazione. Con il passare degli anni la vita sembra meno amara, specialmente quando conosce Elizabeth e Albert Wolfe, che la adottano come la figlia che non hanno mai avuto. Grazie alle attenzioni della generosa coppia, Zoey fiorisce e si trasforma in una donna diversa dalla bambina che, nel corso degli anni, era passata da una famiglia adottiva all'altra. Ma la vita le riserva un'altra prova da superare. Una ancora più complicata e che si presenta con caratteristiche molto specifiche: un metro e ottantacinque di statura, sorriso sexy e fisico capace di conquistare qualsiasi donna. Peccato che Zoey non sia una donna come le altre, e che Nick voglia soltanto farla apparire come un'arrivista agli occhi dei Wolfe. Lei non gli permetterà di distruggere l'unica cosa della sua vita che veramente è valsa la pena: una famiglia.

Nick Wolfe è il proprietario di una società edile e di un impero navale con succursali in Europa. Sfruttando al massimo i vantaggi dell'essere un imprenditore di successo, con la libertà che gli offrono i suoi contatti, il suo fisico attraente e la sua intelligenza, Nick ha il mondo ai suoi piedi. Da quando ha divorziato ̶ la decisione migliore della sua vita ̶ Nick preferisce godersi il celibato con una donna diversa ad ogni occasione. Il giorno in cui si rende conto che i suoi zii lasceranno una fortuna alla ragazza che hanno praticamente raccolto dalla strada, decide di agire: non permetterà che una truffatrice con il viso di un angelo e un modo di parlare intelligente raggiri la sua famiglia. Nick è disposto a tutto, trasformando la sua idea di smascherare Zoey in una vera e propria crociata personale, al punto di prendere in considerazione la rottura di una promessa che ha fatto tempo addietro: non risposarsi mai più.

Quanto risulterà difficile, a Zoey e Nick, accettare l'idea che tra odio e amore esiste un confine molto sottile?

LinguaItaliano
Data di uscita23 nov 2019
ISBN9781393935124
Promesse ingannevoli

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    Anteprima del libro

    Promesse ingannevoli - Kristel Ralston

    Kristel Ralston

    ©Kristel Ralston 2018

    Promesse ingannevoli.

    Tutti i diritti riservati.

    I lavori della scrittrice sono protetti dai diritti d’autore, e registrati sulla piattaforma SafeCreative. La pirateria è un reato ed è punito dalla legge.

    SafeCreative: 1904150650223.

    Immagine di copertina: Karolina García Rojo ©Shutterstock.

    Traduzione: Elisabetta Savino.

    Edizione: Cinzia Novi.

    Nessuna parte di questo libro può essere riprodotta, salvata in un sistema o trasmessa in qualsiasi forma, o con qualsiasi mezzo elettronico, meccanico, fotocopia, registrazionevideo o altri metodi, senza previo ed espresso consenso della proprietaria del copyright.

    Tutti i personaggi e le circostanze di questo romanzo sono fittizi, qualsiasi attinenza con la realtà è puramente casuale.

    Sappiamo quello che siamo, ma non quello che potremmo diventare.

    -William Shakespeare.

    Indice

    CAPITOLO 1

    CAPITOLO 2

    CAPITOLO 3

    CAPITOLO 4

    CAPITOLO 5

    CAPITOLO 6

    CAPITOLO 7

    CAPITOLO 8

    CAPITOLO 9

    CAPITOLO 10

    CAPITOLO 11

    CAPITOLO 12

    CAPITOLO 13

    CAPITOLO 14

    CAPITOLO 15

    CAPITOLO 16

    CAPITOLO 17

    CAPITOLO 18

    CAPITOLO 19

    CAPITOLO 20

    CAPITOLO 21

    CAPITOLO 22

    CAPITOLO 23

    CAPITOLO 24

    CAPITOLO 25

    EPILOGO

    SULL’AUTRICE

    CAPITOLO 1

    ––––––––

    Londra.

    Zoey si congedò dall’organizzatore del galà. Ormai aveva perso il conto di tutti gli eventi che la Gioielleria Wolfe aveva patrocinato perché grandi personalità si portassero via le collezioni dei suoi squisiti gioielli. La società, diretta dai suoi genitori adottivi, aveva un’ottima reputazione nel Regno Unito e succursali in diverse principali città europee. Zoey si godeva ogni secondo che passava in fabbrica con gli orafi e i disegnatori, oltre a quelli in cui doveva riunirsi con imprenditori o agenti di celebrità, al fine di espandere il marchio JW e dargli più visibilità.

    Quel giorno era stato molto complicato. Nonostante JW fosse un marchio di lusso, la forte concorrenza iniziava a causare problemi, quando si trattava di piazzare il marchio in nuovi mercati. Zoey si era laureata in commercio internazionale e aveva anche una specializzazione in marketing. Era stata una studentessa con voti alti e, per questo, era riuscita a laurearsi con diversi mesi in anticipo. I suoi genitori adottivi – Elizabeth e Albert Wolfe – le avevano affidato, dopo la laurea, la vicepresidenza al commercio e relazioni pubbliche della società. Era un’enorme responsabilità, e lei sperava di fare un buon lavoro. La sua vita era la Gioielleria Wolfe, JW, e a stento aveva il tempo di respirare e di farsi una vita personale.

    —Signorina Reynolds— disse l’autista,—la porto a casa sua al Chelsea?

    Gli Wolfe l’avevano adottata quando aveva otto anni e, una volta raggiunta la maggiore età, le avevano chiesto se desiderava cambiare nome. Zoey aveva risposto di no, perché il suo nome era un ricordo del suo passato e di come la sua vita era cambiata del tutto. La coppia non si era offosa. L’amavano e Zoey li ricambiava. Per lei erano i suoi genitori, anche se l’idea di cercare i suoi genitori biologici era una spina nel cuore. Avrebbe avuto tante domande da fare...

    La giornata era stata molto frenetica per lei, e concluderla sorridendo a tutti – quando quello che più desiderava era starsene comoda sotto le coperte nel suo letto – risultava angosciante. Poteva andare a casa sua, e non desiderava niente più di questo, ma prima doveva passare a casa di Jensen, il suo migliore amico. Si conoscevano da quando lei aveva iniziato a far parte della famiglia Wolfe.

    —No, Kendrick, per favore portami a Notting Hill. A casa di Jensen Aveira.

    —D’accordo— disse l’autista. Le sorrise dallo specchietto retrovisore dell’automobile nera e dai vetri oscurati. —Com’è andato l’evento di oggi, signorina Reynolds?

    Zoey gli ricambiò il sorriso, spontaneamente. Kendrick era un brav’uomo, che lavorava con i Wolfe da trent’anni. Le piaceva parlare con lui, specialmente quando l’andava a prendere dopo una festa di lavoro, o all’aeroporto dopo un lungo viaggio d’affari. Era la figura più vicina a quella di un confessore. Non se ne usciva mai con un commento fuori luogo, e se lei non voleva parlare, lui capiva quando la conversazione era finita.

    —Abbastanza pesante...

    —Immagino che il giovane Aveira non sarà contento, se annulla la visita.

    Zoey sorrise, perché aveva ragione. Jensen era proprietario di diverse concessionarie di Jaguar e Porsche, ma appena aveva un buco sulla sua agenda ne approfittava sempre per parlare con lei. Era già quasi mezzanotte, e il giorno dopo poteva arrivare un’ora più tardi all’ufficio centrale della JW.

    —Lo conosce bene— disse scherzando. —Mentre guida ne approfitto per dormire un po’. La prossima volta, farò in modo che il direttore generale della società assista a questi eventi.

    Kendrick si limitò ad annuire e si diresse a Notting Hill.

    ***

    Nick guidò a tutta velocità fino al London Bridge Hospital. Suo zio Albert aveva avuto un infarto.

    Per lui la famiglia era importante, e poteva mettere da parte qualsiasi riunione se uno dei suoi zii o i suoi genitori ne avevano bisogno. Essendo figlio unico, l’idea di perdere uno solo dei suoi familiari lo colpiva molto profondamente. Era abituato alla sua indipendenza e a godersi i suoi spazi, ma il suo affetto per le persone che amava era sempre molto forte; nessuna donna era compresa in quel gruppo.

    Arrivò in astanteria e la prima reazione dell’infermiera fu di sorridergli con un luccichio speciale nello sguardo. Un luccichio che Nick conosceva alla perfezione: non gli era estraneo l’effetto che di solito aveva sulle donne. Essere presuntuoso era stata una tappa della sua adolescenza, che lui aveva sfruttato andando con tutte le ragazze che voleva, ma ormai non faceva più parte dell’uomo trentasettenne che era diventato. Se la donna gli interessava, allora prendeva qualche iniziativa; ma, se non era così, la ignorava. Non gli piaceva perdere tempo, né negli affari né con le donne, e non gli piaceva nemmeno far perdere tempo agli altri con false speranze.

    —Albert Wolfe, per favore.

    —Stanza 402— gli disse l’infermiera senza battere ciglio.

    Nick Alastair Wolfe avrebbe potuto scegliere qualsiasi professione, da semplice attore fino all’astronauta, dato che il suo quoziente intellettivo era superiore alla media, e per questo era solito annoiarsi facilmente. Al tavolo delle trattative era impressionante, e pochi riuscivano a tenergli testa quando aveva un obiettivo in mente.

    La sua società, NNW, dalle iniziali del suo nome e di quello del suo defunto fratello gemello, Nolan, si dedicava alla costruzione di stadi sportivi e locali di lusso. Assorbiva un’attività che stava per crollare e la trasformava in un nuovo marchio, con un cospicuo valore economico. Oltre alla NNW, Nick gestiva un’attività di trasporto marittimo a livello mondiale con la sua azienda Coast Industries. Entrambe le società gli davano grande soddisfazione, ma quello che gli assorbiva più tempo era il trasporto marittimo.

    Le cicatrici del suo passato lo perseguitavano e tentava di compensarle vivendo al massimo. Gli piacevano gli sport estremi. Sentiva la necessità di dimostrare di essere vivo. Non gli importava di lanciarsi col paracadute o da un ponte facendo bungee jumping o fare rafting lungo le rapide in qualche posto dimenticato da Dio. Solo una volta aveva rischiato di mettere in dubbio le sue capacità di confidare o meno su altre persone, e non pensava di ricadere nello stesso errore. Gli era costato diverse milioni di sterline e un brutto colpo al suo orgoglio, davanti ai suoi colleghi, essersi lasciato guidare da Camille, la sua ex moglie.

    —Zia?— domandò con cautela quando raggiunse la stanza.

    Elizabeth Wolfe si girò verso di lui. Con i suoi capelli corti e dorati, era l’immagine vivente di una raffinata donna inglese, sempre cauta e misurata nelle sue azioni ed elegante nel suo impeccabile modo di vestire. Dietro a questa facciata si nascondeva una persona generosa, allegra e con un acuto senso dell’umorismo, così come suo marito, Albert.

    —Ciao, tesoro,— disse Elizabeth dando un abbraccio a suo nipote —immagino che quel pettegolo di tuo padre ti abbia detto di Albert.

    La migliore amica di Elizabeth era Adelle Wolfe, la madre di Nick, che a sua volta era sposata con il fratello di Albert, Gustav.

    —Stanno a Parigi, lo sai, e mi hanno chiamato disperati. Sarà meglio che li chiami ora stesso, per dire loro che non c’è pericolo per zio Albert.

    Elizabeth sospirò e aspettò che Nick facesse la chiamata. Calmò suo cognato e poi Adelle, e i genitori del suo unico nipote promisero di prenderla con calma e di tornare nel Regno Unito per la data che avevano programmato: due settimane dopo, ma con la sola condizione che li tenesse aggiornati ogni tanto sulla salute di Albert.

    —È stato solo uno spavento— mormorò Elizabeth, osservando suo marito, con cui era sposata da quasi quarant’anni. —Deve cambiare la dieta e fare più esercizio. Stanotte rimane in osservazione. Non dovresti agitarti in questo modo, Nick, perché...

    —Mamma!

    Nick si girò con lo sguardo imbronciato verso la voce conosciuta. La figlia adottiva dei suoi zii, che per lui non era affatto parte della famiglia, esisteva per dargli il tormento. Non capiva come Albert, capace di riconoscere un truffatore a chilometri di distanza, continuasse a dare fiducia a quella ragazzina. Nick non era uno snob, ma non si fidava di quella ragazza. Non lo avrebbe fatto mai.

    Fin dal primo momento in cui aveva visto Zoey Reynolds, aveva compreso che sarebbe diventata un fastidio nella sua esistenza e che lo avrebbe fregato. Ma era sempre disposto a metterle in chiaro che non era benvenuta, che mai sarebbe stata una Wolfe e che neanche un penny della sua famiglia sarebbe finito nelle sue tasche. Non per niente aveva la migliore squadra di avvocati al suo servizio. Si sarebbe incaricato di guardare le spalle ai suoi troppo benevoli zii.

    Zoey aveva dovuto cancellare la sua riunione con Jensen, ma non le era importato perché, appena ricevuta la chiamata dall’ospedale, tutta la sua stanchezza si era trasformata in adrenalina pura all’idea che suo padre fosse in pericolo. Un infarto poteva essere fatale, ma sua madre aveva tentato di calmarla, dopo aver ricevuto la chiamata dall’ospedale. Zoey era nella lista dei contatti principali in caso di emergenza.

    Zoey aveva bisogno di tranquillità, ma vedere in quel momento Nick non l’aiutava per niente, specialmente perché lui le aveva dichiarato guerra dal giorno in cui aveva messo piede nella villa di Elizabeth e Albert, diciassette anni prima. Lo ricordava molto bene... Quello non era il luogo per pensare a sé stessa.

    —La figliol prodiga— disse Nick, in modo che solo Zoey lo sentisse, incrociando le braccia —o forse dovrei dire l’atto di carità dei miei zii.

    Cercò di non fissarsi sul vestito rosso che lei indossava e che segnava una ad una le sinuose curve di Zoey. Immaginava che i suoi viaggi di lavoro, in cui spendeva i fondi della JW, includessero torride notti di sesso con qualche accompagnatore. Ancora ricordava bene il giorno in cui l’aveva trovata sul punto di baciarsi con Gael, uno dei suoi amici del liceo. Ex amico, adesso.

    Zoey nascose abilmente quanto quelle parole la ferissero. Nick non perdeva mai occasione di ferirla in qualche modo, o di farla rimanere male con commenti che sembravano uno scherzo. Ma lei conosceva la verità celata dietro quelle sue frasi o battute. Gli aveva tenuto testa diverse volte, in modo sottile, ma la sua pazienza iniziava a esaurirsi. I circoli sociali di entrambi non li invitavano agli stessi eventi, perché l’animosità tra loro era piuttosto conosciuta.

    Albert tese la mano e prese quella di Zoey.

    —Ciao, piccola. Non preoccuparti che ho ancora molti anni per dare filo da torcere ai nuovi imprenditori.

    Zoey trattenne le lacrime. I Wolfe avevano fatto tanto per lei che mai sarebbe stata capace di ripagare quello che aveva ricevuto: educazione, un tetto sopra la testa, accettazione e amore. L’idea di perdere una sola di quelle due persone meravigliose le causava un’angoscia tremenda.

    —Papà, il dottor Lambert ti ha detto che devi riposare di più... Sei troppo sotto stress. Non devi andare in ufficio.

    —Perché gli dai questo consiglio?— intervenne Nick, avvicinandosi. —Mio zio deve controllare personalmente i suoi affari. Spero tu non intenda...

    Zoey si allontanò da Albert.

    —Ascolta Nick, a me non importa se mi ritieni un’opportunista ache dopo diciassette anni in cui ho dimostrato a tutto il mondo il contrario, o se ancora credi che io sia una ragazzina maleducata, incline a darti un pugno nelle tue parti più intime ogni volta che mi dai fastidio. Quello che davvero mi importa è che vieni ad insultarmi quando i miei genitori, i miei genitori, hanno bisogno di tranquillità. Se hai qualche problema con me, allora sarà meglio che aspetti che finisca la mia visita, così puoi rimanertene tranquillo in ospedale.

    Era arrabbiata, ma l’inconfondibile odore mascolino di Nick raggiunse le sue narici come una scia piacevole che le invase tutto l’organismo. Il cretino era molto sexy. E, come se ciò non bastasse, fisicamente somigliava molto al modello David Gandy, solo che Nick sembrava una sua versione migliorata.

    Elizabeth sospirò. Conosceva quanto Nick fosse territoriale e la rivalità che era sorta da quando Zoey era entrata in famiglia.

    —Nick... Zoey...— li guardò entrambi con affetto. —Sarà meglio che andiate a riposare. Albert sta bene e sarà dimesso domani. Vi terremo informati. D’accordo?

    —Nick, ragazzo— disse Albert dal letto. Il bell’imprenditore si avvicinò a suo zio. —Se accadesse qualcosa a me o a tua zia Elizabeth, devi promettermi che ti prenderai cura di Zoey.

    —Papà, non dire così...

    —Zio, per favore...

    Parlarono entrambi nello stesso momento, ma si bloccarono davanti allo sguardo severo di Elizabeth.

    —Fuori, voi due— intervenne la moglie di Albert, spingendo con delicatezza Nick e Zoey verso l’uscita.Poi guardò il marito: —E tu, evita il pessimismo e vedi di dormire. Nessuno morirà, qui.

    —Sì, signora...— mormorò Albert e chiuse gli occhi.

    Zoey salutò suo padre con un bacio sulla fronte, poi abbracciò sua madre. Dedicò uno sguardo ostile a Nick e andò a cercare il medico per assicurarsi che fosse tutto a posto.

    Prima di raggiungere l’auto, una mano ferma come l’acciaio la bloccò. Non aveva bisogno di girarsi per sapere di chi si trattava. Lentamente, si liberò dalla presa di Nick e lo guardò. Aspettò che lui parlasse.

    —Oggi hai appena iniziato a scoprire le tue carte. Se pensi di dedicarti al poker, è probabile che fallirai clamorosamente.

    —Non sono dell’umore per i tuoi giochetti e indovinelli. Quindi dimmi, che diavolo vuoi?

    —Se pensi che ti permetterò di fare in modo che mio zio abbandoni la sua attività per lasciarla a te, con il pretesto delle sue condizioni di salute, ti sbagli di grosso. Sei come un avvoltoio: pronta ad assaltare non appena vedi del sangue. Molto vile da parte tua iniziare ad accarezzare l’idea della catena di gioiellerie dei miei zii, ma di te non mi sorprende niente.

    Erano talmente vicini, che se un dei due faceva un solo passo in più, i loro nasi avrebbero potuto sfiorarsi, tanto quanto le labbra. L’aria fredda non bastava a mitigare il calore liquido che di solito Zoey sentiva quando Nick era vicino. Quella contraddizione la faceva impazzire, perché non esisteva altro essere umano che disprezzasse più di lui e, allo stesso tempo, i suoi ormoni sembravano perdere la bussola quando Nick era nelle vicinanze.

    —Ho avuto una giornata molto complicata. Sono stanca. Ho i piedi a pezzi grazie a questi tacchi a spillo e la faccia anchilosata dal sorridere a gente che non mi interessa avere nella mia cerchia di amicizie. Mio padre ha avuto un infarto e non ho voglia di entrare nelle tue elucubrazioni cerebrali. Quindi, di che cavolo parli?

    Lui la osservò come un’aquila fa con la sua preda. Ma, in quell’occasione, l’unico tipo di fame che aveva era la voglia di divorarle la bocca. Zittirla. Appoggiarla contro la prima superficie solida e scoprire tutto ciò che quel maledetto vestito rosso, senza spalline e corredato da uno spacco indecente che lasciava in vista una gamba perfettamente tornita, nascondeva. Dio.

    Quanto detestava ciò che quella donna rappresentava: tentazione e problemi. Erano anni che cercava di trovare una prova perché i suoi zii capissero, una volta per tutte, che Zoey voleva solo il denaro che le avrebbero lasciato alla loro morte. Ma Nick non lo avrebbe permesso.

    —Mio zio non smetterà di lavorare nella società perché tu possa appropriartene e trovare il modo di togliergli l’azienda. Hai accesso a informazioni riservate, ma questo finirà. Forse io sono molto occupato con la mia attività navale e i miei affari, ma troverò il tempo per impedire che tu e il tuo amichetto, quel tale Jensen, riusciate ad inventare qualche stratagemma per prendervi la JW. Ti è chiaro?

    «Come si permetteva di parlarle così?»

    —Sono i miei genitori e si fidano di me— disse Zoey con rabbia. —Non è l’azienda che mi interessa, ma l’eredità che loro vogliono lasciare, e io farò in modo che la JW sia ricordata dai nostri clienti come un marchio di lusso e stile del Regno Unito.— Nick strinse i pugni sui fianchi. —I miei amici hanno i loro affari, e io non farei mai niente per pregiudicare la JW. Non mi interessa il denaro.

    —Non ci credi neanche tu a una menzogna simile, Zoey. Stai aspettando di sferrare l’attacco. Sai cosa? Non ci riuscirai— l’avvertì con durezza.

    —Invece di assillarmi, dovresti pensare agli affari tuoi.

    —Una ladra, in agguato per anni, che recita la parte della bambina brava e buona, che asseconda le richieste dei miei zii per approfittarsi della loro bontà e convincerli a lasciarle il loro posto nella società, è affar mio. Tieni lontane le tue grinfie. Non obbligarmi a fare qualcosa di cui ti pentirai.

    Zoey aveva vissuto gran parte della sua infanzia prendendosi cura delle sue poche cose: una vecchia bambola di pezza, un carillon che aveva visto giorni migliori e delle matite colorate consumate, come se fossero i suoi tesori. Quegli oggetti erano per lei il ricordo che un tempo qualcuno le voleva bene, perché era l’unica cosa che ricordava di aver mai posseduto, mentre passava da una famiglia all’altra.

    Era arrivata con quegli effetti personali, quando era stata consegnata alla giustizia. Ricordava vagamente i suoi genitori e nessuno sapeva darle una risposta su dove si trovassero. Con il passare del tempo, lasciò perdere le domande e iniziò a consolarsi con quegli oggetti come se possedessero la formula per restituirle, un giorno, i suoi genitori, o almeno darle un indizio del luogo in cui poterli ritrovare. Perché l’avevano abbandonata? Perché non erano tornati a cercarla? Perché doveva andare in casa di estranei che la guardavano male e di bambini crudeli che la prendevano in giro?

    In una delle case famiglia, la figlia maggiore della coppia le aveva tolto i suoi tesori e staccato la testa alla bambola di pezza, solo perché lei si era rifiutata di condividere un cioccolatino che aveva ricevuto a scuola come premio vinto al concorso di ortografia della classe. La bambina aveva gettato tutto nella spazzatura e gli aveva dato fuoco, mentre il fratello maggiore bloccava Zoey perché non potesse impedirlo.

    Zoey imparò quel giorno che il mondo era crudele, che non poteva fidarsi di nessuno e che, piuttosto, doveva armarsi di coraggio per sopravvivere. I Wolfe le avevano insegnato umanità e amore. Doveva molto a loro, e per loro era capace di tutto, soprattutto tollerare l’insopportabile nipote. Non capiva come due persone così generose – perché lei provava grande affetto per i genitori di Nick, Adelle e Gustav – potessero avere come figlio un uomo così cinico.

    Dal giorno in cui Jensen l’aveva baciata, un terribile errore che aveva fatto capire a entrambi che potevano essere solo amici e nient’altro, e avevano avuto la sfortuna di essere sorpresi da Nick, quest’ultimo aveva dichiarato guerra a Jensen. Non per lei, ovviamente, ma perché era una delle feste di Nick e, a quanto pareva, non gli era piaciuto che qualcun altro si divertisse più di lui. La situazione era peggiorata quando, col passare degli anni, Jensen era diventato un concorrente negli investimenti immobiliari.

    —Continui a vivere nelle tue fantasie, in cui io...

    Lui la scosse con delicata fermezza.

    —Tu non sai niente delle mie fantasie, anche se— abbassò la voce —se ti interessa conoscerle di persona, io non avrei problemi a metterle in pratica con te.— La lasciò come se gli facesse schifo. —In fondo, cos’è un altro incontro di sesso fugace con una donna, per me, e un altro posto riscaldato nel letto, per te?

    Zoey sollevò la mano e gli diede uno schiaffo sulla guancia.

    Lui rimase impassibile. Se lo meritava, ma non lo avrebbe detto. Non era da lui insultare le donne in quel modo, tanto meno mostrarsi scorbutico. Tuttavia, Zoey riusciva a trasformarlo in un uomo del tutto diverso dall’uomo d’affari civile e capace di controllarsi.

    —Vai al diavolo, Nick. Forse nei miei geni non ho il tuo sangue aristocratico, ma mi sono preparata per rimettere in sesto la JW. Se sei d’accordo o no con il modo in cui si gestisce la gioielleria non è un mio problema, discutilo con mio padre. Tra l’altro, non è la tua società. Tu non te ne intendi di raffinatezze e per questo ti trovi meglio a giocare tra le barche e i viaggi in mare nella tua azienda marittima. Ora— lo guardò come se non fosse degno di pulirle la suola delle scarpe —vado a riposare, perché perdere tempo con te non è una mia priorità.

    —Te la farò pagare per quello che hai appena fatto, Zoey.

    Lei, dal sedile in pelle dell’auto, tenne lo sportello aperto.

    —Provaci.

    Sbattendo lo sportello di Zoey, l’autista mise in marcia la Mercedes, lasciando uno sbuffo di smog che si sparse nel vento freddo.

    Nick rimase lì ancora un po’, e, dopo un istante, sorrise. Aveva un piano per smascherare, una volta per tutte, quell’ipocrita truffatrice.

    CAPITOLO 2

    ZOEY

    Anni prima.

    —Giochi con me all’altalena?—chiese al bambino che stava davanti a lei.

    Erano nel cortile di alcuni uffici che Zoey non riusciva ad identificare. Non è che fosse uscita spesso a perlustrare Londra, la sua città natale, ed era la prima volta che si trovava in quel posto. Aspettava, insieme ad altri sei bambini, che la chiamassero nell’ufficio principale con l’assistente sociale assegnata al suo caso.

    —No— la guardò facendo una smorfia,—perché puzzi.

    —Non è colpa mia— mormorò con gli occhi pieni di lacrime, ma senza versarle. —La bambina di quella casa mi ha versato addosso l’aceto quando ho cercato di mettermi le sue scarpe nuove. Mi ha bagnato, ma dato che sono venuti a vedermi non ho avuto tempo di cambiarmi i vestiti...— abbassò lo sguardo. —Volevo solo uscire da lì.

    —Beh, fa schifo. Non voglio giocare con te— concluse il bambino, e se ne andò dove c’era un gruppo di ragazzini che non superavano i dieci anni.

    Dopo aver lasciato Frank e Delia, la sua ultima famiglia di accoglienza, aveva fatto innumerevoli colloqui per un’eventuale adozione. Non in modo diretto, no, ma Zoey aveva imparato a origliare alle porte, interpretare anche i minimi sussurri nella sua solitudine. E poi aveva una forte immaginazione. In seguito, i suoi sospetti erano stati confermati: l’avrebbero mandata in una nuova casa, e gli psicologi tentarono di farle credere che quella volta sarebbe stata definitiva. Le avevano assicurato che non l’avrebbero mandata in una nuova famiglia per nove mesi o due anni, che nessuno si sarebbe lamentato di lei perché quella volta sarebbe stata per sempre; che non doveva temere di proteggere i suoi effetti personali dai bambini della casa nuova, per paura che glieli rubassero o li gettassero nella spazzatura; che non doveva farsi degli amici da zero e poi, quando i suoi legami iniziavano a consolidarsi, abbandonare tutti e ricominciare daccapo.

    Lei aveva paura. Aveva sempre paura, ogni volta che conosceva una famiglia.

    Tutto era allegro, al principio. Zoey sentiva una nuova speranza che ogni volta sarebbe stata quella definitiva. Diversa. E ogni volta si sbagliava. La nuova famiglia la salutava con entusiasmo. Ma, se avevano figli, questi si mostravano distanti.

    I primi giorni di convivenza erano i più difficili, perché implicavano un adattamento a nuove regole, nuove abitudini. Anche se c’erano comunque momenti divertenti, se aveva la fortuna di trovare una stanza sua, dei giochi – usati – e biancheria pulita.

    Questa volta le sembrava diversa. Ricordava di aver vissuto in affido con cinque famiglie. Non voleva più farlo... Preferiva stare sola che dover sopportare tutto il processo di accettazione iniziale, per poi essere rifiutata.

    Ormai non le restava niente del suo passato. Solo deboli ricordi di sua madre e nessuno di suo padre. Secondo la signorina Miller, l’assistente sociale, Zoey era entrata nel sistema di adozioni quando aveva solo tre anni di età. Poi, aveva iniziato a blaterare su quanto sarebbe stato tutto meraviglioso, quel pomeriggio in cui stava per conoscere i suoi genitori definitivi, ma Zoey non le credeva. Le facevano sempre lo stesso discorso e ormai le suonava vuoto. Nessuno la voleva. Nessuno voleva occuparsi di lei. Cosa c’era che non andava in lei? Cosa?

    Durante la sua breve vita, aveva solo imparato a dire addio. A non affezionarsi alle persone. A evitare di stringere legami. Si sentiva persa e invidiava, fino al punto di sentirsi male, la famiglia che aveva i bambini che lei conosceva nelle case di accoglienza.

    Zoey era passata dall’essere una bambina vivace a essere diffidente. Aveva solo otto anni, ma possedeva più astuzia e coscienza di qualsiasi altro bambino della sua età. Non si faceva illusioni e questo era triste, data la sua età. Aveva ormai smesso di piangere la notte, in silenzio, per i suoi genitori. E aveva anche smesso di chiedere agli assistenti sociali se potevano aiutarla a trovarli.

    Era un’orfana, e solo un numero in più, nel sistema britannico.

    Il bambino che l’aveva appena disprezzata, per andare a giocare con gli altri, si era sbarazzato di lei con la stessa facilità con cui lo facevano altre persone che passavano nella vita di Zoey. Ormai doveva essere abituata a essere rifiutata. Cercava di essere ottimista, nonostante sentisse il cuore affranto a ogni sguardo indifferente degli altri bambini della sua età.

    Zoey fece mezzo giro e decise di andare all’ingresso in cui si trovavano gli uffici. C’era una panchina di legno. Con lo sguardo serio, e decisa a non dare mai più affetto o attenzione ad altre persone, aspettò con indifferenza che la presentassero alla nuova famiglia. Una delusione in più da aggiungere alla sua lista.

    Passò un bel po’ di tempo. Un’eternità, a suo giudizio. Cos’era un’eternità? Forse avrebbe dovuto chiederlo a un adulto. Questa frase di eternità l’aveva sentita da qualcuno. Non ricordava chi. Tante persone che erano passate nella sua vita, ma nessuna che le avesse lasciato un segno memorabile.

    —Zoey Jane Reynolds.

    La bambina guardò verso la porta che si era appena aperta. La signorina Miller le sorrise, e le fece cenno di avvicinarsi. Nell’ombra, dietro all’assistente sociale, a Zoey sembrò di vedere due figure, ma non riuscì ad identificarne il viso. Non le importava.

    —Sono io— replicò

    La signorina Miller si avvicinò e le accarezzò i capelli con dolcezza. Zoey, poco abituata a ricevere dimostrazioni di affetto, si allontanò, e la giovane assistente sociale lasciò cadere la mano, ma senza smettere di sorridere. Si chinò verso Zoey, appoggiando le mani sulle ginocchia per stare all’altezza degli occhi celesti della bambina, che continuava a rimanere ostinatamente seduta sulla panchina.

    —Ricordi di cosa parlavamo qualche giorno fa?

    —Che mi portavi via dalla casa di oggi perché volevano adottarmi altre persone.

    —Esatto. Ma la cosa più importante, Zoey, è che queste persone ti terranno per sempre. Che te ne pare?— domandò con un tono un po’ più alto, come se volesse che qualcun altro, oltre Zoey, la sentisse.

    La bambina guardò oltre la signorina Miller. Strinse le spalle.

    —Vogliono conoscerti. Che ne dici?

    —Puzzo.

    —Assolutamente no, Zoey.

    —La figlia degli Hunterson mi ha versato addosso l’aceto e i vestiti hanno un cattivo odore.

    —Le persone che vogliono conoscerti oggi non badano al tuo odore o al tuo aspetto. Semplicemente ti vogliono bene.

    —Non mi conoscono, come possono volermi bene?— domandò, incrociando le braccia.

    La signorina Miller fece un cenno verso la porta, una sottile negazione, e poi si sedette accanto alla bambina. Non la toccò, perché si era resa conto che Zoey rifiutava di avvicinarsi fisicamente alle persone.

    —Perché sei speciale, Zoey. Sei una bambina intelligente, bella e con una magnifica attitudine per il disegno— commentò.

    Zoey si pentì di averle fatto vedere il suo quaderno dei disegni. Era l’unica cosa che poteva fare, senza sentire che glielo avrebbero tolto. Poteva disegnare quello che voleva una e mille volte. Non importava quante volte avesse perso il suo quaderno o se qualcuno glielo avesse gettato nella spazzatura, per errore o con intenzione.

    —E?

    —Questa coppia vuole prendersi cura di te. Ho parlato loro un po’ della tua vita. Sono ansiosi di condividere con te la loro casa. Hanno una casa immensa, io l’ho visitata, e sai qual è la cosa migliore?

    Zoey la guardò con diffidenza.

    —No.

    —Hanno una piscina e un dondolo, Zoey. Solo per te! Oltre a un’immensa stanza piena di giocattoli, tutti nuovi, nuovi vestiti, e, soprattutto, ti vorranno bene per sempre!— insistette l’assistente sociale.

    Era molto addolorata nel vedere lo sguardo cinico della bambina. Lavorava da quindici anni e il caso di Zoey non era infrequente. I genitori adottivi credevano che i bambini fossero intercambiabili e non avevano idea di quanto li ferisseso, quando iniziavano a trascurarli e il governo doveva intervenire e riprenderseli. Il trauma non era per i genitori, ma per quel bambino o bambina che viveva il rifiuto. Le conseguenze psicologiche erano tremende.

    —Questo me lo dicono sempre.

    —Credi di poterli almeno conoscere?

    L’idea di tenere cose nuove solo per sé sembrò entusiasmare un po’ Zoey.

    —Voglio matite per disegnare— mormorò a voce talmente bassa che la signorina Miller la udì a stento.

    —Non ci saranno problemi, Zoey—disse con un ampio sorriso. Si alzò in piedi e le tese la mano: —Andiamo?

    La bambina esitò.

    —Chi sono?

    —Accompagnami a presentarteli. Così li conosci. Comunque ti dirò i loro nomi. Può servirti?

    Zoey fece una smorfia e annuì.

    —Lei si chiama Elizabeth e lui Albert.

    —Non so il loro cognome. Loro sanno il mio.

    La signorina Miller tese di nuovo la mano e, questa volta, Zoey la prese.

    —Sono i coniugi Wolfe.

    —Hanno altri figli?— domandò fermandosi, prima che la signorina Miller la conducesse nell’ufficio che aveva ancora la porta aperta. Attraverso il vetro, colorato di grigio tenue, della parte superiore, si intravedeva l’ombra di due persone che sembravano parlare a bassa voce.

    L’assistente sociale sapeva che questa era una domanda molto importante per Zoey. Gli archivi delle sue precedenti famiglie di affidamento segnalavano l’esistenza di uno o tre bambini, e, a quanto pareva, l’incompatibilità con loro aveva causato conflitti con Zoey. Quando la ricca famiglia Wolfe ne aveva richiesto l’adozione, il procedimento, che era di solito lento, si era velocizzato. Non solo era una coppia danarosa, ma anche molto rispettata nella società britannica. C’era la speranza che la bimba, finalmente, trovasse un posto nel mondo grazie alle possibilità e all’amore che quella coppia, che non era riuscita ad avere figli in diversi anni di matrimonio, poteva offrirle.

    —No, Zoey. Tu sarai l’unica figlia

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