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Sogni di sangue
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Sogni di sangue
E-book95 pagine1 ora

Sogni di sangue

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Info su questo ebook

Dall'autrice finalista al Premio Strega

Enoch ha tredici anni ed è costretto a portare dei tutori di metallo che lo rendono facile bersaglio delle prepotenze dei suoi coetanei. Eppure, quando si addormenta, diventa più letale di una legione di demoni.
Cosa accade mentre dorme? C’è forse un legame tra i sogni di Enoch, la sparizione del suo peggiore aguzzino e il ritrovamento di uno strano ciondolo risalente all’antico Egitto? Chissà se Dorotea, la madre di Enoch, donna algida e imperturbabile, con una passione viscerale e morbosa per le scienze occulte, conosce il suo segreto. Persino la loro casa nasconde un mistero, mentre tanti altri brulicano e strisciano lungo le fogne della città…


Lorenza Ghinelli
Nata a Cesena nel 1981, vive a Santarcangelo. Laureata in Scienze della Formazione, ha conseguito presso la Scuola Holden di Torino il Master in tecniche della narrazione. Autrice di racconti, poesie, opere teatrali e cortometraggi, ha collaborato come editor e sceneggiatrice con la Taodue. Il divoratore, pubblicato nel 2011, ha riscosso grande successo di critica e pubblico. I diritti di traduzione sono stati venduti in sette Paesi e il libro è stato opzionato per diventare un film. La colpa, anch’esso pubblicato dalla Newton Compton, è stato finalista al Premio Strega 2012.
LinguaItaliano
Data di uscita16 dic 2013
ISBN9788854160248
Sogni di sangue

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    Anteprima del libro

    Sogni di sangue - Lorenza Ghinelli

    1

    Scarafaggi

    Enoch ha tredici anni e le guance roventi, un occhio pesto e troppe ombre addosso. Dovrebbe sentire freddo mentre cammina, solo, lungo il retro di un capannone industriale a duecento metri da casa. È passata l’ora di cena e sua madre lo aspetta, una mano sulla cornetta del telefono e l’altra sul cuore. Il vento di marzo puzza ancora d’inverno, i rami sono secchi e il cielo è grigio nebbia, verticale; gli nasconde il supermercato in lontananza e persino i cassonetti, più vicini, in cui l’anno prima aveva trovato cinque gattini morti.

    Enoch si odia, in quel silenzio ovattato riesce a darsi fastidio persino da solo. Clang clang. È il suono dei suoi passi infangati, passi da subumano, scherzo della natura, sgorbio. Ora, mentre brucia di collera, febbre e sangue raggrumato, avrebbe preferito che gliele avessero tagliate, quelle gambe, piuttosto che costringerlo a camminare come Frankenstein dentro a tutori di metallo, rigidi, freddi, scomodissimi. Wall•e, lo chiamano così a scuola, Wall•e. Come il robot di un film della Pixar, il cui unico scopo, rimasto solo sulla terra, è quello di ripulire il pianeta nell’attesa che l’umanità ritorni.

    Lui il pianeta lo ripulirebbe volentieri, basterebbe annientare gli stronzi che lo chiamano Wall•e e che gli hanno fatto l’occhio nero, mandandolo al tappeto nel pantano mentre lui se ne stava semplicemente a zonzo, cercando di allenarsi a camminare come un ragazzo normale. Se potesse ripulire il pianeta, ne è certo, sarebbe un mondo migliore. Invece clang clang, continua a deambulare mentre gli occhi scintillano, occhi di bambino reso quasi pazzo. S’infila la mano in tasca e trova il suo tesoro, lo estrae chiudendoselo in pugno. Ce l’ha fatta, alla fine. In qualche modo li ha fregati lo stesso. La catenina ciondola fra le dita incrostate ed Enoch si ferma, ricordandosi di respirare.

    Perone e tibia strepitano, maltrattati dai tutori. Le gambe non devono gonfiarsi, mamma lo costringerebbe a letto, come quando cadde su un sentiero sterrato, escoriandosi. Se così non fosse scarterebbe a sinistra, oltre il cemento del capannone industriale e oltre i canneti, lungo il fiume, come un cane randagio. Ma Enoch lo sa: l’unico posto sicuro è a casa, con mamma. Mamma è la casa, mamma è sicura. Prima però vuole starsene ancora un po’ da solo, giusto il tempo di spurgare la rabbia per potere suonare alla porta, vestendo la faccia che ci si aspetta da una vittima.

    Enoch respira e finalmente sente freddo.

    I lampioni del capannone gettano luce sui tombini, se non ci si rifugiassero i topi sarebbe bello nascondersi dentro. Enoch fissa le loro grate e salta sul posto, come per cacciare i fantasmi, o per tenere distante l’esercito dei ratti. Clang.

    Enoch ha saltato. E al silenzio, ne è sicuro, si è aggiunto qualcosa. Uno sfrigolio, forse, come quando mamma getta le patatine nell’olio bollente. Ma lo sfrigolio aumenta, non sono patatine quelle che sfrigolano là sotto. Enoch fa un passo indietro, un altro clang. Decisamente non sono patatine. Il tombino vomita una massa nera, brulicante, coriacea, una macchia d’inchiostro più buia della notte, la macchia si espande, quasi liquida. Ma non è liquida e si sfalda. Enoch mette a fuoco: scarafaggi. Blatte veloci, grosse come un pollice reciso dalla mano. Zampettano verso di lui.

    «Basta!», grida Enoch. E le blatte deviano in coordinate spezzate, confuse, prive di scopo. Quel che è certo è che gli si muovono intorno ed Enoch è un’isola.

    «Andate via», sibila. I pori spalancati come i buchi neri del cielo. Gli occhi di Enoch sono spilli, osservano le blatte ricompattarsi e sparire, inghiottite dal tombino di scolo su cui piange il faro. Lo spettacolo è finito. L’orrore è appena cominciato. Enoch sente dolore alla mano da cui la catenina pende, ha stretto troppo e il metallo lo ha ferito.

    È davvero ora di tornare da mamma.

    Un clang dopo l’altro, senza voltarsi indietro.

    2

    Dorotea

    «Dove diamine sei stato?», è la prima cosa che Dorotea dice mentre accende la luce. Il lampadario è un faro, racchiude Enoch in un cerchio freddo che non riesce a illuminargli l’occhio sinistro, buio, livido. L’austerità di Dorotea si incrina.

    «Piccolo mio, che ti hanno fatto?».

    Enoch tiene il mento contro il petto e le spalle ricurve, permette a mamma di scrutarlo per bene, soffermandosi sulle incrostazioni che lo lordano e sui capelli bagnati. Mentre si morde il labbro vorrebbe scomparire come una blatta, dentro le minuscole crepe della loro grande casa che odora di vecchio, mobili tarlati e libri e vestiti inamidati e stirati, sempre. Mamma non lo serra al petto e non lo bacia. L’occhio le suggerisce che il fango sui vestiti si è seccato, gli posa le mani sulle spalle.

    «Non lo devi permettere più, hai capito?». La voce di mamma è ferma, come le rocce e i precipizi. Non vuole contraddirla. Annuisce pulendosi il moccio con la manica della giacca ormai sgualcita. La mano di mamma, rigida, frusta le sue dita pallide.

    «Esistono i fazzoletti, ricordalo». Sul suo petto castigato da un bustino stretto c’è una tasca, mamma ci affoga le dita e ne estrae uno di cotone purissimo, bianco, coi bordi in pizzo ricavati da un uso sapiente di uncinetti. È a quel punto che nota la mano di suo figlio, chiusa, piena.

    «Cos’hai?».

    Enoch le mostra il suo bottino, come un gatto che apre le fauci e posa sullo zerbino un passerotto trucidato. Sul suo palmo incrostato c’è un ciondolo dalla forma quadrata, rosicchiato dagli anni e dagli urti. Potrebbe essere di bronzo.

    «A chi l’hai preso?».

    Dorotea non si cura più del fango, ora. Prende avida il ciondolo e con occhi cupidi lo scruta, è liscio, non fosse per una minuscola incisione a forma di croce ansata che percorre col suo indice pallido. È fatto per essere aperto, il ciondolo, per contenere qualcosa. Dorotea tenta di forzarlo ma la

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