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Napoli. La fabbrica degli scandali
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E-book366 pagine4 ore

Napoli. La fabbrica degli scandali

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Info su questo ebook

Dal dramma dei rifiuti all’ex impianto di Bagnoli: una terra condannata

Acqua, aria, fuoco e terra. I quattro elementi, a Napoli e in Campania, sono contaminati dalla mano dell’uomo, spesso armata dalla criminalità organizzata. Una catastrofe silenziosa alimentata dall’omertà di quanti – politici, amministratori, funzionari, talvolta persino magistrati – sanno e scelgono di tacere, stare a guardare o, nel peggiore dei casi, contribuire al disastro.
Da trent’anni in questa parte d’Italia la questione ambientale è sinonimo di emergenza, segnata da scandali continui, in nome del potere e del profitto. E dunque la tragedia, annunciata eppure tanto a lungo ignorata, della Terra dei Fuochi, ma anche il dramma dell’ex Isochimica, la Eternit del Sud, ieri fabbrica della morte, oggi bomba di amianto piantata nel cuore di Avellino. E ancora, l’ex Italsider di Bagnoli e la valle del Sarno, non a caso ribattezzata il “pentagono della morte” per i numerosi casi di cancro e malformazioni tra gli abitanti della zona.
Un viaggio nella fabbrica degli scandali campani, raccontati attraverso documenti inediti, atti giudiziari, testimonianze esclusive. Cartoline dall’inferno in una terra violentata, dove in nome del lavoro a volte si rischia anche la vita.

Documenti inediti, atti giudiziari, testimonianze esclusive

Tra i temi trattati nel libro:

Un’emergenza da due miliardi di euro
Pentagono della morte
Camorra River
Amianto in libertà
Tante bonifiche, nessuna bonifica
Bagnoli senza giustizia
Veleni nel sottosuolo
Traffici e roghi, la lotta continua
La strage infinita. E c’è chi dice no
Gianluca De Martino
Giornalista freelance, si occupa di data journalism e inchieste sul campo. Dopo la gavetta in un quotidiano regionale in Campania, ha intrapreso una collaborazione con varie testate, tra cui «Wired», «l’Espresso», e «L’Huffington Post». Nel 2012 è stato tra gli autori di Num3r1, programma di approfondimento politico-economico in onda su Rai2. Nel 2015 è stato finalista ai Dig Data Awards con l’inchiesta Il prezzo dell’amianto, pubblicata su «Wired». Luciana Matarese
Laureata in Storia contemporanea all’Università di Napoli “Federico II”, nel 2011 ha conseguito il master in Critica giornalistica dell’Accademia “Silvio d’Amico” di Roma. Giornalista freelance formatasi nei quotidiani regionali della Campania, negli ultimi anni ha collaborato con «Europa» e «L’Huffington Post». Vive tra Roma e Sorrento.
LinguaItaliano
Data di uscita23 nov 2015
ISBN9788854186927
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    Anteprima del libro

    Napoli. La fabbrica degli scandali - Gianluca De Martino

    342

    In questa ricostruzione si fa riferimento a varie inchieste giudiziarie, alcune delle quali sono ancora in corso. Il volume ricostruisce vicende di cronaca nel massimo rispetto dei principi di verità, continenza e pertinenza. Tutte le persone coinvolte o citate a vario titolo, anche se condannate nei primi gradi di giudizio, sono da ritenersi penalmente innocenti fino a sentenza definitiva.

    Prima edizione ebook: novembre 2015

    © 2015 Newton Compton editori s.r.l.

    Roma, Casella postale 6214

    ISBN 978-88-541-8692-7

    www.newtoncompton.com

    Realizzazione a cura di Librofficina

    Progetto grafico: Sebastiano Barcaroli

    Gianluca De Martino – Luciana Matarese

    Napoli, la fabbrica degli scandali

    «È il tuo modo di vendicarti?»

    «No. È solo il mio modo di vedere le cose».

    C’era una volta in America di Sergio Leone

    A mio padre.

    A Davide.

    Questo libro

    Quello che state per leggere è un libro aperto. Aperto sul baratro di scandali in parte noti eppure per troppo tempo taciuti, e aperto perché privo di conclusione, raccontando una storia assai lontana dall’epilogo. Storia terribile: la catastrofe silenziosa di una città e di un’intera regione, destinate a soccombere sotto il peso del disastro che va avanti da oltre trent’anni, alimentato dall’omertà di quanti – politici, amministratori, funzionari, magistrati – sapevano e, per interesse, distrazione, incapacità, inerzia, hanno scelto di tacere, stare a guardare o, al più, contribuire alla rovina.

    A Napoli e in Campania, i quattro elementi – aria, acqua, fuoco e terra – sono avvelenati, contaminati dalla mano dell’uomo, spesso armata dalla criminalità organizzata, che può contare sull’indifferenza dei più e sulla connivenza di poteri in guerra sulla carta, ma in realtà alleati quando c’è da spartirsi soldi e poltrone. Anche a prezzo di intossicare la propria terra e condannare a una vita d’inferno milioni di persone.

    In Campania la questione ambientale, germogliata sulle ceneri dello scandalo della ricostruzione post-terremoto del 1980, è diventata, come quest’ultimo, sinonimo di emergenza, come quest’ultimo segnata da casi fabbricati in nome del potere e del profitto, nell’ottica del qui e ora, dunque del tutto disinteressata al futuro. Una logica che, a volte, sembra aver ispirato lo Stato stesso. Come per l’ex Isochimica, la Eternit del Sud, dove si grattava via a mani nude l’amianto dalle carrozze delle Ferrovie dello Stato. Ieri fabbrica di morte, oggi bomba d’amianto piantata nel cuore di Avellino, mai disinnescata nonostante le ripetute bonifiche.

    Ancora al palo è anche la cosiddetta Terra dei Fuochi, scandalo senza precedenti, tragedia annunciata, eppure tanto a lungo ignorata. Ancora in atto, appunto, nonostante la ribalta mediatica degli ultimi tempi e l’intervento, tardivo, del Governo.

    E poi il Sarno, il fiume più inquinato d’Europa che collega tre province della Campania, terreno di coltura, con la sua acqua avvelenata, di connivenze politico-camorristiche svelate da numerose inchieste giudiziarie, e causa scatenante di tumori e malattie mortali. Un corso d’acqua che, nonostante una spesa pubblica di circa un miliardo di euro, continua a trasportare nelle acque del Golfo di Napoli il suo carico di veleni, coperti da un velo di indifferenza di una classe politica – e in parte una popolazione – che ha barattato interessi economici con il diritto a vivere in un ambiente salubre.

    E infine Bagnoli e le altre fabbriche mortali disseminate nei dintorni di Napoli: monumenti all’indifferenza, alla malamministrazione, un presente da cimitero e un futuro molto di là da venire, come la bonifica promessa o come le cause per il risarcimento dei danni, stroncate dalla prescrizione dei reati.

    Un viaggio nella Campania di ieri e di oggi, ma intitolato a Napoli perché Napoli ne è il paradigma, di quel che accade in tutta la Regione e, a ben vedere, nel Paese: Napoli siamo noi, per citare Giorgio Bocca¹.

    Storie di vite spezzate, terre devastate, ambizioni sfrenate. E corruzione, che a Napoli e in Campania sembra diventata il quinto elemento, naturale quasi come l’acqua, l’aria, la terra e il fuoco. E poi soldi, soldi, fiumi di soldi finiti soprattutto nelle casse delle potentissime famiglie di camorra che, anche con la munnezza, continuano ad affermare il loro strapotere: basti pensare che negli ultimi tempi, per pagare lo stipendio annuo ai propri affiliati, i Casalesi hanno speso 3 milioni e 600.000 euro².

    Intanto, la Campania soffoca tra discariche di veleni, roghi di rifiuti tossici ed ecoballe. Alla fine del 2014 c’erano 5 milioni e 885.000 tonnellate di pattume prodotto dal 2001 al 2009, imballato e sparso per tutta la Regione³. Uno dei motivi per cui recentemente la Corte di giustizia dell’Unione Europea ha multato di nuovo l’Italia per 20 milioni di euro. Per smaltire le ecoballe ci vorranno almeno quindici anni. E chissà quanti ne occorreranno per risanare le terre avvelenate e completare le bonifiche, già artigliate dai clan. Le pesanti multe dall’Europa, che inevitabilmente si riverseranno ancora una volta sulle spalle dei cittadini, sono destinate ad aumentare. A marzo del 2015 sono arrivate sanzioni per gli scarichi illegali in mare. L’Italia e gli italiani, infatti, hanno trasformato i corsi d’acqua in treni su cui caricare reflui e liquami di lavorazione industriale. Destinazione: Mar Mediterraneo. Mentre ultimiamo la stesura di questo libro, ad esempio, il fiume Sarno legittima la sua fama di killer del Golfo di Napoli, trasportando un carico di rifiuti di non limpida provenienza. Mentre il Governo ha approvato il decreto che stanzia i primi 50 milioni per bonificare l’area di Bagnoli e i primi 150 milioni di euro per rimuovere le ecoballe, in particolare dalla Terra dei Fuochi⁴.

    Intanto ampi tratti di costa dalla penisola sorrentina fino al Litorale flegreo siano stati dichiarati bandiera nera, quindi non balneabili, un patrimonio turistico e ambientale inestimabile distrutto. È stata la mano dell’uomo a determinarlo. Ma sono stati gli occhi a rimanere chiusi quando si trattava di denunciare abusi e sperperi, e le orecchie delle istituzioni a restare sorde dinanzi alle grida d’allarme della popolazione.

    Perché Napoli e la Campania si sono ridotte così? Chi ha contaminato fino a questo punto la regione, una delle più fertili del Mediterraneo? Noi pensiamo che risposte chiare esistano, ma basterebbe mettere in ordine i fatti, e soprattutto che questi fatti diventino noti. Chi ha occhi per vedere deve sempre tenerli aperti e guardare, non può girarsi dall’altra parte. La speranza, l’attesa fiduciosa che le cose possano cambiare deve nutrirsi anche di consapevolezza. Bisogna sapere che questo è stato. E purtroppo ancora è.

    ¹ Giorgio Bocca, Napoli siamo noi, Feltrinelli, Milano 2006.

    ² Il dato è riferito dal procuratore aggiunto della Repubblica presso il Tribunale di Napoli, Giuseppe Borrelli, nell’audizione dinanzi la Commissione parlamentare di inchiesta sul fenomeno delle mafie e sulle altre associazioni criminali, anche straniere, martedì 16 dicembre 2014.

    ³ Lo riferisce Giovanni Romano, allora assessore all’Ecologia, tutela dell’ambiente e disinquinamento, programmazione e gestione dei rifiuti, ciclo integrato delle acque della Regione Campania, nell’audizione dinanzi la Commissione parlamentare sulle attività illecite connesse al ciclo dei rifiuti, lunedì 10 novembre 2014. Precisando: «La grande quantità di questi rifiuti imballati è stoccata in un territorio a cavallo tra Villa Literno e Giugliano: 3,8 milioni su Villa Literno e Giugliano; 2 milioni sono in giro allocati su alcuni siti, molte volte anche impropri. Ne abbiamo, per esempio, uno all’interno della caserma operativa di Persano, in provincia di Salerno, per 100.000 tonnellate, con i militari che chiaramente chiedono da diversi anni di liberarla. […] Per la verità, in questi tre anni e mezzo, siamo riusciti a smaltire 200.000 tonnellate […]».

    ⁴ Il 13 novembre 2015: http://napoli.repubblica.it/cronaca/2015/11/13/news/renzi_fondi_per_bagnoli_e_per_terra_dei_fuochi_fiducia_nella_magistratura_de_luca_governi_la_campania_-127271232/.

    Acqua

    I veleni nel Golfo

    Mare avvelenato

    Una fabbrica si può chiudere, se inquina. Un fiume o un corso d’acqua, invece, non si può fermare. Anche se avvelena, anche se distrugge i sogni di almeno tre generazioni e l’economia di un territorio con oltre tre milioni di abitanti. Nel Golfo di Napoli è in corso un disastro ambientale da quarant’anni. Siamo nella valle del fiume Sarno, definito il più inquinato d’Europa, che con il suo carico di veleni (54.000 litri di acqua al minuto e 300.000 colibatteri per decilitro, un valore trenta volte superiore al massimo consentito dalla legge⁵) ha condizionato la vita e l’economia della provincia a sud del capoluogo. È un disastro anche la gestione della depurazione nell’area che circonda la città metropolitana, con il paradosso di centinaia di migliaia di cittadini che ancora oggi, nel 2015, rischiano di ritrovarsi in mare ciò che hanno gettato nel water di casa.

    Quest’acqua è avvelenata anche dalle connivenze politico-camorristiche, dal silenzio della popolazione di fronte allo scempio che prosegue, inarrestabile, rotto dal pianto per le vittime dei tumori o dalla battaglia di coraggiose associazioni sul territorio. Fin dagli anni Sessanta, del resto, si discute di inquinamento della parte di Mar Tirreno di fronte alla provincia napoletana, dal Litorale flegreo fino alla penisola sorrentina. Uno studio del 1973, firmato da Luigi Mendia, Ettore d’Elia e Giuseppe d’Antonio, intitolato Sul problema dell’inquinamento del Golfo di Napoli, prevedeva uno scenario catastrofico in assenza di un intervento di risanamento e di realizzazione di impianti di depurazione. I tre tecnici sostenevano, infatti, che nel 2015 la popolazione della provincia di Napoli sarebbe stata di circa 3 milioni e 600.000 abitanti. Ovviamente non potevano conoscere allora gli effetti della crisi economica, della nuova emigrazione e di un calo delle nascite, fattori che hanno fatto sì che la popolazione censita nel 2015 si fermasse a 3,1 milioni. Tra le fonti di inquinamento di tutto il Litorale partenopeo, però, già si indicavano scarichi di diversa provenienza, sia di carattere domestico che industriale, sia liquidi che solidi, «sversati in quantità crescente e per la massima parte senza alcun trattamento di depurazione».

    Quarantadue anni dopo, i fallimenti della Regione Campania (e di altre Regioni) sono costati all’Italia sanzioni milionarie da parte della Commissione europea per il mancato rispetto delle norme sulla depurazione delle acque:

    Il sistema idrico, di fognature e depurazione è a un livello insostenibile per un Paese europeo, forte, industriale e geniale come il nostro, lo ha riconosciuto lo stesso governo di Matteo Renzi. Tre italiani su dieci non sono ancora allacciati a fognature o a depuratori, con quasi la maggioranza di chi vive in Sicilia, in Calabria, Campania, un 30% in Lombardia e Friuli. Siamo in ritardo sulla capacità di depurazione. Solo due aree metropolitane italiane su quattordici, quella fiorentina e torinese, hanno raggiunto una depurazione al 100%. Questa situazione ha prodotto già due condanne della Corte di Giustizia Europea e la terza procedura di infrazione viaggia spedita: porterà inesorabilmente, se non si interviene con forza e determinazione alla terza sentenza di condanna, ed alla irrogazione di pesanti sanzioni ⁶.

    Ben 108 agglomerati su 151 della Campania risultano non conformi ai dettami della direttiva comunitaria sulla depurazione.

    Nel 2016 l’Italia pagherà 476 milioni di euro l’anno fino al completamento delle opere, secondo le stime di Palazzo Chigi. Di questa somma, 21 milioni di euro di multa riguardano la Campania, 185 milioni la Sicilia, 74 la Lombardia, 66 il Friuli Venezia Giulia, 38 la Calabria. Eppure le risorse per l’adeguamento degli impianti e la realizzazione dei nuovi ci sono. Dal 2007 al 2013 tra delibere del

    CIPE

    e i fondi europei sono stati finanziati interventi per complessivi 4,3 miliardi di euro, in particolare nelle Regioni del Sud. In totale, sono oltre 1200 le opere, tra depuratori, collettori e reti fognarie. Il monitoraggio del Governo – dati aggiornati a marzo 2015 – ha verificato che appena 76 progetti sono stati completati, per un importo complessivo di 47 milioni di euro. Altri 768 sono in corso, per ulteriori 1,5 miliardi di euro, mentre il vero gap da colmare riguarda 452 interventi per 2,7 miliardi che risultano bloccati dalla burocrazia, dalla malapolitica o dalla giustizia, o non progettati.

    Per quanto concerne il tema specifico di questo libro, i punti critici in cui si sono registrati sprechi di risorse e rallentamenti sono gli impianti di depurazione che circondano la città di Napoli e il bacino idrografico del fiume Sarno. Due facce della stessa medaglia, due gruppi di opere che in quarant’anni hanno fatto registrare scandali che ancora oggi il territorio sconta, dal punto di vista economico – con le sanzioni dell’Europa – e dal punto di vista turistico-occupazionale, con il notevole danno causato dall’inquinamento alla fascia costiera e alle isole del Golfo. L’ultima denuncia è arrivata da Legambiente che, nell’ambito dell’iniziativa Goletta Verde, ha prelevato campioni di acqua in 31 punti delle coste campane dal 16 al 20 luglio 2015. Di questi, 14 hanno presentato un carico batterico elevato e 13 sono risultati «fortemente inquinati». In provincia di Napoli, i campioni sono stati prelevati in 18 aree, 7 delle quali con valori elevati di inquinanti e 6 con giudizio di mare «fortemente inquinato». È superfluo dirlo, le foci dei fiumi e le zone in prossimità di grossi agglomerati urbani, in corrispondenza di scarichi fognari, sono i punti più contaminati. A rischio non c’è soltanto la balneazione, ma la salute stessa della popolazione locale⁷.

    Nel Napoletano le aree critiche, quelle fortemente inquinate, si trovano a Pozzuoli, nei pressi di Lido di Licola, dove ha sbocco il canale omonimo; a San Giovanni a Teduccio, alla foce dell’alveo Volla; a Castellammare di Stabia alla foce del fiume Sarno e a quella del rivo San Marco, altro canale di scarico fognario; a Ercolano, alla foce del Lagno Vesuviano; e a Barano d’Ischia, alla foce del canale Olmitello. Altro punto ritenuto inquinato, secondo Legambiente, si trova sempre a Castellammare (spiaggia del lungomare Garibaldi).

    In qualche modo la giustizia si è attivata per individuare le responsabilità degli amministratori locali, accusati di gestioni allegre o inesistenti di reti fognarie. La Procura della Repubblica di Santa Maria Capua Vetere ha emesso, a gennaio 2015, avvisi di garanzia per amministratori in carica o passati di 21 Comuni della provincia di Caserta, dove il mancato adeguamento dei sistemi fognari avrebbe provocato un inquinamento di torrenti e fiumi. Secondo l’accusa mossa dalla Procura, che ha coordinato le indagini dei carabinieri del

    NOE

    e dei tecnici

    ARPAC

    e

    ASL

    , gli amministratori avrebbero mostrato scarsa attenzione per l’ambiente e quindi per la salute dei cittadini. Alcuni dei 21 municipi coinvolti nella vicenda (tra cui Riardo, famoso per le acque minerali), non hanno mai avuto un sistema di depurazione. Anche agli amministratori del Comune di Pratella è stata contestata la mancanza di un sistema di depurazione efficiente⁸.

    Ed è attiva su questo fronte investigativo anche la Procura della Repubblica di Torre Annunziata, che nel 2011 ha avviato un’indagine sul cattivo funzionamento dei sistemi fognari comunali. A coordinare un’attività fatta di raccolta di documenti, perizie e interrogatori è il sostituto procuratore Antonella Lauri, che ha messo nel mirino presunte negligenze da parte delle amministrazioni comunali di Castellammare di Stabia, Torre Annunziata, Torre del Greco, Trecase, Boscoreale, Boscotrecase, Gragnano, Portici, Scafati e Pompei⁹.

    Per leggere la responsabilità di oggi, bisogna tuttavia ricostruire la storia dell’inquinamento nel Golfo di Napoli e gli interventi errati o le negligenze della politica che l’hanno determinato. Il tema della depurazione qui venne sollevato nel 1973, quando si verificò un’epidemia di colera. Secondo il virologo Giulio Tarro, fu solo allora che «si capì il valore della prevenzione». Il degrado dei quartieri, le condizioni igieniche da Paese sottosviluppato e un sistema fognario vecchio di secoli – inadeguato alle esigenze di una crescita urbanistica fuori controllo, come raccontato da Francesco Rosi nel suo Le mani sulla città – furono visti da allora con un occhio diverso. «Quell’esperienza fu superata», ha affermato ancora il professore Tarro nel quarantennale da quell’epidemia, «ora le emergenze sono altre e per affrontarle ci vorrebbe lo stesso impegno. Penso all’inquinamento che è causa dei tumori»¹⁰.

    Quell’impegno nel tempo c’è stato, ma con risultati quasi fallimentari. Nel 1974, a un anno da quell’epidemia che causò ventiquattro morti, la Cassa del Mezzogiorno lanciò il Progetto Speciale 3 (

    PS3

    ) per il disinquinamento del Golfo di Napoli. È dal mare che, secondo i sospetti, proveniva la principale minaccia di morte. Dal vibrione delle cozze, che in quell’anno vennero sequestrate a tonnellate. E quel mare veniva avvelenato da fiumi, torrenti e scarichi diretti, che contaminavano anche i mitili. Un pericolo che i cittadini provavano a esorcizzare spremendoci sopra del limone, come accade tuttora.

    Nel 1976, nell’ambito dell’affidamento dei lavori per il collettamento e la depurazione degli scarichi civili e industriali di tutti i paesi della provincia di Napoli, di quelli dei bacini idrografici dei Regi Lagni, dell’Alveo Camaldoli, di Sarno, Irno e Picentino, furono individuati nove subsistemi. Due a Napoli, corrispondenti al bacino orientale e occidentale; uno per le isole di Ischia e Procida; uno corrispondente all’Alveo Camaldoli, uno per la penisola sorrentina e Capri, un altro per la costiera amalfitana. Infine, uno per l’area salernitana e uno per il Sarno. Il primo assegno per la realizzazione degli impianti al servizio del bacino del Sarno fu staccato dal

    CIPE

    il 10 ottobre del 1979, per un importo di 164 miliardi di lire. Tra la fine degli anni Ottanta e la metà degli anni Novanta, la competenza sul disinquinamento passa alla Regione Campania. Comincia una fase in cui l’assenza di manutenzione o adeguamento degli impianti provoca nuovi affanni al sistema e il riproporsi degli sversamenti. Nel 1995 viene dichiarato lo stato di emergenza del bacino idrografico del fiume Sarno, con la nomina del commissario di governo, il Prefetto di Napoli. Dal 2003, poi, l’incarico viene affidato all’ex comandante generale dei Carabinieri, il generale Roberto Jucci¹¹. Il commissario di ferro viene soprannominato per la sua fermezza nel procedere con i lavori e soprattutto nel fare muro, da uomo dello Stato, nei confronti di tentativi di infiltrazione negli appalti o di ingerenze della politica. Nel frattempo, dal 1996, un’altra emergenza – quella della bonifica e della tutela delle acque, che ha competenze sugli impianti di depurazione tra Napoli e Caserta – è gestita da una serie di commissari: prima i presidenti della Regione Campania, da Antonio Rastrelli ad Antonio Bassolino, passando per Andrea Losco; poi Massimo Menegozzo e Mario De Biasi, fino alla nomina di Nicola Dell’Acqua nel 2014.

    Nel 2011 il Generale Jucci rassegna le sue dimissioni, dopo aver dato un forte impulso al disinquinamento, ma non risolvendo del tutto il problema. Se ne andrà completando l’85 per cento delle opere e lasciando in eredità 150 milioni di euro non spesi. Dopo di lui un breve periodo a guida del Provveditore Interregionale per le Opere Pubbliche di Campania e Molise, Giovanni Guglielmi, chiuso all’inizio del 2012 con la revoca dello stato d’emergenza. Tutta l’attività torna di competenza della Regione Campania, che agisce attraverso l’

    ARCADIS

    , Agenzia regionale campana per la difesa del suolo, con il compito sia di concludere il piano di risanamento avviato da Jucci che di realizzare le opere idrauliche previste nel Grande Progetto Sarno. Jucci promise: «Con il completamento dei lavori ai depuratori e alle reti fognarie cittadine, dal 2012 l’acqua tornerà limpida. Credo che vedremo scorrere l’acqua con i pesci che nuotano di nuovo»¹². Un traguardo ancora molto lontano.

    Nell’estate del 2014 Legambiente Campania ha lanciato l’iniziativa Goletta del Fiume Sarno¹³, per monitorare lo stato di salute del corso d’acqua in 17 punti, da quelli meno inquinati a quelli alla foce. La fotografia scattata è pessima:

    I risultati del monitoraggio chimico-fisico confermano il grave grado di sofferenza del bacino del fiume Sarno. I tratti iniziali del fiume, anche se sottoposti a notevoli pressioni e per alcuni parametri in sofferenza, rappresentano un piccolo ma significativo territorio da salvaguardare e promuovere¹⁴.

    Il resto? Continua a vivere uno stato di sofferenza, con alti livelli di inquinamento da cromo e da escherichia coli, il primo tipico degli scarichi industriali, il secondo degli sversamenti delle fogne cittadine.

    Lo dice anche Zì Peppe che allontanarsi di appena due chilometri gli dà un colpo allo stomaco. Zì Peppe Montoro è un poeta contadino, vive con la sua famiglia nei pressi del rio Santa Marina, tra Sarno e Nocera Inferiore. Dove l’acqua puoi pure berla. Lo dice Legambiente che lì è tutta un’altra storia, lo ha detto l’

    ARPAC

    in una relazione dettagliata consegnata nel 2014 alla Commissione Igiene e Sanità del Senato. Lo dicono gli occhi di Zì Peppe quando parla del suo fiume, al quale dedica versi d’amore e impegno quotidiano nell’orto.

    Lavoro nei campi da quando ero bambino. Produco i pomodori San Marzano con i semi tramandati dai miei antenati, non con quelli creati in laboratorio. Il sapore è diverso. La produzione è poca ma di qualità. Qui scorre acqua della sorgente del fiume Sarno. È potabile, fresca, chiara. Il suo scorrere ci regala una musica gratis, è un piacere per le orecchie. E pure per gli occhi.

    Il fiume qui stupisce, sembra quasi respirare. Continua Zì Peppe: «Lo si vede dalle bollicine che crea. Poi se ci allontaniamo di due chilometri si avvelena, è pieno di immondizia e di scarichi. Devastato. Io non vado oltre queste terre, perché soffro a vederlo in queste condizioni». Quelle bollicine, qualche chilometro più a valle, sono di un colore diverso, per niente naturale. Il fiume d’un tratto diventa feroce. Quel suono diventa più aggressivo, l’odore è indescrivibile. Dopo la sorgente, il Sarno viene contaminato da tre fattori: gli scarichi del polo conciario di Solofra, che arrivano attraverso la Solofrana, un affluente insieme con il Cavaiola, che confluisce nell’Alveo Comune. Legambiente ha definito scarsa la qualità delle acque nei 4 punti di campionamento della Solofrana, in base ai Livelli di Inquinamento dai Macrodescrittori per lo stato ecologico (

    LIM

    eco). Cattiva, invece, la classificazione per la Cavaiola e l’Alveo Comune. Cattivo anche lo stato per le zone più a valle: da Scafati, Pompei, Torre Annunziata e Castellammare di Stabia, proprio dove il fiume si unisce al mare nel Golfo di Napoli, a pochi chilometri in linea d’aria dalle bellezze di Capri o della costiera sorrentina. Alla foce del Sarno il livello è considerato buono. Sufficiente in altri 2 punti a monte, tra cui a Rio Santa Marina. Mentre è scarso, ancora nel 2014, a Striano/Poggiomarino, in provincia di Napoli, e a San Marzano Sul Sarno, in provincia di Salerno¹⁵.

    Nei suoi 24 chilometri di percorso, il Sarno incontra sulla sua strada diversi agenti inquinanti. Scoprire chi e come inquina il fiume si può, analizzando i dati sulle sostanze rinvenute nell’acqua. L’

    ARPAC

    , l’Agenzia regionale per l’ambiente in Campania, ha confrontato i valori registrati anno per anno a partire dal 2003 – momento in cui l’emergenza ha vissuto la fase 2 del commissariamento con la nomina del generale Jucci – fino al 2011¹⁶. Dal 2003 al 2009 ha utilizzato un indicatore chiamato

    LIM

    , Livello di Inquinamento da Macrodescrittori, non confrontabile con il

    LIM

    eco, subentrato nella classificazione delle acque a partire dal 2010. Ebbene, nei 6 punti di campionamento del Sarno, tra il 2003 e il 2009, il livello si è mantenuto

    sistematicamente su valori molto bassi, corrispondenti a una qualità delle acque fluviali pessima, con un significativo trend di peggioramento sia nei siti di monitoraggio del tratto più a monte, a Striano e San Marzano, che in quelli del tratto più a valle, in prossimità della foce, laddove i siti di monitoraggio del tratto mediano [i due a Scafati, nda] sembrano far registrare invece, nello stesso periodo, un minimo miglioramento¹⁷.

    Nel biennio 2010-2011, il livello di qualità è rimasto tra il pessimo e lo scarso. Nelle acque che, secondo i piani del commissariato avrebbero dovuto diventare limpide entro il 2012, permangono, ad esempio, alti livelli di dimetoato, in concentrazione annua di 0,8 microgrammi/litro, superiore allo standard di qualità ambientale fissato a 0,5 microgrammi/litro. Il dimetoato è un insetticida utilizzato in agricoltura, e la zona più colpita è quella in corrispondenza del territorio di Striano.

    Il cromo totale ha superato i valori di ben quattro volte (31,8 microgrammi/litro a fronte di uno standard di 7 microgrammi/litro) nella zona di San Marzano sul Sarno, di oltre due volte a Scafati (18 microgrammi/litro). Da dove provenga il cromo è facile ipotizzarlo: è un inquinante correlabile a cicli produttivi dell’industria siderurgica, chimica e manifatturiera. Scrive ancora l’

    ARPAC

    : «In particolare può derivare dalle attività del ciclo produttivo della concia delle pelli, molto diffuso nel territorio della Piana del

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