Forse non tutti sanno che in Sicilia...
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Info su questo ebook
Un viaggio alla scoperta di leggende, storie e personaggi di una Sicilia sempre inedita
Sapevate che gli spaghetti non vengono affatto dalla Cina, visto che il primo pastificio della storia è sorto poco dopo l’anno Mille proprio in Sicilia? E che nelle catacombe di Palermo è conservata la mummia di una bambina che apre e chiude gli occhi? Queste sono solo alcune delle curiosità che scoprirete leggendo Forse non tutti sanno che in Sicilia... Tante storie quante sono le facce di questa terra, baciata dal sole ma per molti versi ancora oscura, fatta di sapori indimenticabili, di paesaggi stupefacenti e di immensa bellezza. Tante vicende poco note per svelare, ai turisti di passaggio così come a chi in Sicilia ha sempre vissuto, piccole e grandi curiosità sui luoghi, le opere d’arte, i personaggi e le tipiche ricette. Chi mette piede su quest’isola non può che innamorarsene perdutamente.
Forse non tutti sanno che in Sicilia…
…Per risolvere un caso vecchio di 500 anni sono stati chiamati degli esperti d’oltreoceano
…Si trova l’albero più grande e più antico d’Europa
…William Shakespeare era di Messina
…In una puntata dei Simpson c’è un omaggio a Nuovo Cinema Paradiso
…Lo zibibbo è patrimonio dell’Unesco
…I nati il 25 gennaio e il 29 giugno hanno il potere di guarire i morsi dei serpenti
…John Turturro ha fatto il puparo
…In un dolce è racchiusa tutta la storia dell’isola
Clara Serretta
È nata a Palermo nel 1983 e quando se ne allontana si porta sempre dietro il rumore del mare e il profumo del gelsomino. Lavora a Roma, occupandosi di libri: Forse non tutti sanno che in Sicilia... è il primo che firma come autrice.
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Anteprima del libro
Forse non tutti sanno che in Sicilia... - Clara Serretta
360
Prima edizione ebook: novembre 2015
© 2015 Newton Compton editori s.r.l.
Roma, Casella postale 6214
ISBN 978-88-541-8775-7
www.newtoncompton.com
Realizzazione a cura di Librofficina
Realizzazione: Luca Morandi
Illustrazioni: © Fabio Piacentini
Clara Serretta
Forse non tutti sanno che in Sicilia…
Curiosità, storie inedite, misteri, aneddoti storici e luoghi sconosciuti di un’isola dalla cultura millenaria
A Filiberto
A pensare a certe complessità del nostro temperamento, c’è da domandarsi talvolta se in fondo i siciliani non vadano classificati in due categorie: i siciliani di scoglio e i siciliani di mare aperto. I primi potrebbero essere quelli che restano quasi abbarbicati ai luoghi natali e alle tradizioni, fatti dalle nostre dure esperienze di popolo scontrosi e diffidenti, e a ogni modo morbosamente gelosi di tutto ciò che è siciliano, compreso ciò che viene rimproverato. Siciliani di mare aperto potrebbero essere quelli, molto meno numerosi, che come un’inquietudine del sangue si portano dentro il senso dell’evasione e dell’avventura, e tendono e si spingono al largo, con una eccezionale capacità di adattamento ai posti più vari e più lontani della terra dove spesso finiscono col costruire il proprio destino. Ma come accade che spesso a prendere il largo sono anche i siciliani di scoglio, costretti ad emigrare per le vie del mondo in cerca di un lavoro e di un pane che qui gli sono mancati e si muovono fuori come esuli che sognano solo di tornare e morire accanto al proprio scoglio, così non si può dire che i siciliani di mare aperto siano meno siciliani degli altri o meno legati alla propria terra. Solo che essi portano la Sicilia come un pezzo di terra e di cielo che amano ripiantare altrove, in un clima diverso, lontano dalle difficoltà e dai problemi che hanno sempre reso drammatica la nostra esistenza di popolo.
Vittorio Nisticò
Introduzione
Scrivere un libro sulla Sicilia è come scoperchiare un vaso di Pandora: le idee, le suggestioni, gli spunti, le persone e i personaggi ti perseguitano pure di notte. Ti senti in dovere di esaminarli tutti, di sviscerarli, di raccogliere tutte le anomalie, le stranezze e le assurdità di una terra che dal canto suo sembra generarne senza sosta. Questa, quindi, è una giustificazione rivolta a tutti coloro che penseranno: Ma come, e della pasta con i tenerumi non parli? E di quella con le sarde? E di Goliarda Sapienza? E delle maccalube? E del commissario Montalbano? Hai menzionato sant’Agata e non santa Rosalia, come ti sei permessa!
. Il fatto è che la Sicilia potrebbe rifornire di aneddoti la rubrica della «Settimana Enigmistica» a cui è ispirato il titolo di questo libro fino alla fine dei tempi, senza per questo smascherare tutti i propri arcani.
Tra l’altro, come ben sanno tutti coloro che con la Sicilia a un certo punto della propria vita si sono ritrovati ad avere a che fare, la fine dei tempi nemmeno basterebbe. Non è una questione di anni, secoli o millenni: in questa terra esistono tradizioni, leggende, abitudini alimentari, miti che un perché proprio non ce l’hanno, a prescindere da quanto si scavi. I siciliani questo lo sanno e ai loro miti ci sono anche affezionati, quindi guai a sfatarglieli (sempre ammesso che ci si riesca).
Una volta scartati i veri misteri
, quelli le cui radici sono sepolte così in profondità che è meglio che restino tali, per scegliere dall’inesauribile mucchio le storie che mi accingo a raccontarvi è bastato prestare ascolto alle conversazioni da bar, aguzzare le orecchie, puntare lo sguardo un po’ più a fondo, chiedersi una volta di più perché
rispetto a oggetti, tradizioni e luoghi che mi sono passati mille e una volta davanti agli occhi, ma che mai avevo osservato davvero. E adesso che ho cominciato non smetterei più di farlo.
La curiosità, così come il cervello, è un muscolo che va tenuto in esercizio. Un esercizio però nient’affatto faticoso, anzi capace di generare assuefazione e molto, moltissimo entusiasmo. Perché quando ci si accorge che ogni cosa, ogni strada, ogni pietra ha una sua storia e una sua ragion d’essere è difficile smettere di interrogarsi.
Addentrarsi nelle pieghe della propria terra è un’esperienza non solo molto intensa e persino un po’ catartica, ma anche divertente e piena di colpi scena. Se volete, vi accompagno.
Storia e geografia
165507.jpg1
…Il terremoto del 1908 ha modificato il DNA dei messinesi
Il terremoto che alle 5:20 del 28 dicembre 1908, per 37 secondi, ha fatto tremare Messina e Reggio Calabria ha ucciso la metà della popolazione della città siciliana e un terzo di quella del capoluogo calabrese e raso al suolo gran parte di entrambe. A Messina crollò il 90 percento dei palazzi: quel poco che la scossa (dodicesimo grado della scala Mercalli, 7,2 della scala Richter) aveva lasciato in piedi fu subito spazzato via da tre onde alte più di dodici metri, un vero e proprio tsunami. Fu una catastrofe naturale di enormi proporzioni: la più grande che si sia mai verificata sul territorio italiano a memoria d’uomo e una delle più gravi di tutta Europa quanto a numero di vittime. A perdere la vita sotto le macerie sono state infatti tra le 90.000 e le 120.000 persone, che però forse sarebbero potute essere anche di più se l’istinto di sopravvivenza non ci avesse messo lo zampino, alterando il corredo genetico dei sopravvissuti per proteggerli dalle conseguenze del sisma. Questa almeno è la teoria di un team di esperti genetisti siciliani: a seguito del movimento tellurico, si sarebbe sprigionata dalla terra una grande quantità di radon, che avrebbe innescato una mutazione del
DNA
dei superstiti, rendendoli immuni agli effetti nocivi del gas (che costituisce la seconda causa di tumore ai polmoni dopo il fumo).
Artefici dell’ipotesi sono due ricercatori della Banca del cordone ombelicale di Sciacca, Calogero Ciaccio e Michela Gesù, i quali hanno notato che nel
DNA
degli abitanti della zona dello Stretto l’antigene
DR
11 è più sviluppato che altrove. In particolare nell’area tra Messina e Reggio, dove è presente nel corredo genetico del 54 percento della popolazione, per poi diminuire progressivamente man mano che ci si allontana da quello che guarda caso è anche l’epicentro del terremoto del 1908 (la molecola
DR
11 è infatti presente nel
DNA
del 44 percento degli abitanti di Caltanissetta e Vibo Valentia e in quello del 38 percento dei trapanesi).
Insomma, una distribuzione davvero insolita, che viola la legge di Hardy-Weinberg, secondo cui in una popolazione in cui gli accoppiamenti avvengono a caso le caratteristiche genetiche dovrebbero essere omogenee. In questo caso non solo non è così, ma per di più sembra che la mutazione coincida con un’area specifica, nella quale però non si sono registrati eventi migratori, invasioni, epidemie tali da giustificare l’anomalia.
165493.jpgIl palazzo del Viceré a Messina, incisione settecentesca.
E allora? La teoria di Ciaccio e Gesù è che il
DNA
della popolazione sia mutato per far fronte all’elevata emissione di radon seguita al terremoto. La connessione tra questo gas radioattivo e gli eventi sismici è tuttora oggetto di studio: pare infatti che l’aumento della concentrazione di radon nell’aria possa essere considerato un avvisatore sismico
, un elemento cioè in grado di predire i terremoti, ovvero le catastrofi naturali imprevedibili per antonomasia. Certo, c’è ancora tanto da chiarire e si tratta di studi validi soprattutto sul lungo periodo, ma intanto la correlazione esiste.
«Tenuto conto che non ci sono effetti di un sisma in grado di interagire in modo diretto con la salute umana (se non ferite, paura) si ipotizza che la causa scatenante della mutazione genetica osservata non sia il terremoto in sé, ma qualcosa che ad un forte evento sismico possa essere legata», scrivono i ricercatori. Insomma, proprio per tutelarsi da una possibile contaminazione da radon, il
DNA
dei messinesi sarebbe mutato, sviluppando il famoso antigene
DR
11. Ecco perché a Messina, nonostante l’elevata concentrazione di radon, c’è una bassa incidenza di tumore ai polmoni.
«Se attraverso l’analisi del
DNA
di soggetti morti prima del terremoto si dovesse accertare che l’antigene
DR
11 non era così diffusamente presente, il ruolo della sismogenesi assumerebbe significati più ampi di quanto finora conosciuto e indagato, incidendo direttamente nei rapporti tra l’uomo e l’ambiente», proseguono gli esperti, allargando così, e di molto, il respiro della loro indagine. Se la loro teoria trovasse conferma, avremmo insomma la prova del nove che quello del 1908 è stato anche un terremoto genetico
. Sarebbe infatti legittimo a questo punto trarre delle conclusioni rivoluzionarie e in netto contrasto con la teoria evoluzionistica, secondo cui le mutazioni delle specie sono spontanee e, solo se vantaggiose, risultano vincenti: l’evoluzione del corredo genetico verificatasi a Messina nel 1908 non avrebbe avuto niente di casuale, ma sarebbe stata una risposta del nostro
DNA
a un cambiamento delle condizioni esterne. I darwinisti più convinti si sentono già mancare la terra sotto i piedi.
157438.jpg157437.jpg2
…si disputa la gara automobilistica più antica del mondo
La Targa Florio esiste praticamente da quando sono state inventate le macchine. A creare la competizione fu nel 1906 Vincenzo Florio, all’epoca ventottenne, rampollo di una delle più ricche e importanti famiglie siciliane. Figlio di Ignazio senior e Giovanna d’Ondes Trigona (e fratello minore di un altro Ignazio, erede della dinastia, e di Giulia), Vincenzo era un grande amante del nuovo mezzo di locomozione appena entrato in commercio. Per seguire la sua passione decise di finanziare e organizzare una gara, la Coppa Florio, che si tenne a Brescia nel 1905. Dopo aver fatto tesoro dell’esperienza maturata nel Nord Italia, l’anno successivo tornò in Sicilia, e creò una manifestazione simile a casa sua. Ad aiutarlo fu un suo amico francese, Henri Desgrange, direttore di una rivista specializzata, «L’Auto».
Insieme disegnarono il percorso della Targa Florio, che si snodava (e si snoda tuttora) lungo le Madonie per circa centocinquanta chilometri attraversando i paesi di Cerda, Caltavuturo, Castellana, Petralia Sottana, Castelbuono, Collesano e Campofelice, nei quali la gente all’epoca andava a dorso di mulo: d’altronde stiamo parlando degli inizi del Novecento e in Italia circolavano appena tremila macchine, di cui cinquecento in Sicilia. Preziosi nel delineare il tracciato furono i consigli del Club Alpino Siciliano e del conte d’Isnello, che ben conosceva quelle strade: l’idea era quella di creare una competizione durante la quale i partecipanti si sarebbero trovati ad affrontare e gestire tutti gli ostacoli e gli svantaggi tipici di qualsiasi viaggio in automobile. Proprio queste difficoltà, inserite appositamente nel percorso, resero quello della Targa Florio un percorso tanto affascinante quanto famigerato sin dagli albori. La prima gara venne disputata il 6 maggio nel 1906 e vi presero parte dieci autovetture, che dovevano percorrere il tracciato per tre volte, per un totale 444 chilometri. La vittoria spettò ad Alessandro Cagno, che gareggiava a bordo di una Itala: fu però una gara falsata, perché alcuni concorrenti non riuscirono a far imbarcare le loro macchine nel continente, a causa di uno sciopero, e dunque non poterono presentarsi al via, e perché due piloti francesi a un rifornimento caricarono acqua al posto della benzina e furono quindi costretti a ritirarsi. Il successo di pubblico fu enorme: «Alle 5:30», scrive il «Giornale di Sicilia», «con mezzora di ritardo, arriva il treno da Palermo, riversando sul prato migliaia di persone, fra cui le più note famiglie palermitane». A consegnare il primo premio al vincitore fu Donna Franca¹, la moglie di Ignazio, il fratello di Vincenzo: si trattava di un bassorilievo in oro massiccio che Rene Lalique, un famosissimo orafo francese, aveva creato apposta per l’occasione, in stile art nouveau.
La Targa Florio divenne subito un evento sportivo e mondano di grande rilievo. Forse su iniziativa dello stesso Vincenzo, nacque contestualmente una rivista, «Rapiditas», che tramite illustrazioni e fotografie intendeva celebrare la manifestazione. Lo si ha ben chiaro sin dall’editoriale del primo numero, in cui si legge: «La rapidità è il carattere tipico della vita moderna; nessun altro simbolo potrebbe più efficacemente riassumere il fervore di pensiero e di azione che impronta l’epoca nostra». Della pubblicazione uscirono nove numeri, senza una periodicità regolare, fino al 1930: i testi erano tradotti in inglese, francese e tedesco, per sottolinearne il respiro internazionale.
Proprio per via della dimensione cosmopolita che sin dall’inizio assunse la Targa, tuttora nelle corse automobilistiche di tutto il mondo nessuna vettura ha più il numero tredici: l’origine di questa usanza risale a un incidente verificatosi nel corso dell’edizione del 1926, in cui perse la vita il conte Giulio Masetti, che andò a schiantarsi con una Delage contro un terrapieno, nei pressi di Sclafani Bagni. Si stava disputando la diciassettesima Targa Florio e Masetti gareggiava appunto a bordo della vettura numero tredici.
targaflorio190601.jpgUna delle vetture partecipanti alla prima Targa Florio, nel 1906.
Sull’onda del successo riscosso dalla manifestazione, poco prima dell’incidente di Masetti, nel 1920, Vincenzo Florio aveva deciso di costruire Floriopoli, nei pressi di Cerda, vicino Palermo: una specie di quartier generale della Targa, presso il quale c’erano box, tribune, locali per la stampa. Le strutture rimasero funzionanti fino al 1977, ultimo anno del loro utilizzo, poi sono state abbandonate per quasi quarant’anni: solo recentemente è stato avviato un processo di riqualifica che prevede la costituzione di un museo, il Floriopoli Museum, e la trasformazione del sito in un parco tematico.
Il 1977 è stato anche l’ultimo anno in cui si è disputata la Targa Florio propriamente detta. Nel 1978 infatti, per ragioni di sicurezza, quella che era tradizionalmente una gara di regolarità (ovvero una competizione in cui vinceva chi manteneva una media oraria più vicina a quella prestabilita) divenne un rally (ovvero un misto tra una gara di regolarità e una gara di velocità, in cui a vincere è invece chi conclude nel minor tempo possibile) ed entrò a far parte del Campionato Rally italiano ed europeo, nonché di altre minori competizioni locali. Dal 2006, il Rally Targa Florio è stato inserito nell’elenco dei più importanti eventi a livello mondiale della Fédération Internationale de l’Automobile.
Impossibile concludere un discorso sulla Targa Florio senza fare riferimento al più osannato dei suoi eroi: Nino Vaccarella. Nato a Collesano, una delle tappe del circuito, fu l’idolo dei tifosi siciliani e vinse la competizione nelle edizioni del 1965, del 1971 e del 1975. Nel 1962 e nel 1970 si qualificò terzo e nel 1963 venne squalificato perché sprovvisto di patente, che gli era stata ritirata due anni prima a causa di un incidente…
3
…per risolvere un caso vecchio di 500 anni sono stati chiamati degli esperti d’oltreoceano
Un caso non può considerarsi chiuso finché il colpevole non viene assicurato alla giustizia, poco importa se il crimine in questione è stato commesso mezzo secolo fa, nel 1563. L’omicidio di cui stiamo parlando è stato tramandato come il più clamoroso caso di delitto d’onore: la vittima si chiamava Laura Lanza di Trabia, ma è meglio nota presso il grande pubblico come la baronessa di Carini. Il luogo del delitto, il castello baronale, dove viveva e dove sarebbe stata colta in flagrante con il suo amante, Ludovico Vernagallo. Il presunto colpevole, il padre di lei, Cesare Lanza, barone di Trabia e conte di Mussomeli. Complice, ovviamente, il marito cornuto, Vincenzo La Grua. La giustizia spagnola comunque non ritenne opportuno approfondire l’indagine, per cui nessuno venne punito per l’omicidio. Fin qui i fatti. Poi subentra la leggenda: pare che la baronessa, ferita a morte, si portò una mano al petto e appoggiò la mano sporca di sangue sul muro, lasciando un’indelebile impronta rossa.
I punti non chiari in questo giallo cinquecentesco, che quanto a successo
di pubblico non ha niente da invidiare ad altre storie simili ma decisamente più moderne, sono ancora molti: prima di tutto, il ruolo del barone di Carini, il marito di Laura. Potrebbe essere infatti costui il vero autore del misfatto: il suocero si sarebbe affrettato a coprirlo, autodenunciandosi presso il re di Spagna, Filippo
II
, in una lettera tuttora conservata presso l’archivio della chiesa madre di Carini, che recita così: «Sacra Catholica Real Maestà, don Cesare Lanza, conte di Mussomeli, fa intendere a Vostra Maestà come essendo andato al castello di Carini a videre la baronessa di Carini, sua figlia, come era suo costume, trovò il barone di Carini, suo genero, molto alterato perché avia trovato in mismo istante nella sua camera Ludovico Vernagallo suo innamorato con la detta baronessa, onde detto esponente mosso da iuxsto sdegno in compagnia di detto barone andorno e trovorno detti baronessa et suo amante nella ditta camera serrati insieme et cussì subito in quello stanti foro ambodoi ammazzati». Ma perché mai autodenunciarsi di un crimine tanto orribile? Semplice, per garantire l’impunità al genero. Secondo la legge del tempo, infatti, al padre dell’adultera era consentito uccidere sia la figlia che l’amante, mentre il marito poteva uccidere solo l’amante. In effetti, questa ricostruzione combacerebbe anche con le tempistiche del delitto, poiché Cesare Lanza era a Palermo e a quell’epoca per coprire i trenta chilometri che separano la città da Carini ci volevano circa sei ore: insomma, don Cesare non avrebbe potuto sorprendere proprio nessuno. In più Ludovico Vernagallo era un amico di famiglia, per cui la sua presenza al castello non sarebbe stata affatto anomala; tra l’altro la relazione tra lui e Laura andava avanti da quattordici anni e i due avrebbero avuto insieme sei figli, con il beneplacito di La Grua, che invece era sterile. E allora perché Laura e il povero Ludovico sono stati uccisi, se la loro storia era cosa nota e tacitamente accettata? Ecco un altro punto oscuro, ovvero il movente.
Quello della baronessa di Carini è stato sempre considerato un omicidio passionale, tuttavia, secondo il filologo Alberto Varvaro, che ha esaminato la vicenda nel suo saggio Adultèri, delitti e filologia, siamo davanti a un clamoroso esempio di falso storico. Varvaro, basandosi su carte e documenti d’archivio, sostiene che non si trattò affatto di un delitto d’onore: Cesare Lanza doveva dei soldi a Vernagallo e, non avendo la possibilità di restituirglieli, decise di ucciderlo. A essere incaricato per primo di perpetrare il delitto fu il barone di Carini, ma costui oltre a essere un marito inadeguato era anche un cattivo tiratore (così lo definisce Varvaro) e mancò l’obiettivo. Intervenne pertanto don Cesare in persona, che fece fuori il creditore a colpi di archibugio. E con l’occasione ammazzò pure la figlia, per coprire la faccenda. L’origine del movente sentimentale, a detta di Varvaro, è da far risalire a un poemetto in dialetto siciliano apparso nel 1870 (e poi ampiamente aggiornato e corretto nel 1873), scritto da Salvatore Salomone Marino, un medico di Borgetto appassionato di tradizioni popolari. Il testo ebbe sin dalla sua pubblicazione eco larghissima e lunghissima, tanto che fu inserito da Pasolini nel suo Canzoniere italiano del 1955. L’opera di Marino manca però di qualsiasi rigore filologico: è piuttosto una specie di copia e incolla delle quasi quattrocento versioni della storia cui l’autore ebbe modo di attingere, fatto apposta per soddisfare il gusto dell’epoca in cui è stato pubblicato.
165459.jpgNobile siciliana in abito da sera. Incisione tratta da Habiti antichi et moderni di tutto il mondo di Cesare Vecellio (1590).
A interessarsi a questa sanguinosa vicenda, a cinquecento anni di distanza non è stato solo il mondo della filologia, ma anche quello dei criminologi forensi. Nel 2010 è infatti intervenuta