Scopri milioni di eBook, audiolibri e tanto altro ancora con una prova gratuita

Solo $11.99/mese al termine del periodo di prova. Cancella quando vuoi.

Una romantica estate nella casa dei ricordi
Una romantica estate nella casa dei ricordi
Una romantica estate nella casa dei ricordi
E-book455 pagine6 ore

Una romantica estate nella casa dei ricordi

Valutazione: 0 su 5 stelle

()

Leggi anteprima

Info su questo ebook

«Questo libro è un incanto, ti conduce in un posto dove vorresti stare per sempre.»

La piccola locanda che ha fatto innamorare milioni di lettori

Un bel sole estivo, tanto relax, un buon bicchiere di vino e un fidanzato meraviglioso: che cosa si può volere di più? Emmy Jamieson ama la sua nuova vita tra le colline e i girasoli, coccolata dalla bellezza della campagna francese. La Cour des Roses, poi, la locanda costruita in pietra bianca, è una continua fonte di entusiasmo e vivacità, alimentata da Alain, il suo fidanzato dagli occhi color caramello, di cui Emmy è più innamorata che mai. Lei e Alain stanno per sposarsi e le cose non potrebbero andare meglio. Neanche l’uragano scatenato da sua madre in modalità wedding planner può scalfire il suo buonumore. E adesso che tutti i campanelli d’allarme provenienti dalle ex fidanzate di Alain si sono acquietati, Emmy si sente finalmente tranquilla. Del resto, il padrone della pensione e tutti gli ospiti si stanno assicurando che niente possa interferire con la sua felicità. Ma proprio quando il matrimonio è alle porte, un segreto del passato si prepara a sconvolgere tutti i piani. Le idilliache nozze francesi andranno come previsto o Emmy si ritroverà a fuggire di nuovo in Inghilterra con il cuore spezzato?

Nella locanda Cour des Roses questa estate è previsto un sole splendente

«Come in una sorta di incantesimo il lettore viene reso partecipe delle vicende in modo pieno. Le emozioni dei vari personaggi diventano le emozioni di chi legge.»
Libri perduti

«Un romanzo elegante e raffinato, i personaggi sono costruiti sapientemente con una particolare attenzione per quelli secondari. C’è una bellissima ambientazione ricca di colori e profumi che stimolano tantissime immagini.»
Mille splendidi libri

«L’autrice riesce a trascinarti e a farti perdere tra le righe di queste pagine, coinvolgendoti anche emotivamente, sotto tutti i punti di vista.»
Lo scrigno delle letture
Helen Pollard
Scrive sin da quando era bambina e da sempre preferisce le storie dei romanzi alla vita reale. Pensa che la chiave per un libro di successo sia creare buoni personaggi. Le piace tratteggiarli, attraverso la sua scrittura, in un modo ironico e che li renda cari al lettore. Helen è membro della Romantic Novelists’ Association e della Society of Authors. La Newton Compton ha pubblicato La piccola casa dei ricordi perduti e Ritorno alla casa dei ricordi. Una romantica estate nella casa dei ricordi è il terzo capitolo della Serie dei ricordi perduti.
LinguaItaliano
Data di uscita21 mar 2018
ISBN9788822720658
Una romantica estate nella casa dei ricordi

Correlato a Una romantica estate nella casa dei ricordi

Titoli di questa serie (100)

Visualizza altri

Ebook correlati

Narrativa romantica contemporanea per voi

Visualizza altri

Articoli correlati

Categorie correlate

Recensioni su Una romantica estate nella casa dei ricordi

Valutazione: 0 su 5 stelle
0 valutazioni

0 valutazioni0 recensioni

Cosa ne pensi?

Tocca per valutare

La recensione deve contenere almeno 10 parole

    Anteprima del libro

    Una romantica estate nella casa dei ricordi - Helen Pollard

    Uno

    I colpi alla porta della pensione mi fecero pensare a un ariete da sfondamento.

    Dopo essermi tirata giù dal letto con tanto di alluce sbattuto e imprecazioni al seguito, lanciai un’occhiata all’orologio sul cassettone. Le cinque e mezzo del mattino. Ma che…?!.

    Frugai nel disordine del primo cassetto in cerca della chiave con cui aprire la porta che collegava i miei alloggi a quelli di Rupert – da usare soltanto in caso di emergenza. Tuttavia, quando cominciò un nuovo assalto, mi arresi, afferrai una felpa e uscì dall’ingresso indipendente per fare il giro attorno alla casa con passo caracollante. Credetemi, la ghiaia non è la superficie ideale su cui camminare a piedi nudi. Sarei tornata indietro a prendere le infradito, ma non vedevo l’ora di porre fine a tanta violenza contro la porta.

    Quando girai l’angolo e scoprii che il baccano era provocato da un gendarme, mi venne un colpo.

    Cosa c’era che non andava? Si era fatto male qualcuno? La sera prima avevo soltanto immaginato di aver sentito tornare Rupert dalla Gran Bretagna? Era successo qualcosa con quella sciagurata della sua ex moglie? Aveva fatto un incidente?

    Diedi un’occhiata in cortile e, vedendo la sua station wagon, emisi un sospiro di sollievo, anche se non capivo perché ci fosse stato buttato sopra un telone.

    I pugni del gendarme erano sollevati, pronti a bussare di nuovo.

    «Arrêtez, s’il vous plait!». Gesticolai come una matta e, tra un «Ahi!» e un «Ohi!», proseguii nella mia penosa avanzata fino a raggiungere la superficie meravigliosamente liscia dello scalino davanti alla porta.

    «Posso aiutarla?», domandai nel mio francese migliore. Malgrado vivessi in Francia da quasi un anno, avevo ben poca esperienza con i gendarmes, anche se davo per scontato che fosse meglio evitare di fare i furbi con le autorità.

    Era un uomo di mezz’età, corpulento, con un’espressione impassibile che cominciò a tramutarsi in un muso lungo via via che esaminava con attenzione il mio pigiama a maniche corte, i capelli scompigliati e i piedi nudi. Dopodiché lanciò uno sguardo verso l’angolo dal quale avevo fatto la mia comparsa. Si stava indubbiamente chiedendo perché non avessi aperto la porta come una persona normale, risparmiando tante sofferenze ai miei poveri piedi.

    A quell’ora del mattino e con i livelli di caffeina assunti pari a zero, la mia conoscenza della lingua non mi consentiva di fornirgli una spiegazione.

    Cominciò a interrogarmi in francese, parlando in fretta. Chi ero, perché mi trovavo lì, conoscevo Monsieur Rupert Hunter e, se sì, dov’era?

    Allarmata, stavo provando a formulare una risposta coerente quando, grazie al cielo, la porta si aprì e Rupert si affacciò, traendomi in salvo.

    Aveva un’aria trasandata: la barba non rasata, i capelli argentati e ondulati tutti scompigliati, una vestaglia infilata alla meno peggio sopra un paio di boxer.

    «Emmy. Cosa sta succedendo?».

    Il gendarme non mi diede il tempo di rispondere, ma ripeté l’interrogatorio, e quando Rupert gli confermò di essere la parte chiamata in causa, la diatriba si protrasse ulteriormente.

    Rupert sembrava sconvolto, ma a un certo punto vidi che ebbe un’illuminazione. Grazie al cielo, aveva capito qual era il problema. Dal canto mio, l’unica cosa che ero riuscita a carpire era che qualcuno o qualcosa era stato abandonné.

    Rupert invitò il visitatore a entrare in casa, lo condusse in cucina e si mise ad armeggiare con la sua modernissima macchinetta del caffè per rabbonirlo con un espresso concentrato.

    Funzionò. Il paladino della giustizia si sciolse un pochino di più a ogni sorso, e Rupert si lanciò in una lunga spiegazione, qualcosa a proposito dell’auto e delle gomme. Dato che ero intenzionata a ottenere la versione in inglese in tempi molto brevi, decisi di non mettere a dura prova il cervello cercando di seguire il discorso. Mentre continuava a parlare, Rupert si appoggiò di peso – anche se ultimamente era dimagrito – al ripiano della cucina e, di tanto in tanto, quando cercava una giustificazione con cui placare gli animi piuttosto che infiammarli, si strofinava la barbetta grigia.

    All’apparenza soddisfatto, il nostro amico in uniforme si congedò con poche parole severe.

    Mi scagliai contro Rupert. «Cos’è questa storia? Perché ieri sera sei tornato a notte fonda? Perché abbiamo ricevuto la visita di un gendarme?».

    Ignorandomi, si rimise ad armeggiare con la macchinetta del caffè, mi mise tra le mani tremanti quel bendidio e tracannò il suo neanche ne andasse della sua stessa vita. Ci sedemmo al lungo tavolo di pino e io gli scoccai uno sguardo interrogativo.

    «Abbiamo fatto un incidente mentre tornavamo a casa», annunciò.

    «Che genere di incidente? Ti sei schiantato con la macchina? Perché l’hai coperta con un telo?».

    Mi guardò in cagnesco. «Vuoi continuare a tempestarmi di domande o hai intenzione di stare ad ascoltare?»

    «Scusa».

    «È scoppiata una gomma al rimorchio. L’abbiamo dovuto trascinare fino a una piazzola».

    «Te l’avevo detto. Quel rimorchio è troppo vecchio».

    «E io avevo detto a te che l’abbiamo revisionato da cima a fondo, io e Bob. Non è scritto da nessuna parte che una cosa non abbia più alcuna utilità solo perché ha qualche anno di troppo sulle spalle, Emmy. L’abbiamo sovraccaricato, tutto qua».

    «Non avevate una ruota di scorta?»

    «Sì. L’abbiamo cambiata, ma doveva avere una crepa di cui non ci eravamo accorti».

    «Non c’è il servizio di assistenza stradale in caso di avarie?»

    «È saltato fuori che l’assistenza stradale della polizza non copre il rimorchio. Solo l’auto».

    Chiusi gli occhi. «Non ti è venuto in mente di controllare prima di partire?»

    «Ho controllato l’assicurazione. Non ho pensato alla copertura per l’assistenza stradale».

    «Quindi dov’è il rimorchio adesso?»

    «È il motivo per cui il nostro amico è venuto a trovarci. L’abbiamo dovuto lasciare là».

    «Hai abbandonato un rimorchio in una piazzola a metà strada tra qui e Calais?»

    «Non avevo altra scelta. A quell’ora di notte non c’era proprio modo di trovare una gomma. La macchina era già strapiena, così abbiamo caricato e legato il possibile sul portapacchi. Gli oggetti che hanno meno valore sono ancora sul rimorchio. Ci siamo affidati alla sorte e all’onestà del prossimo. L’idea era di andare a prendere una gomma nuova in mattinata, tornare indietro e cambiarla, ma quell’affare è già stato segnalato e sono risaliti a me. Ecco a cos’è stata dovuta la visita del gendarme». Sospirò. «Devo risolvere la questione prima di mezzogiorno, altrimenti mi faranno una multa, oppure mi arresteranno o che so io. Ce la fai a cavartela da sola? So che non è il momento migliore».

    Ma non mi dire!.

    Il sabato era il giorno in cui si liberavano le gîte e, visto che eravamo in estate e nel bel mezzo dell’alta stagione, ciò significava che tutte e tre le gîte dovevano essere pulite e preparate per gli ospiti in arrivo. E poi c’erano una partenza e una serie di nuovi arrivi alla pensione. E la cena da preparare per gli ospiti.

    «Me la caverò», mentii, notando le borse che aveva sotto gli occhi. «Sembri stanco, Rupert. Tra il viaggio e tutti quei mobili da sollevare. E i battibecchi con Gloria… sui quali indagherò dopo».

    «Inevitabile. Meglio che dia un colpo di telefono a quel povero diavolo di Bob per avvisarlo che dobbiamo ripartire. Ora che troviamo una gomma della dimensione giusta e torniamo al rimorchio, si sarà quasi fatta l’ora indicata dal gendarme. Lascia per ultimi i cestini di benvenuto per le gîte, Emmy. Magari riesco a tornare in tempo per preparare almeno quelli».

    «Hai preso le tue medicine? Mangi qualcosa prima di andare?»

    «No, ma le prenderò. E sì, se riesci a mettere insieme una colazione mentre mi faccio una doccia veloce».

    Se ne andò barcollando e io gli preparai un po’ di frutta, yogurt e pane tostato.

    Non potevo fare a meno di essere dispiaciuta per Bob, il nostro motociclista hippy nonché futuro fotografo del mio matrimonio. Quel poveraccio aveva già rinunciato al proprio tempo libero per scarrozzare, sollevare, trasportare carichi e fare da arbitro tra Rupert e quella che ben presto sarebbe diventata la sua ex moglie. Meritava un encomio all’amicizia.

    La labrador aveva cominciato a uggiolare nel salottino di Rupert. Dato che nessuno dei due aveva avuto tempo per portarla a fare una passeggiata, la lasciai uscire nel piccolo frutteto accanto alla casa affinché facesse qualunque cosa un cane avesse bisogno di fare; mi scappò una smorfia vedendo che si accucciava, poi sospirai, afferrai una busta di plastica e mi trascinai fuori per andare a raccogliere i ricordini che aveva lasciato in giro. Non ero così sicura che quel compito rientrasse tra le mie mansioni ufficiali. Ma non è che avessi mansioni ufficiali.

    La sciocca labrador nera era partita al galoppo e stava facendo lo slalom tra gli alberi, con il sole mattutino che filtrava tra le foglie e l’erba verde, rigogliosa e imperlata di rugiada sotto le sue zampe. Le fischiai per farla rientrare. Mi rifiutavo di chiamarla per nome per una questione di principio. Francamente, ero convinta che chiamarla Gloria, una decisione presa in un momento di goliardia, fosse stata l’idea peggiore che Rupert avesse mai avuto. Il cane sembrava in grado di capire se il padrone stava usando il nome proprio per riferirsi a lei o se stava invece parlando della Gloria umana, forse a causa dell’intonazione diversa: gioioso entusiasmo per l’animale domestico e stanca rassegnazione per l’ex moglie. Per quanto mi riguardava, l’animale era tesoro o il cane, o ancora, e capitava abbastanza frequentemente, quel tuo maledetto cane… Ciononostante, bastava che mi guardasse con quei suoi occhioni mogi per farmi sempre sciogliere e nei momenti in cui oziavamo insieme non riuscivo a resistere e le seppellivo il viso nel pelo morbido.

    Quando la vidi riemergere da una siepe e precipitarsi di corsa verso casa, tornai in cucina per mettere in tavola la colazione, certa del fatto che sarebbe andata a sdraiarsi nella sua cesta in corridoio. Allontanando la mano dai pains aux raisins con uno sforzo eroico, afferrai una banana e la ingurgitai senza masticare proprio nell’istante in cui apparvero i primi ospiti.

    Si sedettero al tavolo di pino sgrossato, sotto il soffitto spiovente dell’ampliamento della cucina e lontani dall’estremità caotica con i fornelli, per godersi i raggi di sole di fine luglio che filtravano dalle grandi finestre e dalle porte del patio, e per esaminare le delizie della colazione.

    Quando chiesi loro se volessero le uova (deposte dalle galline di Rupert) e quale tipo di cottura preferissero, ebbi cura di omettere che, con Rupert assente, avrebbero ricevuto una variante molto inferiore. Malgrado mi avesse istruita a dovere, io e le uova continuavamo a non andare d’accordo da un punto di vista culinario.

    C’era da sperare che l’eventuale delusione sul fronte uova venisse controbilanciata dalla sfilza di pains aux raisins, cornetti e pains au chocolat appena sfornati, oltre che dalla macedonia di frutta, dagli yogurt e dalle marmellate artigianali della zona con cui gli ospiti si servirono da soli mentre portavo a tavola il caffè e il tè.

    La colazione era un momento frenetico e comportava un’alzataccia, ma c’era davvero poco di cui lamentarsi con il sole che splendeva, una vista tanto allettante sul giardino dalle porte del patio, la tavola imbandita di prelibatezze e gli ospiti di buonumore e pronti a cominciare la loro giornata, chiacchierando allegramente e scambiandosi suggerimenti sulle bellezze locali da andare a visitare. Dato che quella mattina Rupert non era disponibile, si rivolsero a me per ricevere alcuni consigli, e io risposi prontamente alle loro domande, lieta che la mia conoscenza della zona fosse migliorata così tanto nel corso dell’ultimo anno.

    Per la milionesima volta ringraziai la buona stella che mi aveva permesso di trovare quel posto, e il coraggio di accettare l’offerta di Rupert, il quale mi aveva chiesto di andare a vivere e lavorare lì. Non l’avevo rimpianto nemmeno per un istante. Forse all’epoca, l’anno scorso, non me n’ero resa conto, ma Nathan, il mio ormai ex ragazzo, mi aveva fatto un favore non indifferente andando a letto con la moglie di Rupert mentre eravamo in vacanza a La Cour des Roses. Se non l’avesse fatto, non sarei mai rimasta a dare una mano a Rupert per superare i suoi problemi di salute, innamorandomi della casa e dell’attività, e dimostrando di sapermi occupare talmente bene sia di lui che di La Cour des Roses da spingerlo a offrirmi un impiego a tempo indeterminato. Non mi sarei mai rifatta una vita lontana dalla frenesia cittadina e nemmeno mi sarei neanche creata una nuova cerchia di amici fantastici. E, ovviamente, non avrei mai conosciuto l’uomo con cui mi sarei presto sposata.

    Il mio idillio mattutino venne interrotto da uno strillo lacerante.

    Non appena ritrovai la lucidità, schizzai come un lampo all’ingresso per imbattermi in Abigail Harris, che si stava stringendo il petto in una posa quasi teatrale, mentre suo marito Brian le stava accarezzando un braccio.

    «Che problema c’è?», domandai, pensando che anche a me sarebbe servito un massaggio cardiaco.

    Abigail allungò una mano tremante per indicarmi il cane, che se ne stava beatamente acciambellato nella sua cesta, raggomitolato sopra la copertina e sopra… qualcos’altro.

    Mi avvicinai per osservarlo meglio. Il muso morbido del labrador era adagiato su quello che a prima vista poteva sembrare un giocattolo di stoffa masticato a dovere, ma che a un esame più attento risultò essere la carcassa di un coniglio. Una vecchia carcassa, poco più che un mucchietto d’ossa dal quale ciondolava qualche ciuffo di pelliccia dilaniata.

    Che schifo.

    «Gloria, brutta e cattiva!». Agitai un dito per rimproverarla, dimenticando l’avversione per il suo nome di battesimo.

    Mi osservò con quei grandi occhioni adorabili che si ritrovava, ma non ero dell’umore adatto.

    «Fuori!».

    Sostenne il mio sguardo con aria di sfida.

    Diedi uno strattone al collare. «Fuori, botolo, cane cattivo!».

    Sprofondò ancora di più nella cesta, strofinando amorevolmente il muso contro il proprio trofeo. Mi diede il voltastomaco, tanto che la banana minacciò di riproporsi.

    Mi voltai verso Abigail e Brian. «Mi dispiace tanto. Non mi ero accorta che l’avesse portata in casa. Me ne occupo subito. Vi prego, andate a fare colazione. Ci metterò soltanto un minuto».

    Quando lasciarono la scena del crimine, lanciai un’occhiata severa al cane, che non batté ciglio. Con un sospiro frustrato, aprii la porta degli alloggi di Rupert e fui costretta a trascinarci di peso la cesta, con cane, carcassa e tutto. Pesava un quintale, ma la portai nel salottino di Rupert, dove ci saremmo potute contendere il corpicino in santa pace.

    Vinse il cane.

    Capii che non mi restava altro da fare che attendere che si addormentasse per trafugare di soppiatto il corpo del reato – ehm, del coniglio.

    La solita giornata tipo alla pensione La Cour des Roses.

    Due

    In genere, dopo essersi occupata delle pulizie a La Cour des Roses, Madame Dupont tornava a casa a piedi; sosteneva di aver camminato per una vita e che di certo non avrebbe smesso adesso. Quella donna doveva avere una settantina d’anni, ma avrei potuto giurare che fosse più in forma di me. L’unica volta in cui mi permise di darle un passaggio fu un sabato, dopo una sessione di pulizia più lunga e stancante del solito.

    «Ho qualcosa per te, Emie», disse mentre salivamo in macchina. «Puoi entrare un momento?».

    Durante il breve tragitto in auto, mi angustiai al pensiero di cosa potesse essere quel qualcosa. Madame Dupont aveva uno stuolo di orribili uccellacci neri che distribuiva ai membri della sua grande famiglia allargata come se fossero normali polli da tavola. Non li donava a cuor leggero se non ai famigliari, ma a me era capitato di riceverli in un paio di occasioni e, per quanto apprezzassi il gesto, il regalo di per sé non mi faceva impazzire.

    La seguii lungo il vialetto di casa e sbirciai oltre la rete del cortile, dove i volatili chiassosi stavano sgambettando e battibeccando tra loro. In cucina mi invitò a sedermi al tavolo di legno grezzo mentre lei metteva a posto la borsa e il cardigan e dava una rapida sistemata ai gambaletti che si erano abbassati nel corso della giornata. Come facesse a sopportarli e a indossarli con quel caldo resterà sempre un mistero.

    Ero già stata in casa sua ed era come tornare indietro nel tempo. Non aveva una cucina su misura, ma singole credenze di legno verniciato, una vecchia stufa a gas e un frigorifero rumoroso. Gli elettrodomestici avrebbero potuto comparire in un programma televisivo d’altri tempi e la vecchia carta da parati con un motivo sgargiante a toni marroni e gialli mi faceva venire la nausea. Tuttavia, come c’era da aspettarsi, l’ambiente era immacolato.

    Madame Dupont cominciò ad armeggiare con l’enorme tegame che aveva lasciato sul fornello. «Ieri ho preparato uno stufato di gallina. Doveva venire a cena mia nipote con la famiglia, ma la bambina non si è sentita bene e adesso mi ritrovo con tutti questi avanzi. Te ne do un po’, così una di queste sere li puoi mangiare insieme al tuo bel fidanzato, se sei troppo stanca e non ti va di cucinare».

    Parlava in fretta, in francese, con un accento marcato, ma ultimamente riuscivo a comprendere la maggior parte di quello che diceva e lei mi correggeva sempre meno.

    «Non lo potresti surgelare?», domandai.

    «Ce n’è in abbondanza per tutti». Mi fece cenno di avvicinarmi e dare un’occhiata al contenuto della pentola. Era piena fino all’orlo e aveva un profumino delizioso. «Inoltre, non credo che quel congelatore durerà ancora a lungo». Indicò il vecchio surgelatore a pozzetto in un angolo della cucina, con lo smalto bianco arrugginito in prossimità della base. «Non è mica l’unico ad aver superato la data di scadenza, in questa casa. Con la fortuna che ho, potrebbe abbandonarmi proprio quando è pieno di stufato di gallina. Tanto vale che tu ne prenda un po’».

    «Be’, se proprio insisti…».

    Sorridendo, si chinò per aprire l’anta di una credenza, che penzolò pericolosamente sui cardini, e io mi appuntai di chiedere a Rupert o a Ryan di fare un salto a ripararla. Dopo aver preso una piccola terrina marrone dal ripiano foderato di carta, ci rovesciò dentro una generosa mestolata di stufato.

    «Grazie». Le diedi un bacio sulla guancia. «Io e Alain ce lo gusteremo con piacere. Ti serve un passaggio fino a Pierre-la-Fontaine per andare a prendere l’autobus?».

    Di solito, Madame Dupont passava una notte o due a settimana a casa di sua sorella. Non avendo un mezzo di trasporto, per lei era una bella scarpinata: doveva percorrere il viottolo di campagna fino alla strada principale, aspettare un autobus che la portasse in paese e poi prenderne un altro per arrivare dalla sorella.

    «È gentile da parte tua, Emie, ma ho un po’ di cose da fare. Monsieur Girard, il vicino, mi darà uno strappo in paese più tardi».

    Dopo averla salutata, sistemai con cura il tegame sul sedile del passeggero e tornai indietro guidando pian piano. Rovesciare il sugo sulla tappezzeria dell’auto era proprio l’ultima cosa di cui avevo bisogno; Jonathan non me l’avrebbe mai perdonato, dato che un tempo la macchina era sua. Me l’aveva venduta quando aveva deciso di smettere di guidare.

    Sorrisi con dolce trepidazione al pensiero di una serata con Alain e dello stufato fatto in casa da Madame Dupont che ci saremo goduti insieme – con l’ulteriore vantaggio che non avrei dovuto spiumare e sviscerare di persona il pollo.

    Ma avrebbe dovuto aspettare fino all’indomani. Quella sera dovevo aiutare Rupert a preparare la cena e a intrattenere gli ospiti.

    Rupert fece ritorno dalla sua gita con Bob e mi trovò stanca ma di buonumore.

    Nel complesso, la giornata era andata alla grande. Le uova della colazione erano state accettabili (o perlomeno nessuno le aveva lasciate nel piatto), avevo rimpinzato Abigail Harris di cappuccini finché non aveva più capito se la tremarella fosse dovuta alla caffeina o all’incontro con il cadavere del coniglio, avevo trovato il tempo per una breve telefonata mattutina al mio splendido fidanzato per metà francese e per metà inglese (che aveva preso le qualità migliori di entrambi i mondi, come aveva osservato Rupert in un’occasione), avevo ricevuto in dono lo stufato di Madame Dupont e, alla fine, ero anche riuscita a strappare via al cane il coniglio disintegrato senza farmi staccare una mano.

    In fin dei conti, stava andando tutto a gonfie vele.

    Mentre Rupert riempiva i cestini di benvenuto per le gîte con verdure sott’aceto e marmellate fatte in casa, pane locale e formaggio, io gli preparai una tazza di tè. I nuovi ospiti sarebbero arrivati da un momento all’altro.

    «Sei ancora un uomo libero?», indagai.

    «Sì. Sono stanco, ma non mi hanno arrestato».

    Immaginai che anche a lui stesse andando tutto a gonfie vele, allora. «Raccontami cos’è successo a Londra con Gloria».

    «Meglio che tu non lo sappia».

    «Invece mi interessa, ecco perché te l’ho chiesto. Ovviamente, non sei obbligato a dirmelo».

    Increspò le labbra. «Peccato che mi assillerai senza pietà finché non lo farò».

    «Ebbene?».

    Sospirò.

    «Quando siamo arrivati, ho mandato Bob a prendere un caffè mentre io impacchettavo la mia roba. Gloria mi ha tenuto d’occhio come un falco. Abbiamo cominciato a discutere dei mobili non appena è tornato Bob. Ha insistito per essere presente per paura che la mia pressione potesse schizzare alle stelle, rendendo necessario l’intervento di un’ambulanza».

    Il buon vecchio Bob. L’attacco di angina che Rupert aveva avuto l’anno prima aveva fatto prendere un bello spavento a tutti i suoi amici ed eravamo ancora memori dell’accaduto. Sorrisi pensando a quanto fosse grande l’amicizia che legava lui e Bob. Sapeva in cosa si sarebbe cacciato accettando di accompagnare Rupert – lui e Gloria erano ai ferri corti da mesi per la questione dei beni di quest’ultimo –, ma non doveva essere stato piacevole.

    «Gloria ha dato preavviso di disdetta agli affittuari di casa sua e resterà nell’appartamento a Kensington finché non ci si potrà trasferire. Ho ripreso qualche mobiletto, ma non c’era granché che mi interessasse. Aveva scelto quasi tutto lei e non è che fossero pezzi di mio gradimento».

    Potevo immaginare. Rupert aveva arredato la pensione con gran gusto: pezzi di antiquariato eleganti ma funzionali, colori tenui alle pareti, tessuti in tinte naturali con tocchi di colore nei tappeti e nei cuscini. Qualità, non quantità. Gloria, al contrario, non era riuscita a reprimere il lato pacchiano dell’arredatrice di interni che era in lei e la prima volta che avevo messo piede a La Cour des Roses, la pensione denotava un’interessante dissonanza. A poco a poco, ma inesorabilmente, avevamo consegnato il suo tocco ai libri di storia.

    «Abbiamo firmato un inventario e deciso cosa ne sarà di quella roba», proseguì Rupert aprendo il frigo per prendere il latte e i panetti di burro da aggiungere ai cestini.

    Sollevai un sopracciglio. «Sembra una decisione abbastanza civile, conoscendovi».

    «Gloria non è stupida. Sa quali battaglie combattere».

    «Mi sorprende che non abbia lottato per insediarsi in pianta stabile in quell’appartamento».

    «I costi per mantenerlo sono troppo alti. Inoltre, vale una fortuna. Preferisce avere un gruzzolo in banca, così non dovrà lavorare. Le conviene».

    Gli rivolsi un sorriso solidale. «Data la situazione, stai tenendo botta».

    «Lo sapevamo tutti come sarebbe andata a finire, una volta imboccata la strada del divorzio».

    «Lo so, ma mi dispiace che tu debba affrontare certe situazioni».

    «A me no. Vuol dire che chiuderemo in modo definitivo. Fintanto che posso tenere La Cour des Roses, sono felice di mettere una pietra sopra tutta questa storia. Chiedere a Gloria di fare le valigie, l’anno scorso, è stata la cosa giusta da fare».

    Ma non mi dire. Aprii bocca per dirlo a voce alta, poi la richiusi, facendolo scoppiare a ridere. Gloria era scappata alla chetichella con il mio fidanzato, per poi scaricarlo un paio di settimane dopo; in seguito, aveva cercato di irretire Rupert per tornare a far parte della sua vita; sì, era stato senz’altro un periodo faticoso per entrambi.

    «Ma terrai La Cour des Roses, giusto?», chiesi.

    «Sì. Ora che abbiamo preso in considerazione la casa di Gloria, e dato che venderemo sia l’appartamento di Londra che la casa a Maiorca, non vedo dove sia il problema. Solo che disfarsi di quella stramaledetta proprietà al mare si sta rivelando difficile. Sono mesi che Ellie sta contrattando con i clienti esteri al posto mio, ma con scarso successo».

    «È gentile a toglierti qualche peso dalle spalle».

    Essendo l’agente immobiliare del posto, Ellie aveva puntato tutto sull’unica cosa che poteva fare per aiutare Rupert durante il divorzio, pertanto aveva assunto il ruolo di consulente e stava facendo da tramite con la sua agenzia immobiliare a Maiorca.

    «Non riesco a credere che Gloria ti stia chiedendo così tanto», dissi mentre gli passavo le bottiglie di vino locale per finire di riempire i cestini. «Siete stati insieme soltanto dieci anni e disponevi della maggior parte del tuo patrimonio ancor prima di sposarla».

    «Gloria ha la facoltà di sostenere, ed è quello che sta facendo, di aver lasciato il lavoro e gli amici per stare con me. Di aver passato anni e anni in questo posto, odiandolo ogni giorno della sua vita. Di aver incrementato il valore dell’attività nel corso degli anni».

    Sbuffai in modo ben poco elegante e Rupert pose fine alla conversazione radunando i cestini e precipitandosi nel cortile fiancheggiato dai cespugli di lavanda, diretto alle gîte, proprio nel momento in cui la prima auto parcheggiò davanti alla pensione. Quando si dice per un pelo.

    «Stasera non mi dispiacerebbe andare a letto presto», gli dissi intanto che cominciavamo a cucinare.

    Ora che non era più intimidita dai coltelli da chef, dalle padelle bizzarre e dagli straordinari aggeggi dell’enorme cucina di legno e granito, avevo ricevuto una promozione ad addetta al taglio di frutta e verdura e mi era stato concesso di fare anche altre cose – però mai l’impasto per i dolci (il mio finiva col somigliare a un ammasso di mastice grigio, ma molto meno utile) e mai le salse (ranci appiccicosi e pentolini bruciati).

    «Cosa ti fa pensare che sia possibile?»

    «Mantengo viva la speranza. Almeno adesso possiamo dirottare gli ospiti all’esterno o in salotto a cena conclusa, perciò abbiamo una piccola probabilità di successo».

    Le tre cene a settimana che offrivamo ai clienti venivano consumate in cucina e a fine pasto la gente tendeva a trattenersi a chiacchierare, impedendoci di sparecchiare e lavare i piatti. Durante l’inverno, però, io e Rupert avevamo ripitturato e riarredato il salotto finché non aveva assunto l’aspetto che avevo – ehm, voglio dire che avevamo – immaginato, e adesso non ci facevamo remore a chiedere agli ospiti di spostarsi lì per il caffè o, se il tempo lo permetteva, di uscire sul patio con le lanterne a energia solare, cosa che ci consentiva di rimettere in ordine la cucina.

    «E comunque, ora come ora, non è che ci sia un gruppo tanto brioso, non trovi?», feci notare. «L’ultima volta siamo rimasti a corto di argomenti di conversazione ancor prima di arrivare al dolce. Come sono i nuovi arrivati?»

    «Diane e John? Sembrano abbastanza simpatici».

    Quando ci accomodammo in salotto, però, Diane adocchiò la pila di giochi da tavolo sulla libreria e strillò: «Oh, giochiamo a qualcosa!».

    Suo marito si disse favorevole, gli altri ospiti non vollero apparire sgarbati e io e Rupert ci sentimmo in dovere di prendere parte al momento di svago. Di conseguenza, a quella cucina da rassettare avremmo dovuto pensarci più tardi – molto più tardi.

    E tanti saluti all’idea di andare a letto presto.

    La mattina seguente, dopo aver parcheggiato davanti alla graziosa villetta di periferia di Alain, andai subito a cercare il conforto offerto dalle sue braccia e gli appoggiai la testa contro il petto – era talmente alto che era il massimo a cui riuscissi ad ambire senza dovermi alzare in punta di piedi. Le domeniche erano le mie giornate libere da trascorrere insieme a lui e le aspettavo con enorme trepidazione.

    «Ti fermi a dormire qui?», mormorò con tono speranzoso e le labbra premute sui miei capelli prima di condurmi in salotto, un ambiente arioso con pareti e infissi color crema, mobili di legno e cuscini color caffè che davano una nota calda alla stanza. La adoravo.

    «Non vedo perché no».

    Entrambi avevamo lasciato un po’ di cose a casa dell’altro e io passavo metà della mia vita a domandarmi dove avessi lasciato la mia maglietta preferita. Non vedevo l’ora di trasferirmi definitivamente da lui, dopo la luna di miele, quando saremmo stati meno indaffarati con La Cour des Roses e avremmo avuto la possibilità di prendere dimestichezza con un nuovo equilibrio.

    «Ottimo». Mi fissò con quei suoi occhi color cannella. Era uno sguardo che non smetteva mai di scaldarmi e di farmi sentire desiderata. «Ti va se tiriamo fuori le bici?»

    «Per me va bene».

    La prima volta che mi aveva fatto salire in sella a una bicicletta ero abbastanza dubbiosa, ma adesso pedalavamo con regolarità durante i fine settimana e, anche se non andavo matta per le strade trafficate, non erano che mezzi tramite i quali arrivare a un fine. Non appena raggiungevamo una stradina di campagna o un sentiero tranquillo, ero felice di esserci arrivata. I muscoli delle gambe si erano tonificati e non avevo più la sensazione che fossero fatti di gelatina. A patto che non ci spingessimo troppo lontani. O su per qualche collina.

    Le poche volte che aveva tentato di portarmi a correre, invece, non aveva ottenuto lo stesso risultato. Non capivo che senso avesse scalpicciare sull’asfalto – o sull’erba, o su un sentiero di terra battuta, o su qualunque altra superficie, se era per quello.

    Mi facevano male le ginocchia e alla fine diventavo rossa come una barbabietola, e non solo perché Alain era più alto di me di una trentina di centimetri buoni ed era quindi molto probabile che dovessi correre il doppio per tenere il suo passo. Alla fine, aveva accettato la sconfitta su quel fronte. Lui continuava ad andare a correre la mattina presto, prima di andare al lavoro, e avevo il sospetto che si godesse la solitudine.

    A ciascuno il suo.

    A poco a poco, mentre le strade asfaltate lasciavano spazio ai viottoli di campagna, che a loro volta si davano il cambio con i sentieri, la tensione si dissolse. Non poteva essere altrimenti. Dovevo soltanto lasciare che braccia e gambe si preoccupassero della bici mentre io mi inebriavo della sontuosità della campagna francese. I campi coltivati, verdi e oro, i raccolti in pieno svolgimento. Le siepi di arbusti. L’occasionale campo di rose per cui era famosa l’intera zona, con i colori accesi che si allungavano a perdita d’occhio e mi lasciavano senza fiato. I vigneti disposti in filari ordinati, di un bel verde intenso nel sole pomeridiano, il terreno secco e polveroso.

    E poi ecco i girasoli, un tappeto verdeggiante sormontato da teste gialle, le corolle rivolte verso il sole, un’ampia distesa dei colori dell’estate, che a mio parere erano un’epitome della stagione.

    «Li adoro», dissi quando ci fermammo davanti a un campo di girasoli per bere dalle nostre bottigliette d’acqua.

    «Les tournesols

    «Sì. Sono magnifici. E poi sono così francesi».

    Alain sorrise.

    «Ormai siamo quasi arrivati alla fine della loro stagione. Tra poco moriranno, si afflosceranno e avranno un aspetto triste».

    Il pensiero mi fece imbronciare.

    «Non fare così», mormorò lui. «Mi fai venire voglia di baciarti».

    Accentuai la smorfia facendo sporgere il labbro inferiore e Alain mi accontentò con un bacio che si surriscaldò nel giro di pochi secondi, malgrado ormai stessimo insieme da mesi. Quando si staccò, i suoi occhi color caramello restarono inchiodati su di me. «Sarà meglio tornare a casa».

    Erano parole cariche di promesse maliziose.

    E quello – ciò che succedeva dopo – era un altro degli aspetti per cui mi piaceva andare in bici di domenica. Tornavamo accaldati, sudati e stanchi, con la necessità di fare una doccia e di… coricarci. Non c’erano limiti di tempo. Il resto del pomeriggio si allungava come i nostri corpi distesi sul letto, dove ci baciavamo pigramente, ci sfioravamo e facevamo l’amore, finché le mie membra non ronzavano di piacere sotto le mani di Alain, capaci di fare miracoli e di farmi sentire gli arti molli, mentre lo stress e la tensione sembravano lontani anni luce.

    Il momento migliore della settimana.

    Tre

    Alain si complimentò per lo stufato di gallina – a chi non sarebbe piaciuto? –, e dopo cena uscimmo a fare una passeggiata. Era un’altra tradizione della domenica per la quale andavo pazza, in un momento della giornata che amavo, quando il caldo si era attenuato e le strade erano tranquille. Superavamo l’area residenziale dove abitava, percorrevamo una breve stradina di campagna e poi rientravamo – il tragitto bastava per bruciare un po’ di calorie.

    Alain iniziava a parlare in francese, un’abitudine alla quale avevo fatto il callo da tempo. Sapeva che a La Cour des Roses non facevo abbastanza pratica, se non con Madame Dupont, e per quanto fossi migliorata notevolmente nel corso dell’ultimo anno, il mio francese non era affatto perfetto. Alain voleva che prendessi

    Ti è piaciuta l'anteprima?
    Pagina 1 di 1