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I segreti della famiglia Turner
I segreti della famiglia Turner
I segreti della famiglia Turner
E-book309 pagine4 ore

I segreti della famiglia Turner

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Info su questo ebook

Pensavi che la tua famiglia fosse al sicuro.
Ti sbagliavi.

Emma vive a Clearwater Hills, nell’Illinois, con il marito Darren e il loro figlio adolescente Jayden. La loro è una vita tranquilla, nonostante ultimamente abbiano qualche preoccupazione economica che crea tensione tra le mura di casa. Uno degli operai dell’impresa edile di Darren si è infortunato gravemente sul posto di lavoro e lo ha citato per danni, mettendo in ginocchio la sua attività. Dopo quell’incidente, hanno iniziato ad accadere cose strane. Quando Emma si sveglia nel letto di un ospedale, non ricorda come sia arrivata lì e non riesce a capire come mai suo marito e suo figlio non le siano accanto. Emma vuole disperatamente sapere che cos’è successo e se Darren e Jayden sono al sicuro. Ma ricordare la verità potrebbe essere molto più pericoloso di quanto immagina…

Ricordare potrebbe essere molto pericoloso...

«Una delle migliori letture di questo genere. Ricontrollerete due volte la serratura prima di andare a dormire…»

«Il senso di panico e paura cresce durante tutto il libro fino a un finale che lascia senza parole.»

«Se siete alla ricerca di una lettura appassionante questo libro fa al caso vostro.»

Alex Sinclair
è un autore di thriller psicologici che viene da una tranquilla località alle porte di Melbourne, in Australia. Quando non è con la moglie e la figlia, passa le sue giornate a leggere. Adora scrivere storie al cardiopalma e ricche di colpi di scena. I segreti della famiglia Turner è il primo romanzo pubblicato dalla Newton Compton.
LinguaItaliano
Data di uscita12 feb 2019
ISBN9788822730138
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    Anteprima del libro

    I segreti della famiglia Turner - Alex Sinclair

    Capitolo uno

    Prima

    La nostra casa aveva solo tre anni quando ci andammo a vivere. Adesso, dopo nove anni di pasti in famiglia intorno al nostro tavolo di quercia, di graffi sulle pareti, di impronte strisciate di scarpe sui tappeti, sembrava che avesse mezzo secolo. Non furono le condizioni della nostra casa a darle quell’età, ma il dramma ineluttabile di cui la mia famiglia sembrava vittima.

    La moderna abitazione in stile coloniale, con quattro camere da letto e tre bagni, era stata costruita da mio marito, Darren, e dall’impresa edile per cui lavorava all’epoca nella nostra cittadina tranquilla di Clearwater Hills nell’Illinois. Quando si diffuse la notizia che i proprietari avevano perso l’immobile per aver mancato di pagare alcune rate del mutuo, Darren praticamente ci supplicò di comprare la casa dei sogni che aveva costruito per qualcun altro. Dato che l’abitazione si trovava solo dall’altra parte della città ed era stata messa all’asta a un prezzo di partenza allettante, non ebbi altra scelta se non quella di assecondarlo. Col senno di poi, si rivelò un errore madornale.

    «Cavolo, è stato un vero affare», disse Darren il giorno in cui ci trasferimmo. Continuava a mormorare quanto fossimo fortunati e quanto fosse contento di vivere finalmente in una casa che aveva costruito con le proprie mani. Era fiero di apporre i nostri nomi sul contratto, Darren ed Emma Turner. La crisi finanziaria rese la casa abbordabile, ma causò anche il licenziamento di mio marito sei mesi dopo.

    Così la storia degli sciocchi che acquistavano un’immobile al di sopra delle loro possibilità si ripeté implacabile e con esito scontato. Per i quattro anni seguenti, rimanere a galla fu una lotta. Darren passava da un lavoro all’altro, faceva quel che poteva per permetterci di arrivare alla fine del mese. Io avevo un impiego a tempo pieno nell’amministrazione dell’università di Chicago e, nel frattempo, mandavo avanti la casa e portavo a scuola ogni giorno nostro figlio, Jayden.

    La vita rimaneva movimentata, tanto per usare un eufemismo. Mi attenevo a una rigorosa routine settimanale che un battito di ali di farfalla avrebbe potuto scombussolare. Mi barcamenavo tra le responsabilità, tra Jayden, il lavoro e la casa; come se non bastasse, tenevo Darren su di morale. Mi sembrava di avere quattro lavori diversi e di venir pagata solo per uno. Quando mio padre morì in un incidente automobilistico, quel meccanismo si arrestò di colpo.

    Viveva in città, da solo. Mia madre era venuta a mancare qualche anno prima, vittima di un cancro al seno. Quando il dolore per la perdita della moglie iniziò a svanire, mio padre incanalò tutte le sue energie nelle lezioni all’università. La sua morte fu un duro colpo, non solo per me ma anche per la facoltà, soprattutto considerando che aveva solamente sessantatré anni. Era l’età ideale per riversare la propria conoscenza sul mondo. Invece andò incontro a una morte senza senso quando un camion lo investì a un incrocio che aveva attraversato migliaia di volte.

    Mio padre aveva lavorato all’università per quasi tutta la sua carriera e mi aveva assicurato l’impiego nell’amministrazione che ancora ricoprivo, dopo che non ero riuscita a mostrare lo stesso spigliato talento accademico che lui aveva alla mia età. Nonostante la mia inettitudine, non mi aveva mai fatto sentire meno importante o come una delusione per non essere arrivata al suo livello.

    Con Darren impegnato in più lavoretti, durante un periodo in cui il Paese aveva troppe case e non abbastanza persone stipendiate che potevano comprarsele, stavamo faticando più del solito, quando la vita di mio padre venne stroncata anzitempo. Tuttavia, non tutti i mali vengono per nuocere: la sua morte si risolse in un’eredità sostanziosa, la cui entità avrebbe cambiato la nostra vita e ci avrebbe permesso di mantenere la casa dei nostri sogni durante i momenti turbolenti che stavamo vivendo.

    Il tempismo fu pazzesco, considerando quanto fossimo vicini a perdere tutto quanto. Da quel giorno, ogni volta che guardavo la casa, pensavo a mio padre e a tutto lo strenuo impegno che aveva profuso nel corso degli anni. Non volevo sprecare nemmeno un centesimo dei suoi soldi. Ma, naturalmente, anche le intenzioni più pure vanno in fumo.

    Qualche mese dopo esserci rimessi in carreggiata, Darren venne da me con una specie di proposta: voleva fare il grande passo e avviare una propria attività edile.

    «Conosco gli operai migliori in città», mi disse. «Conosco i fornitori migliori e posso stringere con loro rapporti solidi. Mi serve solo il capitale iniziale per dare il via a tutto».

    Ogni sua parola era convincente, sulla carta. La crisi finanziaria faceva parte del passato e l’industria edile aveva iniziato a risorgere dalle ceneri. Si costruivano di nuovo case. Darren sosteneva che sarebbe stato il momento ideale per approfittare di una situazione che non capitava tanto spesso. Come potevo dire di no? Era la persona che amavo più di chiunque altro al mondo, oltre a mio figlio. Non solo gli credevo, io credevo in lui.

    Erano passati cinque anni da allora. Adesso, dopo aver vissuto nella nostra casa per nove anni, avevo trentasette anni. L’attività di Darren stava prosperando e il nostro figlio quattordicenne, Jayden, passava le giornate alla scuola media di Clearwater Hills. Tutto stava andando per il verso giusto: avevamo la nostra vita perfetta nella nostra tranquilla cittadina americana.

    Allora perché la casa ben tenuta che mio marito aveva costruito mi sembrava così vecchia? Perché la nostra vita all’apparenza perfetta era ben lungi dall’essere immacolata e invidiabile. Il nostro mondo stava per crollarci addosso e non ne avevamo la minima idea.

    Capitolo due

    «Hai visto il mio telefono?», mi chiese Darren mentre scorrazzava per la cucina, mettendo sottosopra vecchi giornali e piatti alla ricerca del cellulare. Tirai fuori l’apparecchio dalla tasca della vestaglia e glielo consegnai provando a nascondere un sorrisetto.

    «L’hai lasciato di nuovo in bagno, tesoro», dissi mentre me lo strappava di mano. Avrei preferito che non agguantasse le cose in quel modo.

    «Che stupido». Si diede uno schiaffetto sulla testa, senza ringraziarmi di aver trovato il cellulare. Le rughe intorno ai suoi occhi erano più profonde del solito. Il telefono smarrito non era l’unico motivo per cui aveva messo in scena quell’autoflagellazione.

    «Va tutto bene? Sembri esausto».

    Mi fissò per mezzo secondo con le labbra leggermente dischiuse. «Non è nulla. Sto solo cercando di organizzare la manica di idioti con cui ho a che fare in questo progetto interminabile».

    «L’appalto? Come procede?»

    «È un manicomio, ovviamente. Abbiamo ancora trenta case da costruire e siamo vicini alla data di consegna. Tipico dei promotori immobiliari non pensare mai a come le cose funzionino sul serio. Sbattono la grafica di un prototipo su un cartello con scritto

    PROSSIMAMENTE

    e si aspettano che il resto venga da sé. Ogni volta che le cose rallentano, la loro risposta è darti soldi a palate».

    «Ma i soldi sono un bene, no?».

    Darren scosse la testa. «Non quando il tempo è contro di te».

    Più parlava, più potevo vedere la tensione accumularsi sulle sue spalle. Mi avvicinai e gli appoggiai le mani sui suoi bicipiti. Persino quelli erano rigidi e pieni di stress. «Ce la farai, okay? Se c’è un’impresa che può arrivare in fondo a quest’appalto, è la squadra della D. Turner Construction. Credi in te stesso». Recitavo il ruolo della moglie premurosa e solidale in maniera meccanica.

    Dai suoi occhi non traspariva la sicurezza che cercavo di instillare in lui. Darren si strofinò i capelli trasandati e lasciò cadere la mano sulla barba vecchia di due settimane.

    «Grazie per il discorso d’incoraggiamento, tesoro, ma devo andare». Si liberò dalla mia presa e afferrò l’enorme thermos riempito fino all’orlo di caffè extraforte. Come se non avessi detto nulla…

    «È ancora confermato per stasera?», gli chiesi, mentre raggiungeva la porta d’ingresso.

    «Ehm, sì. Certo», disse senza voltarsi. «Sarò a casa per le sei. Ti amo».

    Non ebbi l’occasione di ricambiare quelle sue parole perché la porta si chiuse di botto. Mi sorpresi ad avanzare verso la finestrella nell’atrio per scostare la tenda. Darren stava già salendo nel pick-up della sua ditta, con il cellulare all’orecchio; stava sbraitando verso una delle persone nella catena di lavoro, dandole la strigliata di cui aveva bisogno perché il cantiere progredisse. Non lo invidiavo, ma allo stesso tempo avrei voluto che mi prestasse più attenzioni. Quell’appalto stava andando avanti da troppo tempo.

    Ripensai ad alcune delle cose potenzialmente discutibili che Darren aveva dovuto fare per tenere in piedi l’appalto. Per quel poco che ne sapevo del suo lavoro, le tempistiche semplicemente non erano realistiche. La mia unica speranza era che Darren non stesse prendendo scorciatoie pericolose.

    Jayden entrò in cucina con la musica a tutto volume nelle cuffie e interruppe i miei pensieri. Mio figlio aveva la solita espressione scontrosa delle sette del mattino che aveva deciso di adottare ultimamente. Era come un quarantenne nel corpo di un quattordicenne, e la tipica rabbia adolescenziale stava iniziando a insediarsi in lui. Non molto tempo prima, era ancora felice di passare il tempo con i suoi giocattoli e godersi la vita. Adesso ogni giorno era una lotta.

    Jayden si mise a sedere al bancone della cucina e si preparò una tazza con i cereali, facendo schizzare metà del latte nella ciotola e l’altra metà sul bancone. Trangugiò rumorosamente la colazione senza staccare gli occhi dallo smartphone per più di un secondo.

    «Jayden, tesoro?».

    A quell’interruzione, alzò incupito lo sguardo e aspettò che parlassi.

    «Qual è la regola sulla musica e i cellulari durante i pasti?».

    Fece una smorfia. Mi preparai per la quotidiana lite mattutina.

    «Questo non è un pasto», disse, togliendosi un auricolare. La cordicella bianca penzolò sulla sua felpa nera con cappuccio, ondeggiando per un secondo; dalla cuffia fuoriuscivano decibel su decibel di rumore che gli stavano distruggendo il timpano. Non volevo litigare di nuovo sulla questione.

    «Sì che lo è. Adesso spegni la musica e metti il cellulare a faccia in giù sul bancone».

    «Che gran cazzata», borbottò, sbattendo giù il telefono e levandosi l’altro auricolare.

    «Modera il linguaggio, Jayden».

    «Chissene», disse prima di continuare a mangiare. Non si prese la briga di spegnere la canzone. Sentivo ancora con chiarezza quel fracasso heavy metal decorato da parolacce. Decisi di non prendermela con lui per le sue preferenze in fatto di musica. Potevo affrontare solo una battaglia alla volta.

    «Hai finito i compiti ieri sera?», chiesi. La mia semplice domanda stava per scatenare un altro scontro nella nostra guerra perenne. Quando non rispose, avanzai nel suo campo visivo con le braccia conserte. «Allora?».

    Il telefono di Jayden vibrò e si spostò leggermente sul bancone. Lo raccolse in fretta per leggere la notifica. «È Ben, devo andare». Balzò dallo sgabello, lasciandosi alle spalle la colazione consumata a metà e il disordine.

    «Jayden». Usai quel poco di autorità che la mia voce sapeva esternare. «Fammi vedere i compiti».

    Si voltò di colpo verso di me afferrando lo zaino. «Devo andare, mamma. Il padre di Ben mi sta aspettando».

    Una volta era felice che lo accompagnassi a scuola, proprio fin davanti all’ingresso. Adesso non potevo portarcelo senza imbarazzarlo, anche se lo lasciavo a un chilometro di distanza. Non c’è nulla che avvilisca una mamma più del proprio figlio che la respinge.

    Il suono di un clacson confermò che il passaggio di Jayden era arrivato. Non potevo impedirgli di andarsene senza disturbare il padre di Ben. Sapere com’era quell’uomo mi diede la mia risposta.

    «Ne riparleremo quando torni a casa».

    «Non ci sono stasera, ricordi?».

    La porta si chiuse sbattendo prima che avessi la possibilità di aggiungere qualcosa. Un’altra vittoria per me, se vincere significava arrendersi per un nonnulla. Darren e io dovevamo andare a cena fuori, mentre Jayden avrebbe passato la serata a casa di un amico. Per quando ci saremmo ritrovati tutti a casa, mi sarei dimenticata dei suoi compiti, e lui lo sapeva.

    Emisi un sospiro lunghissimo e ritornai in cucina sbuffando. Non dovevo iniziare a lavorare prima delle nove, quindi passai l’ora seguente a pulire la baraonda che la mia famiglia mi lasciava quotidianamente. Jayden e Darren lo facevano apposta, solo per vedere se avrei continuato a servirli; potevo metterci la mano sul fuoco.

    Il più delle volte la cosa non mi dava troppo fastidio, ma la distrazione di Darren e gli sbalzi d’umore adolescenziali di Jayden cominciavano a rendere il ruolo della moglie e madre solidale un’impresa ardua ed estenuante. Ovviamente la nostra labrador color cioccolata pensò bene che quello fosse il momento perfetto per iniziare ad abbaiare all’impazzata alla porta di servizio. Sgridai il nostro cane, urlando il suo nome, Bessie, quando un bicchiere di vino catturò il mio sguardo. Resistetti alla tentazione di versarmi un po’ di vino con il sole che stava ancora sorgendo. La situazione non era ancora arrivata a quel punto. Mi strinsi nella vestaglia e mi diressi verso il cane che ancora guaiva.

    «Che diavolo di problema hai oggi?», gridai, scaricando tutto lo schifo di quella mattina su Bessie. Era l’ultimo membro della mia famiglia che aveva deciso di portarmi al limite.

    Nonostante la mia scontrosità, l’animale continuò ad abbaiare alla porta di servizio. «Vuoi uscire?», chiesi allargando le braccia, alla ricerca di una risposta per l’improvviso comportamento irrazionale di Bessie.

    «Cristo santo», dissi, aprendo la porta spessa e lasciando trottare l’animale attraverso il piccolo spiraglio. Decisi di dare una sbirciata fuori per vedere il motivo della sua agitazione. Com’era prevedibile, non scorsi nient’altro che il nostro enorme cortile. Darren, quando ci eravamo trasferiti, mi aveva promesso che si sarebbe dedicato al giardinaggio. Adesso però era davvero troppo impegnato con la sua ditta edile.

    Bessie corse dritto verso il lato della staccionata che confinava con la strada del nostro isolato. Il cane si concentrò su un unico punto, senza cessare i suoi forti latrati. I vicini ne sarebbero stati davvero contenti.

    «Bessie!», urlai, forse facendo più rumore del cane. La labrador non reagì, il che mi obbligò ad avventurarmi fuori. Era un’altra mattina gelida che annunciava neve. Di solito non affrontavo un tempo del genere senza un cappotto decente, ma quel giorno non avevo scelta. Sentivo che ogni latrato del cane mi portava sempre più vicina all’uscire di senno.

    Avanzai con passo pesante verso Bessie e vidi che stava graffiando la staccionata come un animale selvatico. «Smettila!», strillai.

    Come se mi notasse per la prima volta, si accucciò con la coda tra le zampe. Qualcosa le stava dando sui nervi.

    «Non c’è niente lì, Bessie. Torna dentro e smettila di imbarazzarmi». La afferrai per il collare e la ricondussi in casa. Continuò a fissare la staccionata e a mugolare.

    «Lascia stare. È solo una staccionata», dissi, assolutamente convinta che il nostro cane fosse impazzito.

    Quanto avevo torto.

    Capitolo tre

    Trascorsi il resto della giornata come al solito: pulii la casa in fretta e furia, guidai verso l’università trovando poco traffico e spettegolai un po’ coi colleghi prima di dedicarmi alle numerose incombenze di cui mi dovevo occupare. Sulla carta il mio lavoro era semplice, ma in realtà l’università ci spremeva in ogni modo possibile e legale. In ogni caso mi piaceva stare lì.

    Quando me ne andai, poco dopo le cinque, notai una delle mie colleghe che piangeva nel parcheggio. Era poco più di una ragazza e aveva iniziato solo due settimane prima nel dipartimento accanto al mio. Anche lei si chiamava Emma. Era appoggiata all’auto. Vedere quella povera ragazza mi rammentò che mi sarebbe capitato di lavorare con un’altra Emma. Brontolai al pensiero, dato che non avevo bisogno di ulteriore confusione.

    Pensai di andarmene, perché non volevo impicciarmi, ma il mio istinto materno si attivò e mi impedì di scappare.

    «Emma?», dissi sottovoce quando mi avvicinai, attenta a non spaventarla.

    La ventenne bionda cercò di voltarsi brevemente per nascondere le lacrime. Poi si girò di nuovo verso di me con un sorriso forzato. «Sì?»

    «Va tutto bene?».

    Tirò su col naso. «Va tutto bene, scusa. Non preoccuparti per me».

    «Però stai piangendo. È successo qualcosa?».

    Emma scosse la testa. «Niente. Va tutto bene. Starò bene. È che…».

    Diedi una rapida occhiata all’orologio, con il massimo della discrezione. Dovevo sbrigarmi se volevo tornare a casa in tempo per la cena con Darren. Avevamo prenotato in un ristorante italiano di lusso. Jayden avrebbe fatto visita a un amico e saremmo andati a prenderlo più tardi. Non potevo mancare all’appuntamento. Non passavamo una serata solamente io e lui da mesi, forse di più. Avevamo bisogno di stare insieme.

    Emma continuò. «Non è nulla. Ho solo dei problemi con il mio ragazzo».

    Con lo sguardo perso, assorbii le parole che le uscivano dalla bocca e capii subito che si trattava di una bugia. Crescere un adolescente mi aveva dato la sbalorditiva abilità di capire quando qualcuno stava mentendo, anche se conoscevo Emma a malapena. Tuttavia, non avevo tempo per approfondire la questione, così usai la sua menzogna come via di fuga.

    «Ecco, be’, digli di non prenderti in giro. Mi dispiace davvero, ma devo andare». Indicai col pollice l’auto.

    Emma spalancò gli occhi. «Oh, certo. Non preoccuparti per me. Mi serve solo qualche secondo per sfogarmi un po’ e starò bene. Ti prego, vai».

    «Grazie», mormorai mentre il senso di colpa mi annodava la gola. Dopo la mattinata ostica con la mia famiglia, avevo quasi esaurito la mia solidarietà e avevo bisogno che le cose, per una volta, andassero come volevo io. «Ci vediamo domani», aggiunsi, indietreggiando senza grazia. Ero sicura che prima o poi il karma me l’avrebbe fatta pagare.

    Mentre mi allontanavo, sentii Emma singhiozzare ancora un po’. Cercai di non pensare ai suoi problemi e mi affrettai verso l’auto prima di cambiare idea. In un qualsiasi altro giorno sarei stata disposta ad ascoltarla, ma non quella sera. Ero finalmente riuscita a costringere Darren a uscire fuori a cena. Cercai di ricordare quanto tempo fosse passato dall’ultima volta. Il nostro matrimonio ne aveva bisogno. Le cose tra di noi non stavano andando granché bene.

    Dopo aver raggiunto l’auto, mi misi alla guida in maniera meccanica e il solito tragitto noioso verso casa passò in un lampo, mentre ascoltavo non so quale stazione radio. Il mix generale di canzoni che un tempo mi piaceva tanto si fondeva alla perfezione con le notizie deprimenti e il bollettino sul traffico. Quasi spensi quel rumore di sottofondo prima di giungere a casa. Per qualche ragione non lo sopportavo più. Era diventato troppo un’abitudine.

    Quando arrivai a casa, pochi minuti dopo le sei, notai che il pick-up di Darren non era sul vialetto d’accesso. «Ti pareva», dissi a voce alta. Resistetti all’impulso di imprecare. Invece gli diedi il beneficio del dubbio. Erano solo le sei e dieci, quindi non potevo già perdere le staffe.

    Se ne andarono altri venti minuti, che passai ad aggiustarmi il trucco e a cambiarmi d’abito, desiderando disperatamente che mio marito si desse una cavolo di mossa a tornare a casa. La nostra prenotazione delle sette incombeva. Il forte ticchettio dell’orologio del nonno nel corridoio fuori dalla nostra camera da letto mi rammentava che presto non avrei avuto altra scelta se non quella di prendere il cellulare e sbraitare a Darren non appena avrebbe risposto… se si fosse degnato di rispondere.

    Le sette scoccarono e passarono, e mi ritrovai seduta sul bordo del letto. A illuminare la stanza c’era solamente la luce del bagno adiacente. Ero troppo arrabbiata per chiamare. Il cellulare giaceva nella mia presa sempre più rigida; la foto della mia famiglia che avevo per sfondo mi fissava. Ed eccomi lì, accoccolata a Darren, con Jayden nel mezzo del nostro abbraccio. La foto risaliva a più di quattro anni prima. Era l’ultimo momento felice che mi ricordavo. Da quel momento in poi, avevamo affrontato il mare in tempesta. L’attività di Darren era cresciuta di anno in anno, ma a farne le spese era stata la nostra famiglia. Più si espandeva, meno tempo lui ci riservava.

    Non era la prima cena a cui Darren mancava. Il mio precedente tentativo di obbligarlo a trascorrere del tempo con la propria moglie dopo il lavoro era fallito più velocemente di quest’ultimo. A quanto pareva, aveva avuto un’emergenza da gestire riguardante l’appalto da cui dipendeva tutta la sua attività. Ancora ricordavo la voce della segretaria Jessica in sottofondo che esortava Darren a riattaccare il telefono. Voleva che tornasse al lavoro. O voleva che tornasse da lei? Cercai di non lasciare che la mia mente giungesse a una tale conclusione.

    Il rombo del pick-up di Darren riempì il vialetto d’accesso, spronandomi ad alzarmi dal bordo del letto. Adottai la mia espressione impassibile e mi preparai per un’altra discussione che non volevo avere. Tuttavia, la rabbia mi spingeva a non lasciar perdere. Invece di gustarmi un bellissimo pasto cucinato da qualcun altro, avrei sprecato la serata a urlare imbestialita.

    Mentre mi preparavo a lasciare la camera per affrontare Darren di petto, scossi la testa guardando la lingerie che avevo scioccamente tirato fuori in vista del nostro ritorno a casa dal ristorante. Afferrai l’indumento nero e setoso e lo spinsi dentro il cassetto, chiudendolo con veemenza un secondo dopo. Una foto del

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