Baciata da uno sconosciuto: Harmony Collezione
Di Lucy Ellis
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Info su questo ebook
Maisy Edmonds è furiosa quando uno sconosciuto tenta di sottrarle il bambino di cui si sta prendendo cura, per di più rubandole allo stesso tempo un bacio incredibilmente sfacciato. Oltre che indimenticabile.
L'infanzia dura e ingenerosa ha fatto sì che Alexei Ranaevsky non si sia mai concesso legami e affetti. Ma ora, una volta scoperta la dolcezza e la sincerità della giovane Maisy, tutte le sue certezze cominciano a vacillare.
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Anteprima del libro
Baciata da uno sconosciuto - Lucy Ellis
Titolo originale dell’edizione in lingua inglese:
Innocent in the Ivory Tower
Harlequin Mills & Boon Modern Romance
© 2011 Lucy Ellis
Traduzione di Cristina Ingiardi
Questa edizione è pubblicata per accordo con
Harlequin Books S.A.
Questa è un’opera di fantasia. Qualsiasi riferimento a fatti o
persone della vita reale è puramente casuale.
Harmony è un marchio registrato di proprietà
HarperCollins Italia S.p.A. All Rights Reserved.
© 2013 Harlequin Mondadori S.p.A., Milano
eBook ISBN 978-88-5899-227-2
1
Alexei Ranaevsky attraversò a grandi falcate l’ampia e luminosa sala dello yacht e raccolse il quotidiano che un membro del suo staff era stato abbastanza negligente da lasciarsi dietro.
Aveva chiarito bene che non voleva vedere alcun reportage sulla tragedia Kulikov, ma adesso che lo shock iniziale stava svanendo, si ritrovò suo malgrado attratto da quello che poteva solo essere definito un circo mediatico. Come smantellarlo era il suo problema del momento; a come piangere il suo migliore amico avrebbe pensato dopo.
I fatti erano passati in terza pagina. Un’immagine di Leo e Anais a un concorso ippico a Dubai, la testa dell’uomo rovesciata all’indietro mentre rideva, il braccio avvolto intorno alla vita snella della moglie. Una coppia di successo. Di fianco, proprio ciò che Alexei non voleva vedere: una fotografia del rottame straziato dell’auto. L’Aston Martin del 1967, la bambina di Leo, nient’altro che acciaio e dispositivi elettronici distrutti. I corpi, molto umani, di Leo e Anais non avevano avuto alcuna chance.
La didascalia sottostante – perché non la si poteva certo definire un articolo – era un ammasso di aggettivi, zeppo di riferimenti alla bellezza di Anais e al lavoro di Leo per l’ONU. Alexei la scorse in fretta, quindi trattenne il respiro.
Konstantine Kulikov. Kostya.
C’era qualcosa nel vedere quel nome nero su bianco che rese intensamente reale ciò che ormai da giorni viveva come un incubo. Almeno non c’erano immagini del bambino.
«Alexei?»
La testa si raddrizzò di scatto, la mascella tesa. Per un attimo, non riuscì a ricordarne il nome. «Tara» disse quindi.
Se notò il vuoto di memoria, la bellissima donna non lo diede a vedere. «Ti stanno aspettando tutti, caro» gli fece presente in tono mieloso, coprendo lo spazio che li separava e togliendogli il giornale dalle mani. «Non devi leggere questa immondizia. Devi riacquistare il controllo di te, andare là fuori e mostrare una faccia civile di fronte a questo pasticcio.»
Erano tutte cose che sapeva anche lui, ma qualcosa, qualche importante connessione tra il suo cervello e le sue emozioni, era saltato. Molti avrebbero detto che lui non aveva emozioni. Ma c’era qualcosa che gli si stava gonfiando dentro, e che non riusciva a controllare.
Kostya. Orfano.
Il pasticcio di Tara.
«Lasciamoli aspettare» replicò freddo, l’inglese colorito dall’accento russo. «E cosa diamine hai addosso? Non è un cocktail party, è un raduno di famiglia!»
Tara fece una risatina. «Famiglia? Non farmi ridere! Quella gente non è la tua famiglia.» Protendendosi verso di lui, gli premette la mano dagli artigli carminio sull’addome, teso sotto la costosa camicia color crema. «Tu hai lo stesso spirito di famiglia di un gatto, Alexei» affermò, il viso rivolto verso l’alto, le labbra umide e rosse, le dita che si facevano strada verso il suo inguine. «Un gatto grosso, cattivo, selvaggio. Molto grosso.» La mano si fermò. «Non sei in vena di giocare oggi, tesoro?»
Il suo corpo aveva iniziato a reagire come la lunga familiarità con l’intero processo gli aveva insegnato, ma il sesso non era sulla sua agenda del giorno. Non c’era fin da lunedì, quando il suo braccio destro, Carlo, gli aveva portato la notizia a notte fonda. Ricordava l’accendersi improvviso della lampada, la voce bassa del factotum mentre gli riferiva i fatti nudi e crudi, così come erano avvenuti. Poi era rimasto solo nel letto enorme, affogando nel vuoto. Tara gli era accanto, addormentata come un sasso sotto l’effetto di qualunque droga avesse preso per dormire. Un corpo. Era rimasto solo.
Non voglio mai più fare sesso con questa donna. Le afferrò il braccio e, con gentilezza ma fermamente, la voltò di centottanta gradi verso la porta.
«Vai» le mormorò in un orecchio. «Raggiungili sul ponte. E non bere troppo» concluse in tono gelido.
Tara era stata al mondo abbastanza da sapere di star sperimentando il famigerato Tocco Gelido Ranaevsky; solo non si era aspettata di provarlo in prima persona, o almeno non tanto presto. «Danni aveva ragione. Sei un dannato bastardo.»
Alexei non aveva la minima idea di chi fosse Danni, né gliene poteva importare di meno. Voleva semplicemente Tara fuori dalla cabina, fuori dalla propria vita. Voleva che se ne andassero tutti dal suo yacht. Voleva riportare indietro il tempo, a domenica. Più di tutto, voleva riprendere il controllo della situazione.
Mentre usciva impettita dalla porta, la ragazza gli lanciò una frecciata. «Come diamine pensi di poterti occupare di un bambino?»
Gli occhi scuri di Alexei fissarono la costa della Florida, visibile attraverso le vetrate panoramiche. Avrebbe iniziato con il fare quel che doveva. Parlare con Kostya, un bambino di due anni. Ma, per farlo, prima doveva attraversare l’Atlantico.
«La civetta e il gattino andavano per mare su una bellissima barchetta verde pisello» canticchiò Maisy inarcata sul bimbo raggomitolato nel lettino accanto a lei. Fin lì era stato impegnatissimo a succhiarsi il pugno paffutello, ma, mentre il sonno lo vinceva, la boccuccia rosea si chiuse. Era bello vederlo così in pace.
Raddrizzandosi, la ragazza esaminò la stanza. La nursery era sempre la stessa, un grembo sicuro, ma fuori era cambiato tutto. Per quel bambino, e per sempre.
Camminando sulle punte dei piedi, Maisy chiuse la porta. L’interfono era acceso, e per esperienza sapeva che a quel punto il piccolo avrebbe dormito fin dopo la mezzanotte. Era la sua occasione di mangiare qualcosa e poi fare lei stessa un riposino. Nelle ultime trentasei ore, era stata sveglia quasi ininterrottamente.
Due piani sotto, la cucina era fiocamente illuminata. Valerie, la governante dei Kulikov, le aveva lasciato accesi i faretti sulla zona pranzo, che riverberavano quasi spettrali. Le aveva lasciato anche un piatto di pasta al formaggio in frigorifero, pronta da riscaldare, e la ragazza la ringraziò mentalmente mentre faceva scivolare il contenitore nel microonde.
Quella settimana, Valerie era stata un vero dono del cielo. Quando era giunta la notizia dell’incidente, Maisy era in camera a fare i bagagli per le ferie, che avrebbe dovuto iniziare il martedì. Ricordava di aver riattaccato il telefono e di esservi rimasta seduta accanto per una buona decina di minuti prima di riuscire anche solo a pensare alla mossa successiva. Poi aveva chiamato Valerie, e la vita aveva ripreso a scorrere.
Sia lei sia la governante si erano aspettate di vedere irrompere le famiglie di Leo e Anais, ma la casa sulla tranquilla piazza londinese era rimasta silenziosa. Valerie continuava a lavorare durante il giorno e a tornare a casa per la notte, mentre Maisy si occupava delle proprie responsabilità aspettando una preghiera che ancora non era arrivata. Voglio la mamma.
La stampa era rimasta appostata lì per un paio di giorni. Valerie aveva tenuto le tapparelle abbassate, e lei aveva portato fuori il bambino solo una volta, nel giardino privato al di là dalla strada. Aveva lavorato per i Kulikov fin dalla nascita di Kostya, vivendo in quella casa per tutto il tempo. Leo e Anais viaggiavano spesso, e lei era abituata a rimanere da sola con il piccolo per settimane di fila. Eppure, quella notte c’era qualcosa... di vuoto. La dimora era troppo silenziosa, e la ragazza si ritrovò a sobbalzare al trillo del microonde. Ne aprì lo sportello con mano tremante.
Datti una calmata, si disse severa, portando a tavola il contenitore.
Dalla pasta si levò uno sbuffo di vapore. Doveva mangiare, per mantenersi in forza. La forchetta vagò lungo i bordi. La mente continuava a presentarle l’immagine di Anais. Ripensò alla prima volta che l’aveva incontrata. Lei, una piccola e tozza secchiona, incaricata dalla preside di introdurre la snella e incredibilmente alta Anais Parker-Stone ai rituali della Santa Bernice. Allora Anais non sapeva che Maisy era lì grazie a un ente di beneficenza, il suo posto nell’esclusivo college femminile era garantito da un programma governativo. Quando lo aveva scoperto, il suo atteggiamento era rimasto immutato. Se Maisy era stata ostracizzata per le proprie origini, Anais lo era stata per l’altezza.
Per due anni, le ragazze erano state amiche intime, finché Anais non aveva lasciato la scuola a sedici anni, quattro mesi dopo aver iniziato a fare la modella a New York. Due anni più tardi era famosa.
Crescendo, Maisy aveva perso il grasso infantile, guadagnato una vita e alcuni centimetri di gambe e le curve erano diventate un punto di forza. L’unico contatto con Anais era tramite le riviste patinate su cui l’altra spopolava. Quando l’aveva incrociata da Harrods, era stata Anais, con un caschetto biondo morbido e lucente e tacchi alti, a riconoscerla. Con un gridolino di gioia, le aveva messo le braccia sottili sulle spalle, saltellando su e giù come una ragazzina. Una ragazzina incinta. Tre mesi dopo, Maisy era piazzata in Lantern Square, con un neonato tra le braccia e una Anais sopraffatta dalle lacrime che minacciava di scappare di casa alla prima occasione. Nessuno le aveva detto che la maternità non era un lavoro da cui ci si poteva dimettere, e che durava per tutta la vita.
Una vita decisamente troppo breve, come era risultato. Maisy smise di far finta di mangiare e allontanò il piatto. Ormai ogni giorno era buono perché un avvocato dei Kulikov, o più probabilmente dei Parker-Stone, si presentasse alla porta. Gente che si sarebbe portata via Kostya. A proposito dei Kulikov, Maisy sapeva solo che Leo era figlio unico e che era orfano. E Arabella Parker-Stone... La mente di Arabella stava svanendo, e la donna era ricoverata in una casa di riposo. Kostya non sarebbe andato a vivere con la nonna materna.
Ma non vivrà nemmeno con me.
Non sapeva come sarebbe riuscita ad affidare il piccolo a degli estranei. Quel bambino era diventato la sua famiglia; ma, cosa ancor più triste, lei era l’unica famiglia rimasta a Kostya. In qualche maniera, doveva trovare il modo di stare con lui.
Facendo un respiro profondo, Maisy rimestò nel contenitore della pasta e prese una forchettata di cibo, masticando sovrappensiero. Aveva bisogno di energia.
Fu un movimento, e non un rumore, a strapparla dalle sue tristi elucubrazioni con un’improvvisa scossa di adrenalina. Qualcosa scivolò alla periferia del suo campo visivo e lei sollevò la testa di scatto, le spalle rigide. In casa c’era qualcuno. Si impietrì, tesa ad ascoltare.
In quell’istante, due individui sbucarono dall’oscurità ristagnante dietro l’isola della cucina e, mentre registrava la loro presenza, la stanza si affollò. Tre uomini salirono di corsa le scale, mentre altri due spuntavano all’improvviso dalla porta che dava sul giardino. Che tutti indossassero abiti eleganti non la rassicurò affatto. Mentre la forchetta le cadeva di mano, si allontanò dalla sedia a passi incerti.
Il più basso le si avvicinò.
«Mani dietro la testa. A terra.»
Subito un altro, più alto, più snello e più giovane, lo spinse da parte dicendo bruscamente qualcosa in una qualche lingua straniera.
Maisy lo fissò a bocca aperta, inchiodata al pavimento dallo shock. Oh, Dio, la mafia russa. Quel pensiero isterico le balzò in mente nello stesso istante in cui l’uomo giovane si mosse verso di lei, e il corpo di Maisy reagì in un istinto di autoprotezione. Afferrata la sedia, gliela gettò addosso con tutta la propria forza. Quindi urlò.
2
«Alexei. Forse dovremmo aspettare.»
Alexei si era degnato appena di gettare un’occhiata al proprio