I mužikì: versione filologica del racconto
Di Anton Čechov
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Anteprima del libro
I mužikì - Anton Čechov
Antón Pàvlovič Čechov
I mužikì
versione filologica del racconto
(1897)
a cura di Bruno Osimo
Copyright © Bruno Osimo 2020
Titolo originale dell’opera: Мужики
Traduzione dal russo di Virginia Bianchi; Francesca Cerutti; Greta Fardello; Andrea Briselli; Linda Magugliani; Alessia Pendolino; Federico Nicoletti
Bruno Osimo è un autore/traduttore che si autopubblica
La stampa è realizzata come print on sale da Kindle Direct Publishing
ISBN 9788831462136 per l’edizione cartacea
ISBN 9788831462129 per l’edizione elettronica
Contatti dell’autore-editore-traduttore: osimo@trad.it
Traslitterazione
La traslitterazione dei nomi è fatta in base alla norma ISO 9:
â si pronuncia come ‘ia’ in ‘fiato’ /ja/
c si pronuncia come ‘z’ in ‘zozzo’ /ts/
č si pronuncia come ‘c’ in ‘cena’ /tɕ/
e si pronuncia come ‘ie’ in ‘fieno’ /je/
ë si pronuncia come ‘io’ in ‘chiodo’ /jo/
è si pronuncia come ‘e’ in ‘lercio’ /e/
h si pronuncia come ‘c’ nel toscano ‘laconico’ /x/
š si pronuncia come ‘sc’ in ‘scemo’ /ʂ/
ŝ si pronuncia come ‘sc’ in ‘esci’ /ɕː/
û si pronuncia come ‘iu’ in ‘fiuto’ /ju/
z si pronuncia come ‘s’ in ‘rosa’ /z/
ž si pronuncia come ‘s’ in ‘pleasure’ /ʐ/
I mužikì
I
Nikolaj Čikil’déev, cameriere dell’albergo moscovita Slavânskij Bazar, si ammalò. Gli si intorpidirono le gambe e la sua andatura cambiò, così che un giorno, camminando per il corridoio, inciampò e cadde insieme a un vassoio con prosciutto e piselli. Fu costretto a lasciare il lavoro. Spese tutti i soldi, suoi e di sua moglie, in cure, non avevano più niente da mangiare, si annoiava senza far nulla e, per forza di cose, dovette tornare a casa sua, al paese. A casa anche essere malati è più lieve, e vivere costa meno; e non per niente si dice: di casa propria i muri ci si sente sicuri.
Arrivò nella sua Žùkovo verso sera. Nei ricordi d’infanzia il nido natale gli appariva luminoso, accogliente, confortevole, ma ora, una volta nell’izbà, gli venne persino paura, tanto era buio, angusto e sporco. La moglie Ol'ga e la figlia Saša, che erano andate con lui, con perplessità osservavano la grande e sudicia stufa, che occupava quasi metà dell’izbà, scura per la fuliggine e le mosche. Quante mosche! La stufa era tutta inclinata, le travi delle pareti storte e sembrava che l’izbà crollasse da un momento all’altro. Nell’angolo anteriore, vicino alle icone, erano attaccate etichette di bottiglia e brandelli di carta di giornale – al posto dei quadri. Che miseria, che miseria! Non c’era nessun adulto in casa, erano tutti a mietere. Sulla stufa sedeva una bambina di otto anni dalla testa bianca, sporca, indifferente; non degnò di uno sguardo i nuovi arrivati. Sotto, una gatta bianca si strusciava contro la rogač[1] della stufa.
«Micio, micio!» lo chiamava Saša. «Micio!»
«Non ci sente» disse la bambina. «È diventata sorda».
« Come mai?»
« Così. L’hanno picchiata».
Nikolaj e Ol'ga capirono subito che vita avrebbero avuto in quel posto, ma nessuno lo disse all’altro; in silenzio disfecero i bagagli e sempre in silenzio uscirono in strada. La loro izbà era la terza dal fondo e dava l’idea di essere la più misera, la più vecchia; la seconda non era tanto meglio, ma perlomeno l’ultima aveva un tetto solido e le tende alle finestre. Questa izbà, non recintata, era in disparte e aveva una locanda all’interno. Le izbe erano su un’unica fila, e tutto il villaggio, tranquillo e pensieroso, con salici, sambuchi e sorbi che sbucavano dai cortili, aveva un aspetto piacevole.
Dietro i poderi dei contadini iniziava una discesa verso il fiume, ripida e scoscesa, tanto che nell’argilla si distinguevano qua e là enormi pietre. Lungo il pendio, vicino a queste pietre e buche scavate dai vasai, si snodavano sentieri, si accumulavano cocci di vasellame di colore marrone e rosso, al di sotto si estendeva un’enorme area pianeggiante con un prato verde acceso, già falciato, su cui stava pascolando un gregge dei contadini.