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In disgrazia del cielo e della terra: L'amore omosessuale nella letteratura italiana
In disgrazia del cielo e della terra: L'amore omosessuale nella letteratura italiana
In disgrazia del cielo e della terra: L'amore omosessuale nella letteratura italiana
E-book404 pagine6 ore

In disgrazia del cielo e della terra: L'amore omosessuale nella letteratura italiana

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Info su questo ebook

Le lettere d’amore di Leopardi, le novelle giocose di Boccaccio; e ancora, il carteggio privato di Machiavelli, il romanzo nascosto di Saba, i sonetti lussuriosi del Rinascimento.
La letteratura italiana ha raccontato, nei secoli, l’amore tra uomini: molti sono gli autori che si sono espressi sul tema e molti quelli che hanno osato parlare di sé e della propria natura, nonostante gli anatemi e le censure.
Per la prima volta in assoluto, si ricostruisce l’intero percorso dell’omosessuale nella nostra letteratura: dai sodomiti della Divina Commedia ai ragazzi di vita di Pasolini, si ripercorre la storia di un amore vietato, condannato a essere «in disgrazia del cielo e della terra», come Michelangelo diceva di sé.
LinguaItaliano
EditoreRogas
Data di uscita24 apr 2023
ISBN9791222089300
In disgrazia del cielo e della terra: L'amore omosessuale nella letteratura italiana

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    Anteprima del libro

    In disgrazia del cielo e della terra - Francesco Gnerre

    Introduzione - La ricerca di una tradizione

    Solo nel lasciare testimonianza scritta del loro amore prenderanno anche corpo le loro identità

    Pier Vittorio Tondelli

    Scrivere una storia dell’amore tra uomini nella letteratura italiana ci sembrava oggi, prima di tutto, doveroso. Tra le comunità che nella storia sono state vittime di persecuzioni e discriminazioni, quella omosessuale infatti ha pagato e paga ancora il prezzo più alto, perché è stata privata anche di una tradizione in cui riconoscersi.

    La costruzione di sé passa anche e soprattutto attraverso la ricerca delle proprie radici: familiari, etniche, culturali, intime. Collocando e contestualizzando sé stessi nella storia si riesce più facilmente a riconoscersi nella propria interezza di individuo: questo vale per la consapevolezza delle proprie origini familiari, per lo studio delle proprie radici etniche o religiose, per la costruzione di un’identità patriottica, e quindi vale sicuramente anche per il proprio orientamento sessuale. O almeno, vale in un mondo in cui c’è ancora bisogno di fare queste osservazioni.

    A formare la propria identità oggi contribuiscono molto il cinema e i social media, ma nei secoli scorsi (e spesso ancora oggi) l’immaginario è stato veicolato in modo molto forte dalla letteratura.

    Tuttavia, nella letteratura la comunità omosessuale ha trovato spesso la sua negazione; eppure una storia c’è, come c’è tutta una letteratura che, anche in periodi di forte repressione, ha provato a rappresentare questa realtà. Tali rappresentazioni sono state cancellate, negate dalla cultura ufficiale.

    Oggi, che l’omosessualità non è più una malattia e nemmeno un vizio o un peccato, una storia della letteratura omosessuale italiana, o meglio, la storia dell’omosessuale nella letteratura italiana, non è solo possibile, ma a questo punto è necessaria, come sono necessarie le storie di tutte le minoranze. Ci sembra opportuno provare a ricostruirla.

    Se tentiamo però di costruirne una attraverso le condanne o le parole di disgusto e riprovazione, rischiamo di scrivere la storia di una repressione. Leggendo, invece, non solo i sermoni di uomini di Chiesa, gli editti o le leggi contro la sodomia, ma anche i testi letterari o i carteggi privati, è possibile scoprire non solo una storia di repressione ma anche la storia di una resistenza.

    Spesso i testi letterari, nonostante le leggi e le censure, hanno rappresentato amori tra persone dello stesso sesso; immagini gay sono presenti nei nostri musei e perfino nelle nostre chiese, ma è come se fossero invisibili.

    Una storia di questo tipo non è facile perché le persone omosessuali, essendo vissute sempre in società ostili e repressive, hanno cercato di essere invisibili, di non lasciare tracce dei loro desideri e delle loro pratiche sessuali; essendo vissute in epoche in cui essere espliciti significava rischiare la vita, ricercare una tradizione significa anche misurarsi con delle strategie di occultamento e con un gioco costante tra autocensura ed emergenza del rimosso che è tipico del linguaggio letterario.

    Allo stesso tempo la difficoltà è anche quella di recuperare testi che leggiamo solo molti anni dopo la loro stesura perché censurati o pubblicati solo di recente. Questi testi, proprio per questo, hanno perso spesso la capacità di incidere sulla realtà, e scoperti con ritardo, come scriveva Pasolini, «non riusciranno mai ad ‘agire’ nelle coscienze» perché su di loro «deve sedimentarsi il tempo di lettura giusto, perché essi possano prendere e tenere il loro posto nelle storie letterarie».

    Una precisazione a questo punto diventa necessaria: l’obiettivo di questo lavoro non è quello di scandagliare la vita privata dell’autore andando alla ricerca dei suoi rapporti sessuali. Non è l’orientamento sessuale del poeta o dello scrittore il nostro interesse maggiore. Al contrario si vuole ricercare l’amore tra uomini nei testi letterari, cercando di capire in che modo esso sia stato rappresentato e come si sia riusciti a esprimerlo nonostante questo fosse vietato.

    Non vogliamo inoltre cadere nella tentazione di considerare sempre e solo l’aspetto fisico e sessuale dell’omosessualità, come se un rapporto tra uomini si potesse ricondurre esclusivamente a quello e non all’affettività; lo stesso termine «omosessualità» rimanda alla fisicità e all’atto sessuale, focalizzando l’attenzione su un unico aspetto di una realtà molto più complessa, spesso fatta di amore, di complicità e di stima reciproca. Se nell’immaginario collettivo ancora oggi si insiste tanto, forse troppo, su questo unico aspetto è perché, come diceva Mario Mieli, «se noi omosessuali appariamo a volte ridicoli, pietosi, grotteschi, ciò avviene perché non c’è concessa l’alternativa di sentirci esseri umani. I ‘pazzi’, i negri, i poveri fanno paura: l’oppresso reca sul viso il marchio dell’oppressione subita».

    Senz’altro alcuni di questi testi pongono poi dei problemi a noi lettori contemporanei, perché raffigurano l’omosessualità secondo codici culturali che ci sono molto distanti. Ad esempio, accanto ad amori tra maschi adulti, troviamo spesso, sul modello dell’antica Grecia, rapporti pederastici che a volte sfumano in rapporti pedagogici, altre volte in una forma di sessualità che possiamo definire «dello stupro», tipico di una società patriarcale dove l’unico depositario del potere e del piacere è il maschio adulto attivo che può disporre delle donne e dei fanciulli.

    Il nostro lavoro si concentra solo sui testi in italiano, escludendo la produzione in latino: questo perché la ricerca di una tradizione avviene anche a livello linguistico, ed è interessante scoprire le parole che la nostra lingua ha utilizzato nei secoli per nominare questo tema.

    Questo libro, inoltre, si occupa soltanto di omosessualità maschile. Era opportuno, infatti, limitare un campo di ricerca così vasto. Si auspica che presto un lavoro simile a questo possa essere fatto sull’omosessualità femminile.

    Il periodo storico preso in esame va dalle origini della letteratura italiana alla contemporaneità: si presenta quindi come il completamento di un primo lavoro che Francesco Gnerre, nel 1980, aveva iniziato con la pubblicazione de L’eroe negato sul Novecento italiano. Questo testo aggiunge quindi un importante tassello nella ricostruzione di una storia della letteratura omosessuale che ora può dirsi completa.

    Interessante, nel percorso cronologico che va dal Duecento al Novecento, sarà notare come quelli che venivano definiti pederasti, sodomiti, invertiti diventino dalla seconda metà dell’Ottocento in poi omosessuali veri e propri; ricordiamo infatti che un termine che definisca chiaramente l’esperienza dell’amore tra uomini nasce solo nel 1869, e diventa presto un’etichetta stringente con la quale gli autori del Novecento dovranno misurarsi e spesso scontrarsi. Michel Foucault nella Storia della sessualità ce lo spiega bene: l’interesse scientifico positivista per la varietà dei comportamenti sessuali umani porta a una specificazione nuova degli individui. In questo processo ciò che appare normale diventa normale (l’eterosessualità), e quindi normativo. L’amore per persone dello stesso sesso smette così di essere una pratica immorale, ma diventa una condizione psicopatologica, e l’omosessuale diviene il rappresentante di una specie deviata: «il sodomita era un recidivo, l’omosessuale è ormai una specie».

    Questo ci porta a fare una considerazione che risulta banale solo in apparenza: se il termine «omosessuale» è recente, non possiamo negare che gli omosessuali esistessero anche prima. Non essendoci ancora una divisione in termini tra omosessuale ed eterosessuale, prevaleva una concezione più fluida della sessualità. L’attrazione di alcune persone per individui del proprio sesso esisteva, ma era percepita in maniera diversa. È innegabile che, pur se elaborata diversamente dalle singole culture, l’omosessualità è un’esperienza antropologica universale, che è sempre esistita e quasi sempre, almeno dalla fine del mondo antico, ostacolata e repressa.

    La cultura dell’Ottocento e di tutto il primo Novecento invece elabora un apparato di saperi omofobici così pervasivo da interessare anche i secoli passati. La storia dell’omosessuale viene riletta come la storia di un malato, e la censura che ne consegue è così forte da farne scomparire ogni traccia, tanto che l’attrazione per persone del proprio sesso sembra appartenere solo alla cultura che si è sviluppata dopo gli anni Settanta del Novecento.

    È così che si arriva a femminilizzare il destinatario dei sonetti di Michelangelo, a cercare di far scomparire alcune lettere e poesie di Tasso, a sminuire le appassionate frasi di Leopardi a Ranieri; stessa sorte la subiranno in tempi molto più recenti Saba, Palazzeschi e lo stesso Pasolini.

    Censurato, mistificato, trascurato o escluso dalla storiografia, dalla cultura ufficiale e dalla trasmissione scolastica della letteratura, l’omosessuale è stato privato della propria memoria storica. La speranza è, innanzitutto, che questo testo possa contribuire a ricostruirla, rafforzando l’identità e l’orgoglio di una comunità oggi presente e attiva, che comincia ad essere riconosciuta. Allo stesso tempo, la speranza è che possa essere d’aiuto per tutti quei ragazzi e quelle ragazze che si scoprono soli di fronte all’accettazione della propria natura: che con loro, nel delicato processo di scoperta di sé, ci siano le parole tormentate di Michelangelo e le lettere struggenti di Leopardi a ricordargli che non sono soli.

    1. Non solo condanna - Storia di un altro Medioevo

    I sodomiti tra sonetti d’amore, salvazione dell’anima e triangoli amorosi

    Per scrivere una storia dell’omosessuale nella letteratura italiana bisogna cominciare dai testi medievali. È proprio in questo lungo periodo chiamato Medioevo che comincia a essere prodotta, lentamente, quella che noi oggi chiamiamo «letteratura italiana» ed è proprio in questo periodo che vanno a configurarsi i tratti di quella civiltà che noi riconosciamo come nazionale.

    Tornare ancora più indietro significherebbe entrare in contatto con una civiltà, quella romana (e, prima ancora, quella greca) che ha rappresentato l’amore tra uomini seguendo però paradigmi filosofici e comportamentali totalmente diversi dai nostri: significherebbe, insomma, parlare di tutt’altro argomento.

    Il paradigma di riferimento della civiltà medievale, e quindi della nostra, non è infatti quello della religione pagana, ma quello della cristianità: le prime grandi opere della nostra letteratura sono infatti ispirate ai testi biblici in modo totalizzante.

    La figura dell’omosessuale viene riletta attraverso l’episodio biblico di Sodoma. Questo episodio fornisce una chiave di lettura non solo all’uomo medievale: ancora oggi tale lettura resiste alla scienza, alla ragione e alle lotte di liberazione che ci sono state.

    Il passo è molto noto. Lot, un immigrato da poco arrivato in città, offre ospitalità a due angeli che arrivano nella città di Sodoma. Prima che il padrone di casa e i suoi ospiti celesti vadano a dormire, gli abitanti della città (solo gli uomini o anche le donne?) bussano alla casa di Lot e chiedono che faccia uscire i suoi ospiti perché vogliono «conoscerli». Lot si rifiuta, ma gli abitanti di Sodoma insistono. Di fronte a questa insistenza, gli angeli colpiscono con un abbaglio accecante gli abitanti della città e invitano Lot a lasciare la casa con la moglie e le figlie, perché Sodoma sarà distrutta. Andando via non devono guardare indietro. Quando Lot e la sua famiglia si allontanano, una pioggia di zolfo e fuoco distrugge la città di Sodoma e le altre città della pianura, fra cui Gomorra. La moglie di Lot, venendo meno agli ordini degli angeli, si volta indietro e viene trasformata in una statua di sale.

    L’episodio è stato nel corso dei secoli variamente interpretato. Che il verbo «conoscere» abbia il significato di «avere rapporti sessuali» non è un’interpretazione pacifica: secondo alcuni può voler dire anche semplicemente «fare conoscenza»: ma a questo punto perché punirli così duramente? Altri sostengono il fatto che gli abitanti di Sodoma, non accettando che Lot, un immigrato, ospiti degli stranieri, vengono meno al dovere di ospitalità, e per questo verrebbero puniti. Altri invece sottolineano che i vizi per i quali gli abitanti di Sodoma hanno meritato la distruzione sono tanti: idolatria, avidità, e non certo l’omosessualità.

    Ad ogni modo, quale che possa essere l’interpretazione dell’ira divina del testo biblico, l’episodio è stato utilizzato nei secoli successivi per avallare la condanna senza appello degli omosessuali; se Dio ha punito col fuoco i sodomiti, con il fuoco debbono essere distrutti i sodomiti dei secoli a venire.

    Per comprendere l’ostilità cristiana possiamo allora provare a risalire alla cultura ebraica, di cui il Cristianesimo è l’erede, ma anche qui permangono problemi di non facile soluzione. Originariamente c’era un fondo culturale comune del vicino Oriente che non era ostile all’erotismo, o meglio, alle varie forme dell’erotismo: basti pensare al Cantico dei Cantici, a Davide e Gionata, a Gilgamesch e Enkiddu. Sappiamo anche che esisteva una forma di prostituzione sacra, tanto omosessuale che eterosessuale. Insomma, sembra che solo da un certo punto in poi il giudaismo sia diventato ostile all’omosessualità. Difficile dire con certezza quando, come e perché.

    Quello che è certo è che la Chiesa diventa, fin dagli esordi, la più efficace fucina di omofobia: basti pensare ai roghi contro i sodomiti o alla quantità di opere religiose scritte per condannare il «turpe vizio». Come esempi, tra i tanti, citiamo san Pier Damiani, autore del Liber Gomorrhianus, il francescano Iacopone da Todi, san Bernardino da Siena, Girolamo Savonarola.

    In particolare, il libro di Gomorra di san Pier Damiani è un trattato di morale del 1051 che denuncia con grande sdegno la sodomia, considerata una perversione che «sorpassa tutte le altre in turpitudine», «corrompe la carne, estingue il lume della mente», «apre le porte dell’Inferno e chiude i cancelli del cielo». L’elemento curioso è che Pier Damiani descrive, con particolari anche scabrosi, una varietà di rapporti particolarmente diffusi, a suo dire, proprio nella Chiesa, tanto da mettere in difficoltà papa Leone IX che non aderisce alle sue richieste di rimuovere dalla loro carica gli ecclesiastici colpevoli del peccato di sodomia. Non solo, ma il Papa, dopo averlo elogiato per la sua rettitudine, prende le distanze dalla sua viscerale ostilità nei confronti dell’omosessualità: «hai scritto ciò che sembrava meglio per te», spiega, e conclude dicendo che

    noi, agendo più umanamente, desideriamo e ordiniamo che quelli che hanno emesso il seme o con le loro mani o scambievolmente con qualcun altro, e anche quelli che l’hanno emesso per coito interpersonale, se non è una pratica che dura da molto tempo o compiuta con molti uomini, e se essi hanno trattenuto i loro desideri ed espiato questi vergognosi peccati con una penitenza adeguata, siano ammessi alla stessa carica che tenevano al momento del peccato, confidando nella misericordia divina.

    La moderazione della risposta di papa Leone IX fa riflettere. D’altronde dobbiamo aggiungere che esiste tutta una letteratura che esaltava l’amicizia tra uomini dentro i monasteri e spesso tale amicizia, a prescindere da come venisse realmente vissuta, aveva tutte le caratteristiche dell’amore omosessuale: lo studioso John Boswell sostiene che negli anni che vanno dal 1050 al 1150 c’è una «fioritura di cultura gay» e un’evoluzione dell’amore ascetico della tradizione monastica verso una letteratura chiaramente erotica, caratterizzata da una singolare commistione tra cultura pagana e cultura cristiana.

    L’omosessualità nella Chiesa doveva essere quindi un argomento piuttosto comune, che si preferiva trattare con una certa indifferenza, tolleranza o semplicemente omertà, piuttosto che affrontarlo di petto come aveva provato a fare Pier Damiani.

    Nella condanna senza appello del peccato di sodomia si distinguono anche i versi di Iacopone da Todi (1230-1306) dalla lauda O libertà suietta ad onne creatura:

    O somersa contrata, Sogdoma e Gomorra,

    en tua schera se ’n curra chi prende tua amistate!

    O amore contraffatto, de ipocrita natura,

    plin de mala ventura e nullo porti frutto;

    lo cel te perd’e ’l mondo e ’l corpo è ’nn afrantura;

    sempre vive en pagura, peio è’ vivo che morto;

    o casa de corrotto, nferno comenzato,

    nullo se trova stato de tanta vilitate.

    O Sodoma e Gomorra, luogo sommerso, accorra nella tua schiera chi ha familiarità con te. O amore contraffatto, ipocrita per natura, pieno di mala sorte, e non porti nessun frutto; il cielo e il mondo ti rifiutano e il corpo soffre; vive sempre nella paura, essere vivo è peggio che essere morto; o casa della corruzione, Inferno iniziato, non esiste condizione altrettanto vile.

    Eppure da dove nasce la violenta ostilità del Cristianesimo nei confronti dell’omosessualità non è facile da spiegare. Ci ha provato Boswell, il quale sostiene che l’ostilità sarebbe estranea ai primi secoli del Cristianesimo: il passaggio dalla cultura antica a quella cristiana non avviene in un giorno e i primi secoli dell’era cristiana sono un lungo periodo di transizione; periodo nel quale sopravvive una sostanziale accettazione (entro precise regole) del comportamento omosessuale, che passa al massimo per una generica condanna morale già presente in alcune correnti filosofiche dell’antichità. Divieti e condanne iniziano a poco a poco a essere sempre più espliciti e categorici, ma prima che vengano interiorizzati passano secoli; solo in seguito si arriva alle vere persecuzioni cristiane.

    Ma per parlare dell’omofobia della Chiesa, non serve andare così indietro nel tempo: ancora oggi la situazione è fondamentalmente ferma a una situazione preilluministica, ostile a ogni forma di libertà individuale. Per la Chiesa, insomma, l’omosessualità è ancora un elemento di disordine nello strutturarsi dell’esistenza umana e offende Dio (e questa sua verità intende imporla anche a chi a Dio non crede). Eppure, un elemento non può essere tralasciato: non risulta che Cristo abbia mai condannato la sodomia. Non ci sembra, questa, un’osservazione da poco.

    Il concetto di «contro-natura», più che essere la causa dell’ostilità cristiana verso l’omosessuale, sembra esserne la conseguenza. L’idea di essere «contro-natura» viene fissata definitivamente, nella nostra letteratura, proprio da Dante: i sodomiti, inseriti nel VII cerchio, sono tra i violenti verso Dio, e addirittura più numerosi degli altri violenti (bestemmiatori e usurai).

    Sarà curioso però notare come il sodomita viene presentato e raccontato da Dante: per parlarne non sceglierà un personaggio qualunque della Firenze dell’epoca, ma il suo maestro di una vita, per il quale prova un profondo affetto: Brunetto Latini. Ed è proprio dalla produzione di Brunetto Latini, uno dei primi autori che cominciano a scrivere in volgare, che cominceremo a rintracciare nei testi della letteratura italiana l’amore tra uomini; cercheremo inoltre di restituire a Brunetto un ruolo di autore letterario prima che di semplice personaggio della Commedia, come oggi invece viene ricordato dai più.

    1.1. Brunetto Latini

    La notorietà di Brunetto Latini nei secoli è legata al fatto che Dante Alighieri lo colloca nella sua Divina Commedia tra i sodomiti del terzo girone del settimo cerchio dell’Inferno. Cerchiamo però di sganciare l’autore da questo episodio: Brunetto Latini fu uno degli intellettuali più autorevoli e influenti nella Firenze della generazione precedente a quella di Dante, il quale è il classico esempio dell’allievo che supera il maestro e addirittura lo oscura.

    Nasce a Firenze intorno al 1220, è notaio, funzionario comunale, ma soprattutto poeta e retore, sempre attivamente impegnato nella vita politica. Di parte guelfa, dopo la sconfitta di Montaperti del 1260 si rifugia in Francia dove scrive in lingua d’ oil la sua opera più impegnativa, il trattato enciclopedico Li livres dou Tresor. Dopo la sconfitta dei ghibellini a Benevento nel 1266, torna a Firenze e riprende la sua attività politica e culturale. È priore nel 1287 e muore nel 1294.

    Brunetto Latini è centrale per la diffusione in Italia della cultura europea del suo tempo e per la formazione della nostra prosa volgare; chissà che la sua permanenza nel settimo cerchio dell’Inferno non abbia pesato sulla diffusione della sua produzione, destinata ancora oggi a una sorta di damnatio memoriae nelle antologie scolastiche e negli studi critici.

    In alcuni momenti del Tesoretto, Brunetto Latini aderisce alla cultura dominante condannando, tra i vari peccati, anche la sodomia:

    Ben è gran vituperio

    commettere avolterio

    con donne o con donzelle,

    quanto che paian belle,

    ma chi ‘l fa con parente

    pecca più agramente;

    ma tra questi peccati

    son vie più condannati

    que’ che son soddomiti:

    deh, come son periti

    que’ che contra natura

    brigan cotal lusura.

    È grande peccato commettere adulterio con donne o con ragazze, per quanto possano apparire belle, ma chi lo fa con congiunti pecca ancora di più; ma tra questi peccati sono ancora più condannati i sodomiti: deh, come sono perduti quelli che praticano tale lussuria contro natura.

    Della sua produzione però vogliamo ricordare S’eo son distretto inamoratamente, l’unica canzone che ci è giunta; una canzone d’amore che, secondo l’esauriente studio di D’Arco Silvio Avalle, avrebbe come destinatario il giovane poeta Bondie Dietaiuti, del quale si sa solo ciò che si può ricavare dal suo piccolo corpus poetico; possiamo però ipotizzare che facesse parte del gruppo di giovani poeti che ruotavano attorno a Brunetto prima dell’esilio in Francia, perché si presume che la corrispondenza in versi risalga al periodo dell’esilio di Brunetto.

    Bondie Dietaiuti risponde a Brunetto Latini con la canzone Amor quando mi membra, il che qualifica i due componimenti come una vera e propria tenzone poetica, cioè un dibattito, uno scambio di testi tra due poeti.

    Partendo da Brunetto, possiamo senz’altro ascrivere la sua canzone alla tradizione della lirica provenzale: il linguaggio e le tematiche affrontate sono in linea con le tendenze letterarie dell’epoca, e verranno ampiamente utilizzate, in una nuova chiave, dai grandi poeti dello stil novo, della generazione a lui successiva. L’unica differenza in questo caso è che manca qualsiasi riferimento a una possibile donna angelo: qui il destinatario è un altro uomo.

    S’eo son distretto inamoratamente

    e messo in grave affanno

    assai più ch’io non posso soferire,

    non mi dispero né smago neiente,

    membrando che mi danno

    una buona speranza li martire,

    com’eo degia guerire:

    ché lo bon soferente

    riceve usatamente

    buon compimento de lo suo disire.

    Se io sono avvinto dai lacci d’amore e messo in grave sofferenza, assai maggiore di quanto io riesca a sopportare, tuttavia non mi dispero affatto, né mi angoscio, tenendo presente che mi danno una buona speranza di poter guarire i dolori: infatti chi sa ben sopportare raggiunge, di solito, il compimento del proprio desiderio.

    Il verso iniziale della canzone è molto tradizionale per la lirica del Duecento, forse anche troppo: Iacopo da Lentini, ad esempio, iniziava la sua canzone Meravigliosamente in modo simile: «meravigliosamente / un amor mi distringe / e mi tene ad ogn’ora». L’idea dell’amore che lega con dei lacci l’amante, avviluppandolo, è comune a tanti testi dell’epoca. La sofferenza che questo provoca sembra non interessare il poeta, che trae dal dolore una certa speranza; questo perché, secondo lui, la sofferenza è l’unico mezzo per arrivare al compimento del proprio desiderio d’amore.

    Dunqua, s’io pene pato lungiamente,

    non lo mi tegno a danno,

    anzi mi sforzo ognora di servire

    lo bianco fioreauliso, pome aulente

    che nova ciascuno anno

    la gran bieltate e lo gaio avenire.

    Così mi fa parere

    fenice veramente;

    ch’ello similemente

    è solo, e poi rinova suo valere.

    Se dunque soffro a lungo queste pene non lo considero un danno, anzi mi sforzo sempre di servire il bianco fiordaliso, tutto fragrante che ogni anno rinnova la grande bellezza e la gaia avvenenza. Così mi sembra proprio una fenice; che anch’essa nello stesso modo è sola, ma poi rinnova il proprio valore.

    L’immagine della fenice è attinta chiaramente dai bestiari medievali, così come quella del cervo più avanti: altro elemento che ci fa considerare la poesia di Brunetto poco originale nel contesto in cui viene prodotta (non a caso Dante stesso, nell’Inferno, non accenna mai alla poesia, preferendo ricordare il maestro per il Tresor). L’elemento più originale del componimento resta, a questo punto, proprio l’amore per un altro uomo.

    Pertanto mi sconforto coralmente,

    che ne ricepo inganno,

    poi m’è lontano ov’eo non posso gire;

    ma vo’ seguir lo cervio umilemente

    che, poi conquiso l’hanno,

    a’ cacciator’ ritorna per morire.

    Ed io vo’ rivenire

    al mio ‘more sovente

    Sì ch’a lo suo vidente

    Ello m’agiuti o veiami perire.

    Eppure io mi sento il cuore pieno di sconforto, perché lui m’inganna, dato che sta lontano da me, in un luogo dove non posso andare; ma con umiltà voglio seguire l’esempio del cervo, che quando è stato ferito mortalmente, torna spontaneamente dai cacciatori per morire. Anch’io voglio tornare spesso dal mio amore, sì che, sotto i suoi occhi, lui possa aiutarmi o mi veda morire.

    I critici si sono spesi, nel corso dei secoli, a giustificare versi come questi nei modi più originali: lo stesso Contini legge questo componimento (e la risposta di Bondie) come una semplice «canzone d’amico», da inserire in un discorso più ampio di vera e propria societas amicorum in cui il valore dell’amicizia viene riconosciuto come assoluto e primario. Altri addirittura hanno voluto interpretare questa canzone come una dedica a Firenze, soprattutto a causa del «bianco fiordaliso» al quale viene paragonato l’amante nella prima stanza della canzone: l’amore quindi che sembra emergere da questi versi sarebbe un amore civile e politico verso la propria città di origine. In questo modo la poesia di Brunetto sarebbe una semplice canzone d’esilio.

    Se è vero che nel Tesoretto Brunetto stesso condanna la sodomia definendola un peccato grave, se è vero che i rapporti di amicizia venivano espressi nel passato in modo diverso, più sentimentale rispetto al modo in cui li esprimiamo noi, dall’altra parte la condanna dantesca e soprattutto questi versi per Bondie non possono essere piegati a letture forzate, addirittura fantasiose.

    Non dobbiamo dimenticare inoltre che la canzone fa parte di una tenzone: la risposta di Bondie, che leggeremo a breve, cancellerà ogni dubbio al riguardo, dandoci la corretta chiave di lettura della poesia di Brunetto; tra i due c’è uno vero e proprio scambio di poesie d’amore. Il fatto che le due canzoni siano legate tra loro non è secondario: è lo stesso Brunetto nella Rettorica a spiegarci che una tenzone nasconde sempre «una tencione tracita intra loro, e così sono quasi tutte le lettere o canzoni d’amore in modo di tencione o tacita o espressa». Tra i due, insomma, ci deve essere senz’altro uno scambio di messaggi implicito, un codice comunicativo che entrambi sanno ricollegare a un’esperienza riservata so­lo a loro. Questo codice comunicativo, leggendo la stanza successiva, non è nemmeno così implicito, alla fine.

    Ormai m’inchino e son merzé cherente

    agli amador’, che sanno

    chi ‘n balia m’ave e facemi languire;

    che ‘l movano a pietanza dolzemente

    quando con ello stanno,

    ch’a sé m’acolga e facciami gioire:

    ch’io non posso campire

    se prosimanamente

    ello, che fue ferente,

    non mi risana e fa gioia sentire.

    Ormai mi inchino e invoco gli amanti che sanno chi mi tiene in sua balia e chi mi fa soffrire, che lo muovano con dolcezza a pietà quando sono con lui, che mi accolga con sé e mi faccia gioire: perché io non posso salvarmi se in poco tempo egli, che mi ferì con le frecce d’amore, non mi risana e mi fa sentire il piacere.

    Quando si analizzano testi letterari del passato, la tentazione è sempre quella di sovrainterpretarli, trovandovi i significati che vi si vogliono trovare. Possiamo forzare questi versi a tal punto da intenderli come versi di amore civile? Quell’«egli, che mi ferì con le frecce d’amore» sarebbe la città di Firenze? E allora perché Dante inserisce Brunetto Latini tra i sodomiti, se invece di essere un uomo innamorato di un altro uomo era un semplice amante della città di Firenze?

    Il grande problema di Brunetto Latini è uno solo: fu maestro di Dante. Questo ha generato nei critici letterari del passato un imbarazzo notevole. L’atteggiamento di Dante nei suoi confronti quando lo incontra nell’Inferno apre una frattura nell’interpretazione del canto stesso e nell’idea di sodomia in generale; ne discuteremo più avanti.

    Per ora, che sia anche solo per apprezzarne la bellezza, ci sembra opportuno leggere la poesia di Brunetto in modo limpido, liberandola da interpretazioni che vanno a sostituirsi alla poesia stessa e ai termini usati; è una poesia d’amore di un uomo verso un altro uomo.

    Vatene, canzonetta mia piagente,

    a quei che canteranno

    pietosamente de lo meo dolire,

    e di’ che ‘n mare frango malamente

    ma contro a tempo spanno

    ch’al dritto porto non posso tenere.

    Pregali che ‘n piacere

    metano a l’avenente,

    che mi dea prestamente

    conforto tal che mi degia valere.

    Va’, canzonetta mia piacevole, da coloro che canteranno pietosamente del mio affanno, e di’ loro che sono un naufrago sbattuto dalle onde, e spiego le vele al vento che è però contrario, e non riesco a raggiungere un porto sicuro. Prega che favorevolmente lo dispongano verso di me, in modo che presto mi dia un conforto tale che mi faccia guarire.

    La risposta di Bondie Dietaiuti arriva con la canzone Amor, quando mi membra:

    Amor, quando mi membra

    li temporal’ che vanno,

    che m’hanno tenuto danno,

    già non è maraviglia s’io sconforto,

    però c’alor mi sembra

    ciascuna gioia affanno,

    e lealtate inganno,

    e ciascuna ragion mi pare torto.

    Amore, quando mi ricordo i tempi che vanno che mi han fatto danno non è strano se mi scoraggio perché allora mi sembra che ogni gioia sia affanno, e lealtà sembra che sia inganno, ed ogni ragione mi pare un torto.

    L’atteggiamento che il giovane ha nei confronti di Brunetto è particolare e degno di attenzione: se da una parte risponde con grande affetto, dall’altra lascia trapelare un maggiore distacco, forse a causa della deferenza che prova per il maestro, o forse perché preso maggiormente da problemi di coscienza: il tema della sofferenza, che nel componimento di Brunetto riguardava strettamente il poeta stesso e il suo amore per un uomo lontano, nel componimento di Bondie sembra invece tutto rivolto ai tempi e ai buoni costumi. C’è in lui una preoccupazione maggiore nei confronti della «grande eranza», la grave colpa nella quale è caduto:

    E paremi vedere

    fera dismisuranza,

    chi buono uso e leanza

    voglia al mondo già mai mantenere,

    poi che ‘n grande soperchianza

    torna per me piacere,

    e ‘n grande follia savere,

    per ch’io sono stato, lasso, in grande eranza.

    E mi sembra di vedere crudele eccesso «verso» colui che i buoni costumi e lealtà voglia conservare al mondo, poiché si trasforma in grave eccesso per me il piacere, e in gran follia il sapere, dato che son caduto, ahimè, in una grave colpa.

    L’amore sembra essere la soluzione al dolore; i versi che Brunetto gli ha mandato sono motivo di allegria per Bondie, tanto da fargli quasi dimenticare la sua «eranza». Nonostante il «tempo intrebescato», i tempi disgustosi, il poeta si spoglia dell’incertezza e dell’affanno che ha provato, rifugiandosi nella gioia che la poesia di Brunetto gli ha provocato:

    Ma lo ‘ncarnato amore

    di voi, che m’ha distretto,

    fidato amico aletto,

    mi sforza ch’io mi degia rallegrare.

    Dunqua mi trae d’erore,

    ché ‘l tuo valor perfetto

    mi dà tanto diletto,

    che contro a voglia aducemi a cantare.

    Però m’ha confortato

    E sto di bona volglia

    …….

    de lo noioso tempo intrebescato;

    ma par che ‘n gioi’ s’acoglia

    l’affanno c’ho portato,

    guardando al tuo trovato,

    amico, che d’eranza mi dispoglia.

    Ma l’amore incarnato di voi, che mi ha avvinto, fidato ed eletto amico, mi sforza a essere allegro. Dunque mi fa uscire dall’errore, perché il tuo valore perfetto mi dà tanto diletto che contro il mio volere mi spinge a cantare. Perciò mi ha confortato ed ora sono felice. Infastidito dal periodo disgustoso, ma mi pare che si rifugi nella gioia l’affanno che ho provato, guardando la tua poesia, amico, che mi spoglia dall’incertezza.

    L’atteggiamento di deferenza che Bondie ha nei confronti del proprio maestro risulta tuttavia un freno all’espressione del sentimento amoroso: Bondie non ci sembra realmente avvinto dai lacci d’amore come invece sembrava essere Brunetto. Nella stanza successiva, infatti, emerge un maggiore distacco, nascosto sotto attestati di stima: il poeta preferisce concentrarsi sulla lode del maestro e della sua sapienza piuttosto che lasciarsi andare a un’accorata esternazione del proprio amore. Che questo significhi che Bondie non ricambi l’amore di Brunetto non lo potremo mai dire.

    In seguito, attraverso similitudini piuttosto comuni nella lirica del Duecento, riflette sul fatto che l’amore è necessario al poeta per vivere con gioia.

    La prima similitudine è con la salamandra, animale che, secondo i bestiari medievali, viveva nel fuoco e non se ne poteva separare: quella era la sua vera natura.

    La seconda similitudine, di nuovo dal mondo animale, è con un pesce, che sopravvive

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