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I primi romani: La Roma senza città
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E-book149 pagine2 ore

I primi romani: La Roma senza città

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Info su questo ebook

Nessuno sembra dubitare che Roma si sia affacciata al mondo quando sorse la Città con il suo corredo monumentale. Quando ciò sia accaduto resta un mistero; e nemmeno sappiamo se Roma sia davvero il nome originario. Nel libro il lettore è introdotto dentro una prospettiva diversa: che Roma prima di essere una città sia stata un’organizzazione comune – oggi diremmo un’istituzione – voluta dai popoli dei monti su cui sarà poi edificata l’Urbs. L’indagine si sposta così dai monumenti a quegli antichi abitatori che, superando conflitti culturali e d’interesse materiali, compresero l’utilità di creare un’unione e di divenire una comunità coesa, il cui destino sarà determinato da un innato, eccezionale spirito di conquista.
LinguaItaliano
EditoreRogas
Data di uscita16 nov 2023
ISBN9791222469997
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    Anteprima del libro

    I primi romani - Umberto Vincenti

    Premessa

    Il libro è complementare al precedente, dedicato al Palatino e alla costituzione politica della prima Roma. Il focus continua ad essere l’enigma delle origini di Roma, ma qui si presenta un’ipotesi su cosa possa essere stata Roma quando sorse: non una Città o un principio di Città, ma un’organizzazione comune – un’istituzione diremmo oggi – tra i montes (e i relativi capi-villaggio) della conca del Colosseo.

    Potremmo pensare a una lega progressivamente irrobustitasi ed estesasi ad assorbire i poteri locali e i reges dei montes fino a pervenire alla Città organica e al rex unico. La Roma degli esordi sarebbe così stata un’unione di uomini portatori di caratteri antropologici idonei a una grande impresa. Per questo nel libro si prova a cercare lo spirito, il modo di vivere, la struttura familiare, l’evoluzione degli antichi abitatori dei montes : prima della Città, ci furono gli uomini che, nella prospettiva del reciproco vantaggio, favorirono l’avvicinamento, l’interazione, l’osmosi, infine l’unificazione tra le comunità allocate sui vari montes , dando vita a una comunità sola, strategicamente posizionata in funzione del controllo del transito di persone e cose, nell’area compresa tra l’ansa del Tevere e l’Isola T iberina. La ricerca ha tutti i limiti conseguenti all’esiguità dei dati a nostra disposizione; ma qualcosa sappiamo ed è parso corretto metterlo in luce, sia pur in un’esposizione breve.

    Il libro è scritto perché chiunque sia interessato possa facilmente leggerlo. A tal fine ho preferito non corredare il testo con note e limitare le citazioni allo stretto necessario. In chiusura ho però introdotto una breve, e selezionata, bibliografia in italiano, di cui alcuni titoli sono reperibili anche sul web.

    Ringrazio l’Editore e chi ha avuto la pazienza di leggermi in anteprima.

    UV

    1. Il progetto

    Se si scorrono le pagine iniziali di un libro ormai classico – La città greca di Gustave Glotz – si trova descritto, in certo senso codificato, il modulo di formazione delle poleis o città-stato nella Grecia antica. Il passaggio dal territorio alla città postulava la presenza di un complesso di luoghi istituzionali: una cinta di mura con torri e porte; il palazzo del re, sede del santuario cittadino («il focolare comune»); un edificio per le riunioni dei maggiorenti della città e consiglieri del re; una piazza pubblica, destinata alle riunioni del popolo, al mercato e agli affari.

    Un modulo analogo è stato assunto dagli studiosi anche nell’approccio alla ricerca sulle origini di Roma: la conseguenza è che Roma sarebbe sorta solo quando fosse stato composto un corredo monumentale di questo genere. Ma prima che questo corredo fosse compiuto Roma non sarebbe esistita? È poi corretto che gli storici costruiscano essi stessi un fatto storico come la nascita di Roma esigendo la prova dell’esistenza di una monumentalità adeguata? Negando l’esistenza di Roma in difetto di tale prova?

    In Grecia, Sparta presentava una struttura urbanistica peculiare: Glotz vi accenna un po’ rapidamente, ma cita un noto passo di Tucidide (1.10) in cui sono censiti due modelli alternativi di abitato. Il primo è rappresentato da Atene, ricca di templi e di edifici sontuosi. Sparta, invece, non li possedeva, non aveva una cinta di mura, né era costituita da un nucleo compatto e di grande dimensione: la sua struttura era formata da almeno quattro insediamenti, quattro villaggi, separati tra loro anche se adiacenti. Qualora, osserva Tucidide, Sparta fosse per avventura distrutta, chi si aggirasse per quei luoghi a distanza di molto tempo rimarrebbe incredulo dell’antica potenza. Ma, continua Tucidide, sarebbe un errore giudicare sulla base dell’aspetto esteriore: l’importanza – la potenza – di una polis non dipende dalla sua monumentalità, ma dai suoi abitanti. E, in effetti, la rappresentazione a noi pervenuta è piuttosto focalizzata sugli Spartani che su Sparta.

    Nel caso di Sparta qualcuno ha ipotizzato che il nome rifletta il suo modello morfologico: in greco sparte significa «sparso», «seminato», nel nostro caso sul territorio. Comunque Tucidide qualifica pol e is tanto Atene quanto Sparta. Il suo discorso – non bisogna considerare «l’aspetto esteriore», ma «la potenza» – lascia intendere che il termine polis è da lui adoperato secondo un’accezione piuttosto ampia: non è soltanto la città corredata di spazi ed edifici pubblici, polis è anche la comunità indipendente e politicamente organizzata (e pure la stessa organizzazione), a prescindere da ogni monumentalità, come dalla presenza di un aggregato civile unitario. Anzi, precisa Tucidide, a Sparta, «i suoi abitanti so­no sparsi in villaggi» perché questo era «l’antico costume greco».

    Polis è, in effetti, un termine ambiguo, come conferma la semantica della parola attestata nei dizionari. A distanza di oltre un paio di millenni, Rousseau (che certamente aveva presente il passo di Tucidide) ripropone la questione nel Contratto sociale, evocando gli antichi significati. Alla fine del capitolo VI del libro I egli considera il termine Cit é; e denuncia che se n’è smarrito il significato primo (antico), che non è quello di agglomerato urbano ( ville), ma di cittadini («les Citoyens font la Cité», proprio come Sparta era fatta dagli Spartani).

    Qui proveremo a servirci del modello tucidideo dell’aggregato sparso, anzi di una pluralità di aggregati abitativi separati e sparsi sul territorio. Ma per fare cosa? Per coltivare l’ipotesi che Roma sia nata prima della città monumentale, quella che, con i suoi templi ed edifici pubblici, sarebbe sorta nella piana del Foro, secondo l’opinione di Einar Gjestard, nel VI secolo a.C. e, secondo la più recente opinione di Andrea Carandini, almeno un secolo e mezzo prima (ma non mancano altre opinioni). Un’alternativa alla città monumentale è che la Roma degli esordi non fosse corredata di alcuna monumentalità: apparsa spontaneamente, più che per l’impresa eroica di un leggendario fondatore, come un’istituzione comune, una realtà giuridica prima che urbanistica, una specie di lega tra i villaggi delle alture, nel tempo progressivamente più unita, con culti e un capo o capi comuni e, necessariamente, con un corpo, per quanto limitato, di regole comuni.

    A prescindere dalla monumentalizzazione, le evidenze archeologiche, sepolcreti e corredi tombali, oltre che alcune fonti, lasciano supporre che già nel X-IX secolo a.C. dovesse esistere, tra i montes del sito di Roma, una comunità pur sparsa in una pluralità di villaggi, a rigore una pluralità di comunità di villaggio, confinanti le une con le altre. Probabile che questi gruppi avessero un patrimonio comune di usi, regole, credenze, rituali che favorirà la loro progressiva unificazione in una comunità di destino compiutamente integrata: se Roma sorgerà con un corredo culturale sufficientemente definito, del quale abbiamo tracce corpose, non è azzardato concludere che questo corredo fosse come un deposito consegnato alla Città dalle esperienze vissute nelle comunità di villaggio a essa precedenti.

    L’idea è che determinanti siano stati la morfologia del territorio e la cultura dei suoi abitanti; ed è dall’interrelazione tra territorio e cultura che dovrebbe essere scaturito il progetto organizzativo comune, a sua volta originante la Città e le sue istituzioni. Ma la questione delle origini di Roma si affaccia, nella ricerca contemporanea, anche come questione definitoria: in effetti molto dipende dal significato che si intende assegnare al termine «città». Un termine nostro, attuale che, però, si introduce, com’è stato usualmente introdotto, nel contesto di un’epoca piuttosto remota; un’operazione, a rigore, impropria, ma, si è appena osservato, compiuta alquanto spesso.

    Dovremmo invece considerare i nomi latini. Vi è il termine urbs: anche al giorno d’oggi Roma continua ad essere chiamata l’Urbe. Tuttavia in latino urbs indica lo spazio urbano delimitato da confini definiti, tracciati con l’aratro, secondo un rituale di matrice etrusca ( etruscus ritus): urbare est aratro definire, scriveva appunto, nel II secolo d.C., il giurista romano Sesto Pomponio in un passo (50.16.239.6) pervenutoci attraverso il Digesto di Giustiniano. Solo per traslato, e molto residualmente, urbs è stato utilizzato nel significato di «abitanti della città», di «popolazione». La comunità degli abitanti era propriamente designata con il termine civitas. Un passo di Tito Livio (1.45.1) lo conferma per la città del re Servio Tullio: aucta civitate magnitudine urbis, «la città ( urbs) era cresciuta proporzionalmente all’aumentare dei cittadini ( civita s)». Come si vede, l’ urbs è entità distinta dalla civitas. Analogamente, in un famoso passo delle Istituzioni (1.1), il giurista romano Gaio (siamo nel II secolo d.C.), nel definire il nucleo più antico dello ius romanum, lo ius civile, sottolinea che esso è «il diritto proprio della civitas», il diritto riservato al popolo romano e applicabile solo ai cittadini romani, a esclusione degli stranieri: anche qui si intende civitas come insieme delle persone, un’entità, cioè, ben distinta dall’aggregato urbano dove quelle persone abitano. Una distinzione, si è detto, che Rousseau riprenderà nel Contratto; e che qui ci servirà per saggiare l’ipotesi che Roma nacque prima della Città, anzi senza la Città.

    Questa comunità di villaggi doveva avere un suo territorio, anche se i confini non fossero stati precisamente definiti come sarà per l’ urbs. Pomponio, nel passo già richiamato, dopo aver definito l’ urbs, considera l’ oppidum (da ops, autorità/potere, il cui limite territoriale sarebbe segnato dalle mura dell’abitato, custodi delle sue opes, ricchezze) e poi il territorium, lo spazio di una comunità di abitanti, entro il quale si esplica il potere di chi la governi. In quest’accezione si potrebbe anche qualificare come territorium l’insieme dei villaggi del sito di Roma: l’ipotesi è che i villaggi non ancora unificati abbiano affidato a un capo comune quelle attività – come la difesa da nemici esterni – che si sarebbero più proficuamente esercitate insieme. Forse anche in questo modo, con il lievitare delle attività delegate all’autorità investita dai singoli villaggi o, meglio, dai loro capi, si sarebbe pervenuti all’unificazione definitiva, territoriale e di governo.

    Con questo progetto immagineremo qui di perlustrare le alture di Roma da cui punteremo lo sguardo sul Tevere, l’Isola Tiberina, il Velabro, il Foro e la valle Murcia. Nell’ambiguità della tradizione storiografica e delle stesse risultanze archeologiche, la morfologia del territorio può offrire indizi obiettivi o meno equivoci. Perciò considereremo la topografia della prima Roma, cercando le ragioni che possono aver indotto i primi a unirsi entro un territorio a sua volta conseguente all’unione dei territori dei singoli villaggi; e ci interrogheremo se questa topografia abbia potuto influire anche sul carattere non assoluto del potere consegnato ai reges (a cominciare dal primo) dai capi dei villaggi delle alture, secondo la configurazione che ci è stata trasmessa dalle fonti.

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