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E domani? Mambo!
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E domani? Mambo!
E-book549 pagine6 ore

E domani? Mambo!

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Info su questo ebook

E domani? Mambo! è la storia di Paolo Fiaccadori, cinquantenne agente di commercio, padre e marito in una vita normale e tranquilla.
L’aver scoperto il tradimento della moglie è l’inizio di una sorta di giostra emozionale che lo porterà prima a perdere tutto dopo essersi innamorato di un’altra donna che poi sarà la stessa che lo porterà alla soglia del gesto estremo per poi rinascere cercando una verità che sarà il fulcro di un vero e proprio “giallo” alla Agatha Christie.
Il finale è enigmatico e a sorpresa.
LinguaItaliano
Data di uscita3 feb 2021
ISBN9788866603740
E domani? Mambo!

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    Anteprima del libro

    E domani? Mambo! - Luca Sartori

    Tavola dei Contenuti (TOC)

    Titolo pagina

    Capitolo 1

    C’ERA UNA VOLTA…

    Capitolo 2

    IL BACIO MANCATO DI GIUDA

    Capitolo 3

    IL MURO DEL SILENZIO

    Capitolo 4

    LA PROFEZIA

    Capitolo 5

    CIAK, SI GIRA

    Capitolo 6

    L’ACQUARIO VUOTO

    Capitolo 7

    LA LINEA DI CONFINE

    Capitolo 8

    AL CUOR NON SI COMANDA

    Capitolo 9

    LA DICHIARAZIONE

    Capitolo 10

    LA PRIMA VOLTA NON SI SCORDA MAI

    Capitolo 11

    TANTI AUGURI

    Capitolo 12

    L’AMORE CLANDESTINO

    Capitolo 13

    UN REGALO PER DUE

    Capitolo 14

    SOSPETTI E SOSPIRI

    Capitolo 15

    AMMESSO… MA NON CONCESSO

    Capitolo 16

    PUNTO E A CAPO

    Capitolo 17

    ALLA RICERCA DELL’EGO

    Capitolo 18

    FUORI UNA? SOTTO UN’ALTRA

    Capitolo 19

    LEGATI DA UNA CATENA INVISIBILE

    Capitolo 20

    LA CALMA APPARENTE DOPO LA TEMPESTA

    Capitolo 21

    L’ARABA FENICE

    Capitolo 22

    IL TATUAGGIO

    Capitolo 23

    IL MENU’ PERFETTO

    Capitolo 24

    UN VICINO TROPPO… VICINO

    Capitolo 25

    IL SEGNO SULLA GUANCIA

    Capitolo 26

    LA DONNA RADE IL PELO NON IL VIZIO

    Capitolo 27

    BARCOLLO, MA NON MOLLO

    Capitolo 28

    C’È CHI LA FA… E CHI CAPISCE

    Capitolo 29

    UNA GIORNATA PARTICOLARE

    Capitolo 30

    IL CANTO DELLA SIRENA

    Capitolo 31

    IL GIRO COMPLETO DELLA RUOTA

    Capitolo 32

    TANTI AUGURI A ME

    Capitolo 33

    IL RETROGUSTO DEL FIELE

    Capitolo 34

    L’ULTIMO DEI TRADIMENTI

    Capitolo 35

    L’APPUNTAMENTO

    Capitolo 36

    UN’INFAMANTE BUGIA

    Capitolo 37

    LA DENUNCIA

    Capitolo 38

    UN TERRIBILE INCUBO

    Capitolo 39

    DOLORE NON SCACCIA DOLORE

    Capitolo 40

    LA RISPOSTA CHE VERRA’

    Capitolo 41

    IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

    Capitolo 42

    LA VITA È UNA SORPRESA

    Capitolo 43

    SCHIAVI SENZA CATENE

    Capitolo 44

    LO SCRIGNO

    Capitolo 45

    LE DONNE DELLE NUVOLE

    Capitolo 46

    I due ingredienti

    Capitolo 47

    I FRUTTI DELL’ATTESA

    Capitolo 48

    INSEGNANDO… S’IMPARA

    Capitolo 49

    GLI ANGELI NON MENTONO MAI

    Capitolo 50

    VOGLIA DI VERITA’

    Capitolo 51

    IL REGALO CHE NON T’ASPETTI

    Capitolo 52

    ANGELI E FANTASMI

    Capitolo 53

    FIN CHE LA BARCA VA…

    Capitolo 54

    STRANE SENSAZIONI

    Capitolo 55

    IL QUALCOSA DEL NIENTE

    Capitolo 56

    IL SAPORE DEL CIOCCOLATO

    Capitolo 57

    COME UNA SIGARETTA

    Capitolo 58

    UNO DI QUEI GIORNI

    Capitolo 59

    PRIMA IL DOVERE POI IL PIACERE

    Capitolo 60

    UN GIOCO DEL FATO

    CAPITOLO 61

    COME DICEVA AGATHA CRISTIE…

    Capitolo 62

    IL SENSO MANCANTE

    Capitolo 63

    IL FRUTTO

    Capitolo 64

    LA FACCIA DELLA GENESI

    Capitolo 65

    ALCHIMIA

    Capitolo 66

    UN GIOCO MISTERIOSO

    Capitolo 67

    IL DUBBIO DELL’INVITO

    Capitolo 68

    LA PROMESSA

    Capitolo 69

    L’APPARENZA NON È TUTTO

    Capitolo 70

    IL PENSIERO COMUNE

    Capitolo 71

    UN BRINDISI INASPETTATO

    Capitolo 72

    IN VINO VERITAS

    Capitolo 73

    LA SAGGEZZA DELLE NONNE

    Capitolo 74

    UN GIORNO BRUTTO

    Capitolo 75

    IL VALZER DELLE EMOZIONI

    Capitolo 76

    L’ULTIMO TASSELLO

    Capitolo 77

    LE SORPRESE NON FINISCONO MAI…

    Capitolo 78

    UN FELICE DISPIACERE

    Capitolo 79

    IL TRAGUARDO E LA PARTENZA

    Capitolo 80

    E DOMANI? MAMBO!

    Un romanzo di

    Luca Sartori

    E domani?

    Mambo!

    ISBN versione digitale

    978-88-6660-374-0

    E DOMANI? MAMBO!

    Autore: Luca Sartori

    © CIESSE Edizioni

    www.ciesseedizioni.it

    info@ciesseedizioni.it - ciessedizioni@pec.it

    I Edizione stampata nel mese di gennaio 2021

    Impostazione grafica e progetto copertina: © CIESSE Edizioni

    Immagine di copertina: Licenza Creative Commons CC0

    (libero uso commerciale, attribuzione non richiesta)

    Collana: GREEN

    Editing a cura di: Renato Costa

    Editore e Direttore Editoriale: Carlo Santi

    PROPRIETÀ LETTERARIA RISERVATA

    Tutti i diritti sono riservati. È vietata ogni riproduzione dell’opera, anche parziale, pertanto nessuno stralcio di questa pubblicazione potrà essere riprodotto, distribuito o trasmesso in qualsiasi forma o con qualsiasi mezzo senza che l'Editore abbia prestato preventivamente il consenso.

    Questa è un’opera di fantasia. Nomi, personaggi, luoghi ed eventi narrati sono il frutto della fantasia dell’autore o sono usati in maniera fittizia. Qualsiasi somiglianza con persone reali, viventi o defunte, eventi o luoghi esistenti è da ritenersi puramente casuale.

    Mambo a qualcuno ricorda un genere musicale,

    ad altri una canzone di Lucio Dalla,

    ad alcuni una scena in cui Sophia Loren

    balla davanti a Vittorio De Sica

    nel film Pane, Amore e…

    Il titolo del libro è ispirato al termine mambo, che

    in lingua swahili l’idioma parlato dalle popolazioni dell’Africa centrale emigrate a Cuba

    significa Che succede?

    PREFAZIONE

    C’è un momento nella vita di ognuno in cui, come in un’operazione matematica, si tira una riga e si fa la somma di tutti i momenti, le persone, le situazioni che ti hanno portato ad essere quello che sei. Tutto può essere stato bello o brutto, dolce o amaro, importante o insignificante, ma ogni momento sarà stato sicuramente originale e inimitabile.

    Quello che siamo è il frutto delle nostre scelte. Facile o difficile, giusta o sbagliata, essenziale o irrilevante, libera o obbligata, ogni scelta sarà stata unica e irripetibile. Guardarsi indietro con i se e con i ma non muterà il nostro essere adesso, non farà cambiare il risultato. Non possiamo fare altro che accettare e accettarsi.

    Si dice che il tempo sia galantuomo, ciò che toglie restituisce e si riprende quel che ha dato. Io non credo sia proprio così, perché quello che hai perso non sempre potrai ancora raggiungerlo e quello che hai non sempre ti viene tolto. Sono le nostre scelte che tracciano il nostro cammino, evitano gli ostacoli, li superano o li creano.

    Il tempo mostra il totale sotto la riga, quello che è, non quello che vuoi.

    Capitolo 1

    C’ERA UNA VOLTA…

    Una vita serena. Quella che stavo vivendo era la vita a cui, senza pretendere troppo, aspiravo. Sicuramente si può sempre volere di più, continuamente il meglio, avere nuove aspirazioni. Ma la mia vita mi piaceva così, con gli occhi sempre aperti, attenti a catturare qualcosa di meglio, senza l’esasperata ricerca del di più.

    Un’esistenza senza eccessi, sicuramente non monotona, con i suoi momenti sì e i suoi momenti no.

    Avevo una moglie, Francesca, donna in carriera, determinata a raggiungere nel lavoro il posto a cui da sempre aspirava. La cucina non era il suo forte e forse per questo cucinare divenne presto un mio hobby. Era comunque una brava donna di casa, calcolatrice, a volte fin troppo pignola, e questo suo modo di essere l’aveva portata ai risultati che cercava.

    Si era laureata dopo che ci eravamo sposati, visto che i suoi genitori non le avevano permesso di continuare gli studi finita la maturità. Quante sere passate sul divano di casa a guardare la televisione con le cuffie per non disturbarla mentre studiava… E quanti ripassi fatti assieme, come la scrittura al computer della tesi.

    Ci eravamo conosciuti nei primi anni novanta nella ditta in cui io lavoravo come magazziniere. Lei si era appena diplomata ed era stata assunta come impiegata. Eravamo quasi vicini di casa, poche vie di distanza dello stesso quartiere, ma io non la conoscevo. Tra un passaggio in macchina e l’altro per andare al lavoro, nacque la nostra storia, conoscendoci un po’ alla volta.

    Francesca – e anche solo di questo la ringrazierò per tutta la vita – mi ha dato la gioia infinita di diventare padre di due meravigliose creature, Emma e Aurora.

    Abitavamo in un quartiere della periferia di Padova, tra i piedi dei Colli Euganei e Abano Terme – un paese noto per le cure termali – in un appartamento al secondo piano di una palazzina: soggiorno con la cucina separata, due camere e due bagni, una bella mansarda open space e una splendida terrazza-solarium di cinquanta metri quadrati.

    Un appartamento molto bello, spazioso, scelto proprio per queste sue caratteristiche. Ci era subito piaciuto.

    Lungo il perimetro della terrazza c’era una recinzione di legno sulla quale si arrampicavano le piante di gelsomino. Una tenda retraibile forniva una gradevole ombra e al centro della terrazza stava un tavolo allungabile con sei sedie dello stesso legno. Di fianco c’erano un barbecue a gas – che era una bellezza – e un lettino per prendere il sole, comodo e ambito da tutti. Oltre ai gelsomini vi erano piante e fiori che trasformavano la terrazza in un giardino, innaffiato quotidianamente da un sistema d’irrigazione che avevo costruito in un mio momento fai da te.

    Lavoravo ormai da cinque anni come agente di commercio presso una ditta che trattava sistemi di fissaggio. In parole povere, vendevo viti, tasselli e materiali per l’edilizia. Un ferramenta ambulante, insomma.

    Mi ritenevo fortunato, perché il lavoro mi piaceva molto. Stare a contatto con i clienti, conoscere ogni giorno persone nuove, lavorare fuori dalle quattro mura di un ufficio, di un magazzino, era quello che volevo dalla mia attività. Poter gestire il mio tempo era importante, per donarne alla mia famiglia tutto il possibile, aiutandola a realizzare i propri sogni.

    Anche quel giorno, finalmente, era arrivato il momento di tornare a casa. L’ultimo cliente aveva dato un senso a una giornata di lavoro non proprio piena di soddisfazioni.

    Al corso di formazione per agenti mi avevano dato una regola che riassumeva il lavoro del venditore: Vendere è come radersi. Se non lo fai tutti i giorni diventi un barbone! E quel giorno la lametta me l’aveva data proprio l’ultimo cliente.

    Come al solito passai dai nonni, dove avrei trovato le mie bimbe per portarle a casa. I miei suoceri, infatti, ci aiutavano anche facendo i baby-sitter delle nipoti.

    «Ciao nonni, a domani», gridavano Emma e Aurora dai finestrini della macchina salutandoli.

    Il tragitto dalla casa dei nonni alla nostra era di quattrocento metri.

    «Se volete, state in giardino a giocare finché non arriva la mamma», proposi loro.

    «No, io voglio vedere i cartoni delle Winx», disse Emma.

    «Anch’io!», ribadì Aurora.

    «Dai, allora andiamo su, veloci».

    Neanche il tempo di entrare in casa che mollarono al volo gli zaini di scuola sul divanetto e su in mansarda, ad accendere la televisione.

    «Piano, per le scale, che vi fate male», le avvisai.

    Anch’io presi a salirle con molta più calma e appoggiai la borsa di lavoro sulla poltrona girevole della scrivania adibita a ufficio.

    «Che volete mangiare stasera?», chiesi loro.

    «Pizza!», risposero quasi all’unisono.

    «No, la pizza la mangiamo sabato sera con gli amici. Facciamo una pasta?»

    «Io la voglio rossa col pomodoro», precisò Emma.

    «Io bianca», ribatté Aurora.

    Con le ordinazioni in testa, scesi in cucina a spignattare. Dando un’occhiata all’orologio posto sulla parete, mi resi conto che mancava un’oretta prima del ritorno di mia moglie dal lavoro. Sapevo che in quel periodo tornava un po’ più tardi del solito.

    «C’è tanto lavoro in questo periodo in ufficio», ripeteva spesso.

    All’improvviso sentii un rumore di chiavi che aprivano il portoncino d’ingresso. Era Francesca.

    «Ehilà! Già a casa, oggi? Come mai?»

    Alla mia domanda non vi fu risposta. Manco il suo solito Ciao famiglia per salutarci, quando rientrava a casa dopo di noi, come da qualche tempo succedeva. Girandomi per cercarla con lo sguardo, vidi solo un’ombra passare con passo veloce. Mi tolsi il grembiule da cucina e la rincorsi verso la camera da letto. La trovai stesa sul letto con la faccia immersa nel cuscino.

    «Cos’è successo?», domandai preoccupato.

    «Niente, lasciami in pace», replicò.

    Come sa chi frequenta le donne, questa è la frase che usano quando ci sono problemi. Significava il contrario: è successo di tutto!

    «Ti hanno fatto incazzare al lavoro? Stai male?», insistevo, passandole la mano dolcemente lungo la schiena come a coccolarla.

    Mi accorsi che aveva gli occhi gonfi e lucidi. Singhiozzando disse: «Adesso mi passa. Vai, vai pure in cucina. Prepara pure la cena, sennò le bambine si preoccupano. Dammi cinque minuti e arrivo».

    «Poi però mi dici cosa succede».       

    «Sì, sì tranquillo. Adesso mi passa. Vai, vai…»

    Non l’avevo mai vista così. Non capivo cosa fosse successo. L’unica spiegazione che potevo darmi era che potesse avere qualche problema al lavoro, ma era una reazione troppo forte, eccessiva per un motivo del genere.

    «Che c’è? Dov’è la mamma?», chiese Emma scendendo le scale della mansarda.

    «La mamma non sta molto bene, ha un po’ di mal di testa», risposi per non preoccuparla, «tra poco mangiamo e vedrai che così le passa».

    «Vado a spiare come sta», mi disse a bassa voce, come a non voler fare rumore per non disturbare.

    La serata trascorse tranquilla, come una qualsiasi. Francesca sembrava calma, come nulla fosse successo, solo il gonfiore degli occhi e il pallore del viso mostravano il suo malessere.

    Da quella sera qualcosa cambiò tra di noi. Il suo rifiuto di spiegarmi cos’era successo realmente quel giorno, rimandando, sminuendo, non ricordando l’accaduto, rendeva un po’ torbidi i miei pensieri su di noi.

    In una coppia c’è solo un modo per migliorare il terreno dove il sospetto, il malinteso, la sfiducia possono nascere e crescere: parlare.

    Capitolo 2

    IL BACIO MANCATO DI GIUDA

    Quella sera, come spesso capitava, le bimbe si erano addormentate sul divano, guardando la TV.

    «Le puoi portare tu a letto, per piacere?», chiese Francesca.

    «Certo, nessun problema. Ormai pesano, e scendere ‘ste scale non è facile con loro in braccio», dissi prendendo in braccio Emma, la più grande.

    In effetti, quelle scale che portavano dalla mansarda al piano inferiore dell’appartamento non erano facili da scendere, specie se avevi una creatura in braccio e non avevi modo di vedere perfettamente lo scalino successivo. La scala aveva gli scalini di legno lucido, in ciliegio, con la struttura di ferro sabbiato color nero. Un bel design, niente da dire, ma un po’ ripide e strette.

    «Guardo la posta e poi me ne vado a dormire, sono stanchissima. Davvero non vedo l’ora di poggiare la testa sul cuscino».

    Accese il computer, mentre io avevo già in braccio Aurora, la più piccola. Tornato in mansarda mi stesi sul divano e finalmente mi sentii padrone del telecomando. Non è facile poter guardare in TV il programma o il film preferito, con due bimbe e una moglie! Quella sera proprio non c’era nulla di interessante. Niente film decenti, niente sport, niente di niente.

    «Ok, vado a letto. Buonanotte… e non ti addormentare con la TV accesa!», disse Francesca dandomi il bacio della buonanotte.

    «Non spegnerlo», ribadii, «visto che in TV non fanno niente, mi ci metto io al computer».

    Spensi la televisione e mi misi al PC. Feci scorrere il mouse per riattivare il salvaschermo. La mansarda era illuminata solo dal chiarore del monitor. Notai nella barra del desktop una icona e questo indicava che non era stata chiusa l’ultima pagina visitata.

    «Che sbadata che sei, Franci!», pensai sorridendo a denti stretti.

    Cliccai sull’icona per poi poter chiudere la pagina, ma prima che il puntatore del mouse arrivasse al pulsante rettangolare rosso con la X in alto a destra, vidi quello che mai avrei pensato di poter vedere. Avevo davanti la pagina con una mail: Io devo trovare il coraggio di dirlo a mia moglie, ma anche tu devi dirlo a tuo marito…

    Non lessi tutta la frase. Come avvolto in un loop continuavo a leggere e rileggere questa frase. Mi appoggiai allo schienale della poltrona girevole e con i piedi mi diedi uno slancio all’indietro, così da allontanarmi dalla visione dello schermo, andando a sbattere sul muretto posto poco dietro. Chiusi i pugni e con gli stessi mi stropicciai gli occhi. Non poteva essere quello che invece era molto chiaro.

    «Forse ho interpretato male… Ci sarà una spiegazione…», pensavo.

    Mi riavvicinai con la poltrona alla scrivania, così da poter rileggere ancora una volta. E rilessi ancora e ancora e ancora… Rischiando di scivolare, con i calzini, senza ciabatte, scesi le scale, con il cuore e il cervello ormai diventati un groviglio di pensieri e sensazioni. Mi fermai davanti alla porta del bagno aperta, con le mani che afferravano gli stipiti per non entrare.

    «Hai una storia con qualcuno?», chiesi tutto d’un fiato.

    Lei era china sul lavandino, si stava sciacquando la bocca dopo essersi lavata i denti. Chiuse l’acqua, posò lo spazzolino dentro il bicchiere di ceramica, si asciugò la faccia con l’asciugamano e con una voce fredda, decisa con un tono sicuro e liberatorio disse: «Io non ti amo più. Sono innamorata di un'altra persona. Noi non siamo più una coppia ma siamo una famiglia, ed è solo per questo che sono ancora qua!»

    Poi piegò l’asciugamano, lo ripose. Mentre con una mano schiacciava l’interruttore per chiudere la luce del bagno, con l’altra mano mi scostò il braccio e andò a letto. Non disse altro. E fu silenzio.

    Come un pugile al termine del round, ebbi solo la forza di tornare al mio angolo, sedermi davanti allo schermo ancora acceso che mi mostrava quella maledetta mail. Chiusi la pagina con la mano tremante, manco riuscivo a usare il mouse. Rimasi lì senza sapere cosa fare, se non spegnere il computer. Quando se ne andò pure la luce del monitor restai al buio, immobile. Il mio mondo era crollato come la casa di un borgo medievale di pietra dopo una terribile scossa di terremoto. Macerie e polvere.

    Avrei voluto gridare. Il rumore del silenzio intorno, mescolato al mio respiro affannoso, era assordante. Accesi la TV non per guardarla, ma per rompere quel silenzio, stendendomi sul divano.

    «Perché?», ripetevo continuamente dentro di me senza dare il tempo alla risposta di arrivare.

    Ad un tratto mi alzai in piedi con uno scatto. Non capivo se era stato un incubo, se era successo veramente. Confusione totale.

    Scesi le scale e andai in camera da letto. Accesi la luce dei faretti posti sopra la testiera del letto.

    «Che c’è? Cosa succede?», disse Francesca alzando la testa dal cuscino girandola per guardarmi, riparandosi gli occhi con un braccio per non avere il fastidio della luce.

    «Perché non mi ami più?», le chiesi avvicinandomi a lei.

    «Possiamo parlane domani? Ho sonno e sono stanchissima».

    «Voglio solo sapere cos’è successo, cosa ho fatto. Adesso!»

    Il tono della mia voce si alzava sempre di più, senza che me ne rendessi conto.

    «Non urlare che svegli le bambine», mi riprese.

    «Ho detto che ne parliamo domani. Buonanotte».

    Appoggiò la testa sul cuscino, si tirò su il lenzuolo sino al mento e chiuse gli occhi, con fare quasi infastidito.

    Mi alzai e prima di spegnere la luce le dissi: «Se ho sbagliato qualcosa ti chiedo scusa, ma non so cosa ho sbagliato… Aiutami a capire».

    Non me la sentivo certo di restare accanto a chi mi aveva confessato di avermi tradito. Mai e poi mai avrei pensato potesse capitare a me.

    Prima di tornare in mansarda mi affacciai alla porta della camera delle bambine per guardarle. Dormivano beatamente.

    Mi stesi sul divano. Tentai di chiudere gli occhi per dormire, ma quelle sue parole continuavano a rimbombarmi in testa. Io non ti amo più. Amo un’altra persona…, e poi ancora, noi non siamo più una coppia, siamo una famiglia.

    Cominciavano a diradarsi le nebbie su quei suoi comportamenti degli ultimi tempi: i ritardi ingiustificabili al momento di tornare a casa, il modo di vestirsi diverso dal solito, più curato e provocante, il cambio di pettinatura, i messaggi che le arrivavano più numerosi del solito. Mi tornò alla mente la sera che arrivò a casa disperata senza volermi dare una spiegazione.

    Mi giravo e rigiravo, le ore passavano e senza rendermene conto ormai era mattina. Con il suono della sveglia che proveniva dalla camera da letto, avevo capito che era finalmente ora di alzarsi. Lo specchio del bagno rifletteva la mia immagine che non era la solita. Assomigliava più a quella di un maratoneta al termine della gara, ma senza sudore.

    Andai in cucina a preparare la colazione. Misi le tazze con il latte nel microonde e preparai la tavola con le tovagliette, le posate, lo zucchero e i biscotti.

    Arrivò Francesca con Emma in braccio ancora mezza addormentata con le braccia a penzoloni e la testa appoggiata sulla spalla di sua madre.

    «Buongiorno, amore mio», dissi alla mia bimba baciandola sulla guancia.

    Francesca si girò per darmi il bacio del buongiorno, un bacio da trenta denari, come quello di Giuda. Senza parlare, feci un passo indietro per scansarlo.

    Capitolo 3

    IL MURO DEL SILENZIO

    Non è facile spiegare cosa provavo: delusione, rabbia, incredulità… un mix perfetto per rendere amaro ogni giorno che passava. La quotidianità della famiglia segnava il tempo, con i suoi problemi e le sue gioie: Emma e Aurora crescevano moltiplicando l’impegno di essere genitore con la scuola e tutto quel che le girava attorno, come le attività sportive extra-scolastiche con i relativi impegni, il catechismo e i rapporti con le varie famiglie. Il mio lavoro dava i suoi frutti, così volevo dare la possibilità a Francesca e alle mie figlie di avere qualcosa in più, come l’aiuto di una signora in casa per pulire e stirare, un viaggio a sorpresa, l’acquisto di nuovi mobili. Volevo dare tutto quello che potevo a mia moglie, credendo così di poter cancellare l’incubo che mi aveva sconquassato la vita.

    Sbagliavo! Se è vero che il futuro è scritto dal presente ed è il frutto del nostro passato, ci sono variabili chiamate imprevisti, dove niente e nessuno può prevedere come cambieranno gli eventi del tempo che verrà.

    Il lavoro ebbe una brusca inversione di rotta, con l’arrivo della crisi da una parte e l’adeguamento al ribasso delle provvigioni dall’altra. Nacquero così i miei primi problemi economici, con i profitti, in ripida discesa, che non coprivano le tasse da pagare sul guadagno dell’anno precedente.

    Con Francesca poi affioravano spesso incomprensioni e i motivi di litigio erano sempre più frequenti, per futili e stupidi motivi. La mia fiducia nei suoi confronti si stava consumando come una candela accesa, piano piano con situazioni strane e continui suoi ambigui atteggiamenti a cui non dava mai spiegazioni. La sua indifferenza stava distruggendo la nostra complicità.

    Baci e carezze, complici della nostra intesa, erano sempre più rare. La nostra intimità sempre più arida; le nostre lenzuola non si impregnavano più dell’odore salato del piacere, il sesso era diventato un freddo atto di dovere coniugale, senza più il calore della passione.

    Una sera, a letto, fissando il soffitto e allargando le gambe, Francesca mi disse sbuffando: «Dai, fai quello che devi fare, svuotati i coglioni, così poi stai meglio e mi lasci in pace!»

    Quella umiliazione fu, da parte mia, la morte della coppia e la fine del nostro matrimonio. Erano ormai più di due anni che sopportavo questa situazione. Non avrei più potuto vivere così, mentendo a me stesso per rimanere accanto a chi non mi voleva più.

    «Senti, io non ce la faccio più ad andare avanti così», le dissi una mattina appena svegli, prima che si alzassero le bimbe, «è meglio che ognuno stia per conto suo».

    «Vuoi separarti? E le bambine?», mi chiese

    «Meglio che ci vedano separati che sempre a litigare».

    «La fai facile tu…»

    «Non è facile», dissi, «ma non si può continuare a fingere».

    «Abbiamo degli obblighi come genitori…»

    «Sì: rendere serena la vita delle nostre figlie», spiegai.

    «E ai nostri genitori? Non pensi a loro? Cosa diranno?»

    «Sei tu che hai paura del giudizio dei tuoi, come sempre. I miei capiranno, se vogliono, come i tuoi… altrimenti sono solo cazzi loro», risposi.

    «Ma…»

    «Io voglio vivere!», esclamai fissandola negli occhi.

    Si può perdonare un tradimento? Perdonare non vuol dire sopportare, perché il far finta di niente porta a una sofferenza estenuante, che nel tempo logora inevitabilmente il rapporto di coppia. Il tradimento non va sopportato, va capito. Per capire quello che non è altro che un sintomo di malessere da parte di chi tradisce, c’è solo una cura: parlarsi. Parlare per chiarirsi, parlare per condividere, parlare per conoscersi. Solo così lo si può accettare e accettarsi.

    Ecco, questo è stato quello che è mancato tra me e mia moglie: la parola. Francesca si era barricata dietro un muro di silenzio che io non ero riuscito ad abbattere. Dicendomi: Io non ti amo più, mi aveva disarmato. Le testate non fanno cadere i muri, fanno solo male.

    Capitolo 4

    LA PROFEZIA

    Finalmente avevo inaugurato la mia lavanderia self-service. Dopo mesi di burocrazia, lavori e pensieri, la mia sfida era diventata realtà. Molti scettici, compresa mia moglie, non credevano che ci sarei riuscito.

    Volevo dimostrare a me stesso, ma soprattutto a Francesca, che sapevo fare qualcosa nella vita, qualcosa di mio. Volevo dimostrarle che non pensavo solo ai giochetti elettronici o a quella cosa lì…, che non pensavo solo a divertirmi e che non era vero che non sapevo nemmeno portare a casa la pagnotta, come lei mi accusava ogni santo giorno. Erano accuse lanciate come coltelli in un numero da circo, ma centravano il bersaglio, ferite sempre più sanguinanti, in un’emorragia che non sapevo come, ma volevo bloccare.

    Quel pomeriggio mi fermai al parco dietro la chiesa credendo di trovare lì le mie bimbe, visto che a casa dei nonni il campanello suonava a vuoto, non rispondeva nessuno. Era una bella giornata di primavera inoltrata, con un sole che riscaldava e faceva venir voglia di maglietta a mezze maniche e pantaloncini corti; ormai il parco era diventata la meta preferita dei ragazzini, accompagnati dai nonni o dai genitori, per stare all’aria aperta.

    Le giostre erano tutte occupate, così come le panchine sulle quali erano seduti gli adulti. In questa gioiosa baraonda non riuscivo a vedere Emma e Aurora. Sulle prime panchine appena entrato, dopo la staccionata in legno che delimitava il parco dalla strada, chiesi ad un gruppetto di genitori che ben conoscevo: «Avete visto le mie per caso? Con tutti ‘sti ragazzini non le vedo!»

    «No, non mi sembra», risposero quasi in coro.

    «Le ho viste poco fa andare via coi nonni. Saranno cinque minuti», intervenne Giovanna, la mamma di un compagno di classe di Emma, mentre mi portavo verso il centro del parco.

    «Grazie», le urlai perché potesse sentirmi tra la confusione che c’era.

    Le feci un cenno di ringraziamento con la mano, mentre, guardandomi in giro, poco più in là, in una panchina vicino allo scivolo dei più piccoli, mi accorsi che, seduta da sola, c’era Alice. Teneva la testa chinata verso il basso, con lo sguardo impegnato a guardare il telefonino. Il ciuffo biondo come i suoi capelli lunghi e lisci le copriva in parte il viso.

    Sebbene le sue figlie avessero la stessa età delle mie, frequentassero la stessa classe e fossero quindi molto amiche, la conoscevo poco e non ci eravamo mai frequentati. Non ricordavo neanche di averci magari parlato durante qualche festa di compleanno delle bambine, o durante qualche riunione a scuola tra genitori.

    Alice era una donna bellissima, di quelle che quando le vedi passare con lo sguardo le segui fino a che gli occhi ce la fanno. Tra i papà era conosciuta come ics-five, la biondona strafiga che girava per il quartiere a bordo di una BMW X5 nera e che chissà cosa faceva a letto. Soliti discorsi maschili da bar con il linguaggio da scaricatore di porto.

    Non so perché, ma mi avvicinai a lei: «Buonasera, principessa, che ci fa qua da sola?», le dissi con fare un po’ cavalleresco e un po’ burlone per distrarla dal suo cellulare.

    «Ciao, Paolo. Son qua con le bimbe che saranno da qualche parte a giocare», rispose alzando lo sguardo e chiudendo il cellulare mettendolo in borsa.

    Notai che aveva gli occhi un po’ lucidi. Si abbassò gli occhiali da sole che portava a mo’ di cerchiello sui capelli.

    «Perché non sei con gli altri?»

    «No, sto bene qua», si giustificò.

    «Se vuoi stare da sola allora me ne vado. Scusami…»

    Spostando la borsa come per liberare il posto sulla panchina mi disse: «No, no, resta se vuoi. Mi farebbe piacere scambiare quattro chiacchiere con te. Gli altri lasciali là dove sono, che è meglio».

    Mi sedetti sulla panchina vicino a lei che, come a volermi vedere meglio, si portò nuovamente gli occhiali da sole sopra la fronte. Guardandomi si mordicchiava nervosamente le labbra di quella sua bocca perfetta, che sembrava disegnata da un pittore su quel viso che esprimeva bellezza. Truccati con un rimmel appena accennato di un colore tenue, che con la matita scura rendevano il contorno una cornice perfetta per via del color verde con sfumature scure tendenti al marrone, i suoi occhi mostravano tristezza. I miei, non posso negarlo, nascosti dietro le lenti colorate, caddero nella scollatura della sua camicetta aperta fino al quarto bottone, che esibiva generosamente le forme perfette del suo seno.

    «Allora, cosa succede? Mi sembri triste…», le chiesi

    «Ma no, qualche pensiero in testa ma niente di che. Tutto ok», rispose lei rimanendo sul vago.

    «Quegli occhietti, però...», provai a insistere.

    «Eh, sono stanca. Non vedo l’ora di andare in ferie».

    Capivo che non voleva entrare nel merito di certi argomenti, così parlammo delle ferie, della scuola, della casa, praticamente del tutto e del niente. A mano a mano che il tempo passava però la sua freddezza si stava sciogliendo.

    «Ma perché, tu non sai niente?», mi chiese.

    «Onestamente no».

    «Non sai quello che è successo?»

    «Ti ripeto, io non so niente», le dissi insistendo.

    «Giacomo mi ha scoperto con un altro. E sai con chi?»

    Sentire che aveva messo le corna a suo marito mi colse di sorpresa, non tanto per il fatto, ma perché me lo stava raccontando.

    «No, non saprei… Con chi?», chiesi a questo punto incuriosito.

    «Rolando».

    Ci pensai un attimo. Velocemente scorsi mentalmente i nomi della rubrica delle mie conoscenze in quartiere, ma senza esito.

    «Scusa, ma chi è Rolando?», chiesi.

    «Ma sì che lo conosci. Sua figlia è in classe con le nostre».

    Questo indizio non mi bastava per capire chi fosse.

    «Scusa ma non capisco chi è…»

    «Quello rosso di capelli», rispose Alice.

    Quel particolare mi aveva fatto capire chi fosse il personaggio misterioso.

    «Adesso ho capito chi è…»

    Sembrava fosse crollata una diga. Alice cominciò a parlarmi di cos’era successo, della sua relazione clandestina con ‘sto Rolando, di cosa faceva con lui, di come l’aveva scoperta suo marito, era un fiume in piena. Io la ascoltavo, ma non riuscivo ad intervenire, tanto parlava veloce e incalzante era il suo racconto.

    Come a mettere la parola Fine nei titoli di coda di un film, terminò il suo racconto dicendomi: «Ecco perché adesso sono qui».

    Rimasi in silenzio, aspettando finisse l’eco della sua voce dentro la mia testa. Mi fissava, anche lei in silenzio: adesso erano i suoi occhi malinconici a parlare e a chiedermi un aiuto, un consiglio. Mi alzai dalla panchina per sgranchirmi la schiena farfugliando le solite parole di conforto: «Ormai è passato, tutto si sistema, può succedere, tutto passa…»

    Guardai l’orologio e mi resi conto che il tempo era volato e ormai cominciava ad essere tardi. In quel preciso momento mi tornò alla mente perché ero al parco: per recuperare le bambine.

    «È tardi, cazzarola, devo andare a prendere le bimbe dai nonni, sennò poi quell’altra chi la sente?»

    «Anche se non ho voglia, adesso anch’io devo andare a casa a preparare la cena».

    «Ci vediamo presto, dai. Ciao, Alice, e buona serata», la salutai andando verso la macchina.

    «Ciao, ciao Paolo e… grazie», rispose accennando un sorriso.

    A quel punto mi fermai e sorridendo le dissi: «Comunque, se ce l’ha fatta quello là, potrei anch’io avere le mie chances con te!»

    Mai nessuna battuta avrebbe potuto essere più profetica.

    Capitolo 5

    CIAK, SI GIRA

    Era l’ultimo giorno di scuola, ormai l’estate era arrivata, anche meteorologicamente parlando; una giornata di pieno sole e l’afa cominciava a farsi sentire.

    Suonò la campanella. All’uscita, tutti i bambini sembravano impazziti di gioia. Chi gridava, chi correva, chi lanciava lo zaino verso la mamma o il papà. Il gruppetto dei più grandi rideva a crepapelle, mentre poco più in là c’era chi cantava abbracciato all’amico, chi prendeva la bici e cominciava a pedalare zigzagando nel caos che regnava in quel momento.

    I genitori erano divisi in gruppetti. Ci si salutava e ci si dava appuntamento per la sera. Sì, perché ci sarebbe stata la pizzata della classe, classica di ogni fine anno scolastico: giochi per i bambini, chiacchere e brindisi per noi genitori. Io non amavo molto questi incontri, anzi. Passare le serate con persone di cui ti interessa poco o niente, più per dovere che altro, non era una mia aspirazione.

    L’appuntamento era al Jolly, la pizzeria storica del quartiere, vicinissima al parco dietro la chiesa, così i bambini, finita la pizza, avevano un posto tranquillo e sicuro dove sfogarsi. La tavolata era stata preparata nel giardino della pizzeria. Le candele gialle di citronella tutte intorno rilasciavano un odore tipico dell’estate, come quello dell’Autan, per proteggersi dalle fastidiose e onnipresenti zanzare.

    La puntualità, si sa, in queste occasioni è un optional e già questo non lo sopportavo.

    «Allora, tutti i bambini si mettono in fondo

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