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L'Europa di Giovanni Sobieski: Cultura, politica, mercatura e società
L'Europa di Giovanni Sobieski: Cultura, politica, mercatura e società
L'Europa di Giovanni Sobieski: Cultura, politica, mercatura e società
E-book718 pagine10 ore

L'Europa di Giovanni Sobieski: Cultura, politica, mercatura e società

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Il volume raccoglie vari interventi dell'incontro organizzato dal CESPoM nel giugno 2004 sul tema "L'Europa di Giovanni Sobieski: cultura, politica, mercatura e società". Questi pongono in luce la figura del sovrano polacco come uomo politico e fautore dell'alleanza con la Francia prima e con l'Impero dopo, il suo governo durato dal 1674 al 1696, gli effetti della sua politica, frutti che continuarono a prolungarsi dopo la sua morte, ma anche le difficoltà che l'Europa della seconda metà del Seicento, condizionata dal dualismo franco-asburgico, dovette affrontare.
LinguaItaliano
Data di uscita5 mag 2022
ISBN9788878539563
L'Europa di Giovanni Sobieski: Cultura, politica, mercatura e società

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    Anteprima del libro

    L'Europa di Giovanni Sobieski - Gaetano a cura di Platania

    Prefazione

    Il Centro Studi sull’ Età dei Sobieski e della Polonia Moderna (CESPoM), all’art. 6 del proprio statuto segnala tra gli scopi da raggiungere, anche quello di organizzare seminari, conferenze, incontri di studiosi, corsi di lezioni e convegni. È seguendo fedelmente questi dettami che il Consiglio del CESPoM ha organizzato nel giugno del 2004 uno specifico incontro sul tema L’Europa di Giovanni Sobieski: cultura, politica, mercatura e società chiamando a confrontarsi studiosi che da sempre si sono interessati alla Rzeczpospolita, ai rapporti politici, economici e culturali tra l’Europa continentale e la Polonia di Giovanni Sobieski.

    Il risultato di questo incontro è il presente volume che raccoglie vari interventi che pongono in luce la figura del sovrano polacco come uomo politico e fautore dell’alleanza con la Francia prima e con l’Impero dopo, il suo governo durato dal 1674 al 1696, gli effetti della sua politica, frutti che continuarono a prolungarsi dopo la sua morte, ma anche le difficoltà che l’Europa della seconda metà del Seicento, condizionata dal dualismo franco-asburgico, dovette affrontare.

    In particolare alcuni interventi hanno analizzato le azioni militari del sovrano contro Turchi e Tartari, l’impresa di Chocim, Żurawna, le difficoltà per il raggiungimento della lega santa, l’influenza esercitata dalla cultura polacca sulla Moldavia ect.

    Si è anche cercato di inquadrare la situazione politico-diplomatica dell’Europa continentale davanti al pericolo turco, il ruolo delle grandi e piccole capitali d’Europa e la difficoltà di un’alleanza tra tutti i principi cristiani. Mentre spazio è stato dato ad alcune figure di insigni italiani che hanno gravitato attorno alla corte del Sobieski, così come è stata presa in esame la straordinaria stratificazione documentaria presente negli archivi e nelle biblioteche italiane e straniere.

    A tutti i colleghi va il mio più sentito ringraziamento per aver concorso al successo dell’iniziativa e per i contributi offerti alla riflessione di tutti coloro che, interessati a queste tematiche, avranno la bontà di leggerci.

    A Joëlle Fontaine, sempre impeccabile nell’organizzazione, va il mio grazie; ai miei Dottorandi il compiacimento di averli visti affrontare una prova tanto ardua confrontandosi con i professionisti di così alto spessore.

    Al professor Marco Mancini, Magnifico Rettore dell’Università degli Studi della Tuscia, va ancora una volta il mio pensiero e il mio sentito ringraziamento.

    La Polonia in Ungheria al tempo di Sobieski. Missioni cattoliche nelle città polacche dell’Ungheria Superiore

    István György Tóth Istituto Storico dell’Accademia delle Scienze Ungherese-Budapest

    Al tempo del re Sobieski, l’Ungheria e la Polonia non erano semplicemente paesi vicini, ma i loro territori erano strettamente intrecciati. Nell’Ungheria Superiore, cioè nella parte orientale dell’odierna Slovacchia, 13 città con i territori circostanti appartenevano ai domini del re polacco. A livello municipale erano separate, pur appartenendo alla medesima provincia della Sepusia (Szepesség in ungherese, Zips in tedesco). Tuttavia alle riunioni amministrativi regionali (le cosiddette Grafenstuhl, cioè sede di contea) erano amministrate unitamente.

    Nel 1412 le 13 città, centri piccoli, ma ricchi e con una popolazione sassone, erano state date in pegno al re polacco dall’imperatore e re ungherese Sigismondo, il quale si trovava in difficoltà finanziarie che credeva solo transitorie. Oltre a questi centri l’imperatore aveva dato in pegno anche la città e la fortezza di Lubló e le città di Podolin e di Gnezda, perciò questi territori erano chiamati alternativamente le 16 città o le 13 città. Non furono mai riscattate dai re d’Ungheria, per la mancanza costante di denaro, e rimasero polacche fin quando furono occupate dall’esercito austriaco nel 1769 e restituite al regno ungherese nel 1772, dopo la prima spartizione della Polonia. Le 16 città mantennero la loro autonomia anche dopo questi eventi e rimasero sestieri separati della Sepusia [1] .

    Queste piccole enclaves furono molto importanti dal punto di vista delle missioni cattoliche e si trovarono in una situazione assai peculiare [2]. Malgrado che Sobieski e tutti i re polacchi nel Seicento fossero cattolici, i loro interessi divergevano da quelli degli imperatori asburgici, persino dal punto di vista della religione. Inoltre nella zona dominava lo starosta polacco e non i comitati ungheresi. Nel Seicento gli starosta furono tutti membri della famiglia Lubomirski: il primo fu infatti Sebastiano Lubomirski nel 1593 e i suoi discendenti ereditarono il titolo sino a Teodoro Lubomirski, con la scomparsa del quale si estinse nel 1745 questo ramo della famiglia [3].

    Gli abitanti sassoni delle 13 città aderirono alla riforma luterana nel Cinquecento e la regione divenne un bastione luterano nell’Ungheria asburgica. Nelle città dunque i tedeschi proibirono l’esercizio della religione romana, mentre nei villaggi il vescovo di Cracovia esercitò la propria giurisdizione, conformemente ai rapporti di forza politici e nonostante non avesse alcun diritto canonico [4].

    Tra la fine del Cinquecento e l’inizio del secolo successivo, il preposto di Sepusia (l’arcivescovo di Kalocsa in esilio) Márton Pethe cercò l’appoggio del re di Polonia per i suoi piani di ricattolicizzare la regione. Anche lo starosta Stanislao Lubomirski – appena ritornato dal pellegrinaggio a Roma – appoggiò la Controriforma della Sepusia, che, però, non fu realizzata per l’opposizione dei Thurzó. Questi formavano la famiglia più ricca e potente dell’Ungheria di quel tempo e appartenevano alla chiesa luterana. Dopo la pace di Vienna del 1606, i diritti dei protestanti furono dunque ben protetti. Però, nel 1636 Mihály Thurzó morì e la sua potente dinastia si estinse: le terre furono ereditate dal conte Stefano Csáky (a sua volta defunto nel 1662), un cattolico fervente, che fu l’amante di Caterina di Brandenburgo, la vedova di Gabriele Bethlen principe di Transilvania, e la convertì al cattolicesimo. Csáky iniziò la ricattolicizzazione della regione, occupando le chiese luterane nei villaggi.

    In questa congiuntura gli interessi ungheresi e polacchi non erano concordi, pur mirando allo stesso obiettivo finale. Lo starosta Stanislao Lubomirski protesse gli scolopi, un ordine religioso di origine italiana, ma con una massiccia presenza in Polonia. Nel 1642 lo starosta fondò il convento degli scolopi di Podolin sul territorio posseduto in pegno dal re polacco, il primo istituto di quest’ordine in terra ungherese. I padri arrivarono dalla Polonia e iniziarono l’attività missionaria: la loro scuola eccellente attirò presto anche i figli degli ungheresi protestanti [5].. Quattro anni dopo Stefano Csáky portò invece nella cittadina di Szepesváralja, molto più centrale di Podolin, i gesuiti ungheresi. Anche questi ultimi fondarono una scuola importante. Scolopi e gesuiti si fecero un’aspra concorrenza, compromettendo i risultati complessivi del loro sforzo. Inoltre lo starosta Giorgio Lubomirski, che fu a capo della Sepusia dal 1649 al 1667, fu più tollerante verso i luterani e badò soprattutto alla guerra in Polonia [6].

    Un episodio particolarmente interessante della Controriforma in questa zona fu la fondazione della chiesa cattolica nella ricca città di Löcse (Levoca, Leutschau). Questo centro urbano, tedesca e luterana, era minacciato dalla famiglia aristocratica Thököly, che era composta di ferventi luterani, ma le aveva tolto i privilegi di regia città libera, trasformandola in proprietà signorile. Löcse fu dunque costretta a cercare protezione alla corte di Vienna e dovette pagare la conferma degli antichi privilegi (nel 1665 fu confermata come città reale libera) con l’apertura di una chiesa cattolica, affidata ai missionari paolini.

    Malgrado la ricattolicizzazione di molti villaggi, le 13 città sassoni conservarono la libertà religiosa e i privilegi della chiesa luterana. Nel 1669 János Vanoviczi, missionario paolino, affermò con tristezza che nelle 13 città luterane della Sepusia era proibito l’esercizio della religione cattolica. Nel 1671 invece la mappa politica della zona subì un grande cambiamento: in seguito al fallimento della congiura di magnati ungheresi contro l’imperatore Leopoldo, la corte di Vienna fece cacciare i predicatori protestanti da tutta l’Ungheria austriaca. Giorgio Bársony, preposto di Sepusia, ricominciò dunque ad occupare i templi luterani con l’aiuto di soldati, spesso della famiglia Csáky.

    All’inizio questa riconquista non riguardò le città in mano polacca. Nei primi tempi le enclaves polacche ebbero quindi un importanza particolare, perché rimasero fuori dalla persecuzione dei protestanti nell’Ungheria imperiale. In questi territori i francescani e i paolini riuscirono a entrare solo più tardi, quando un nuovo starosta di Sepusia iniziò ad aiutare il preposto Giorgio Bársony. Lo starosta in questione era il maresciallo Stanislao Heraclius Lubomirski (1642-1702), il grande politico, poeta e scrittore, che sotto il pseudonimo di Stanislaus Lysimachus Eques Polonus scrisse poesie e tragedie. Siccome il re Michele Wisniowiecki aveva rivendicato il giuspatronato sulle chiese della Sepusia, lo starosta dette le chiese luterane di Szepesbéla, Igló e Szepesváralja ai cattolici. Nel 1672 inoltre scacciò i pastori luterani dalle terre appartenenti alla Corona, liberando così le loro parrocchie. Quelle più importanti e naturalmente più ricche furono concesse ai canonici polacchi, tra i quali vi erano alcuni parenti dello starosta. Così Giuseppe Zebrzydowski, preposto di Cracovia e parente di Lubomirski, ebbe le rendite della parrocchia di Leibicz. Andrea Podolsky, canonico di Przemysl, ricevette le parrocchie di Poprád e Strázsa, mentre la parrocchia di Szepesszombat pagava un canone a Giacomo Jaskmariczki, canonico di Cracovia. La parrocchia di Felka era invece sottomessa ad Abrahanowicz, preposto di Ibogow. Sotto la pressione controriformistica, persino il conte Giovanni Olmützer, allora a capo dell’amministrazione autonoma delle 13 città, dovette convertirsi alla religione cattolica.

    Nel 1675 János Vanoviczi, missionario paolino d’origine ungherese, annunciò soddisfatto dal monastero di Máriavölgy che nella Sepusia finalmente molti si erano convertiti alla fede cattolica: e non solo nei territori ungheresi, ma anche nelle 13 città date in pegno alla Polonia. Ormai – comunicò vittoriosamente Vanoviczi ai cardinali della Sacra Congregazione de Propaganda Fide – anche nelle città della Sepusia in mano ai polacchi erano cacciati i predicatori protestanti ed erano invitati i paolini a predicare, a confessare ed a svolgere le funzioni di parroco. Analogamente da Tokaj il paolino Gábor Wildt, uno dei missionari più efficaci dell’Ungheria Superiore, comunicò ai cardinali romani che stava convertendo soldati a cavallo tedeschi e ungheresi, slovacchi e polacchi. Nel 1676 fu, però, imprigionato dagli insorti kuruc, che si battevano per l’indipendenza.

    Nell’Ungheria Superiore la missione cattolica fu avviata nel 1629 da alcuni francescani italiani venuti dalla Polonia [7]. In realtà la prima missione della Congregazione de Propaganda Fide ebbe inizio sul territorio del principato transilvano, ma, a causa della mutevole situazione politica, il territorio della missione passò da uno stato all’altro. Nell’ottobre del 1629 Vincenzo Pinieri da Montefiascone, conventuale italiano già in missione in Polonia, giunse nella regione di Zemplén, che allora apparteneva al principe Gabriele Bethlen, insieme ad altre province cedute con il trattato di pace di Nikolsburg [1621]. Alcune settimane più tardi, il 15 novembre del 1629, Bethlem morì e quei sette comitati furono resi all’Ungheria asburgica: così i francescani proseguirono la missione sotto gli Asburgo. La loro base era il monastero di Stropko, vicino alla frontiera della Polonia. I frati polacchi uscivano dai loro confini e si recavano dai contadini slovacchi dei villaggi vicini e durante i tre anni della missione guidata da Pinieri riuscirono a strappare agli eretici ben 18 di questi piccoli centri. Secondo il conventuale italiane durante la missione da lui gestita furono convertite alla fede cattolica circa 370 persone, in precedenza evangelici luterani, riformati calvinisti, greco-ortodossi.

    Pinieri e i suoi compagni non partirono dal nulla: uno dei signori cattolici, il barone István Gersei Pethö, già nel 1617 aveva fondato un monastero a Stropko, sotto i Carpazi, nelle vicinanze della frontiera polacca. Qui si insediarono alcuni conventuali polacchi, che erano venuti dal monastero di Krosno, sito all’altra parte dello stretto di Dukla. Stropko rimase sino alla fine la base dei missionari italiani. Al tempo di Vincenzo Pinieri ci vivevano tre frati italiani e sei polacchi. I conventuali andavano spesso nel monastero di Krosno e anche Benedikt Radzinski Gábor, il prefetto di missione, viveva in quel monastero.

    Alla fine del 1631 Vincenzo Pinieri si ammalò e lasciò l’Ungheria: dopo un lungo soggiorno in Polonia, nel 1632 ritornò in Italia. In un verboso e dettagliato rapporto inviato da Varsavia rese conto a Roma della storia avventurosa della missione, che aveva affidato a Benedikt Radzinski [8]. Nei decenni seguenti il monastero di Stropko, che sorgeva in un sito appartato, rimase la base della missione dei francescani polacchi e italiani in Ungheria. A Stropko i frati polacchi e italiani operarono con successo fino al 1671, quando i loro protettori, la famiglia Gersei Pethö, tolsero il monastero ai polacchi, turbati dalla vita sregolata di questi ultimi [9].

    Nel 1642 il monastero di Stropko servì da base anche alla visita apostolica delle missioni in Polonia. Andrea Scalimoli da Castellana, provinciale francescano d’Ungheria e contemporaneamente prefetto della missione, giunse a Stropko nel settembre del 1640 e diresse le attività nell’Ungheria Superiore fino al 1643. Nella primavera ed estate del 1642, per incarico del suo generale, visitò le province dell’ordine in Polonia e in Russia e a Lemberg tenne il capitolo dei frati polacchi.

    Nella missione francescana dell’Ungheria Superiore operava il polacco Remigius Cizemsky, che fu invitato dal provinciale Tommaso Merighi a recarsi nei villaggi slovacchi della regione Zemplén e poi assunse l’incarico di parroco di Stropko. Cizemsky si rivolse alla Congregazione raccontando che l’Ungheria, nella quale si trovavano, era abbastanza lontana da quella che il popolo chiamava Pomo d’oro e descrivendo ai cardinali le proprie sofferenze. Specificò, per esempio, che da quelle parti non c’era grano e che i frati dovevano mangiare pane nero d’avena. I francescani dei monasteri fra i monti si lamentavano anche della mancanza del vino, tanto più sentita in quanto l’Ungheria era famosa per i suoi vini eccellenti. Anche Remigius Cizemsky si lamentò di questo e scrisse che nella sua missione si doveva bere acqua e birra. Il frate polacco ovviamente credeva che questi sacrifici sarebbero stati riconosciuti a Roma. Non fu l’unico tra i missionari a non comprendere cosa volesse Propaganda Fide, d’altronde quest’ultima era molto lontana ed era difficile mantenere i contatti.

    Bonaventura Biliński, conventuale polacco, fu un missionario di molto successo. Per 16 anni operò nell’Ungheria Superiore, ricoprendo per sei anni l’incarico di missionario apostolico. I suoi successi erano dovuti sostanzialmente a due fattori: in primo luogo, le sue prediche in polacco erano capite dalla gente slovacca; in secondo luogo, possedeva capacità esorcistiche ed era quindi ricercato anche da gente venuta da lontano per essere guarita. Biliński scrisse nel 1651 a Roma da Stropko e dalla sua lettera risalta come non avesse alcuna idea di cosa fosse Propaganda Fide. Biliński non era capace nemmeno di scrivere correttamente il nome della Congregazione e credeva che quell’istituzione fosse un tribunale ecclesiastico. Per questo indirizzò la lettera al tribunale della Sacratissima Congregatio de Propaganda Fide, sebbene, ovviamente, avesse intenzione di rivolgersi ai cardinali che dirigevano le missioni e non al tribunale ecclesiastico che operava in parallelo alla Congregazione.

    I problemi per le missioni non nascevano soltanto dalla lontananza da Roma e dagli scarsi contatti con i centri decisionali: a tal proposito Cizemsky si lamentò nel 1654 che le lettere dei missionari di Stropko naufragavano sempre durante il viaggio verso Roma. Un’altra difficoltà dipese dalla difficile convivenza tra i frati italiani e polacchi. I conventuali italiani e polacchi predicavano insieme, ma i primi, pur essendo più colti non conoscevano lingue straniere, mentre i secondi, pur essendo meno colti, erano capaci di farsi capire. I primi, ridotti dunque in una specie di isolamento linguistico, furono gelosi dei secondi le cui parole erano facilmente comprese dai contadini slovacchi.

    Vi erano inoltre forti differenze comportamentali. Nella maggior parte dell’Europa i luoghi comuni sugli italiani li raffiguravano come poveri modelli di purezza e castità. I frati italiani, però, furono stupefatti dal confronto con il mondo dei monasteri polacchi. Quelli italiani erano stati infatti sottomessi a controlli sempre più rigidi dopo la riforma tridentina. I polacchi erano invece liberi di condurre una vita lussuriosa - come Bonaventura da Genova scriveva a Roma nel 1637. Il francescano italiano aggiunse che persino l’inchiostro sarebbe arrossito se avesse dovuto raccontare tutto quello che facevano i polacchi.

    I polacchi trasmettevano la peste della lussuria – aggiungeva nel 1635 Francesco Cosmi da Mogliano. Quest’ultimo descrisse come un monaco polacco dell’ordine di Sant’Agostino arrivò nell’Ungheria Superiore a questuare e poi dissipò l’elemosina in compagnia di diverse donnacce: infine abbandonò l’abito e iniziò a convivere in un villaggio vicino a Cassovia con una luterana, che aspettava un suo bambino da lui. Cosmi concludeva che questo monaco non era soltanto lussurioso, ma aumentava anche il numero degli avversari di Roma, crescendo il suo bambino sarebbe ovviamente diventato un predicatore luterano! La requisitoria del francescano italiano non si fermava qui ed elencava anche la tendenza a indulgere nel vino dei colleghi polacchi. A suo parere, se la missione fosse stata in Italia, il monastero di Stropko sarebbe stato tolto ai frati polacchi che davano un tale scandalo. In Ungheria, però, il proprietario terriero, che aveva fondato il monastero, non si stupiva vedendo tali abomini con grave dispiacere del missionario italiano [10].

    I francescani italiani non riconoscevano, però, i meriti dei polacchi. Krisostom Klus fu, per esempio, un missionario di successo: ogni domenica e ogni giorno festivo pronunciava quattro-cinque prediche girando a piedi i villaggi nei dintorni della missione. Riuscì inoltre a far entrare la missione nelle città luterane e questo era un grandissimo risultato. Il francescano italiano Carlo Vasis da Bergamo aveva infatti scritto che le città, e la nobiltà protestante erano i due più grandi ostacoli alle missioni cattoliche. I patrizi delle città proteggevano infatti la confessione luterana e contrastavano i missionari cattolici e calvinisti [11].

    Il quadro dei successi e dei problemi della missione nell’Ungheria Superiore fu tracciato nel 1672 da Giovanni Battista Reggiani da San Felice, colto francescano italiano. Quando era giunto nella provincia di Sepusia – scrisse – nella città di Kesmark non c’era mai stato un prete cattolico e perciò dovette celebrare messa in una casa privata. In tutta la città vivevano soltanto cinque famiglie cattoliche, appartenenti al ceto più povero. Dai villaggi circostanti, distanti 6-8 miglia, iniziarono, però, a venire in città migliaia di cattolici e ogni domenica più di mille fedeli assistevano alla messa (nel corso della quale si predicava la mattina in slovacco e il pomeriggio in tedesco). Neanche a Löcse Reggiani trovò una chiesa cattolica, anzi ai fedeli era addirittura vietato l’acquisto di una casa in città. Ad Eperjes invece, sebbene il locale liceo fosse un famoso centro della religione riformata, i missionari polacchi erano riusciti ad entrare [12]. Reggiani riferì anche delle città della Sepusia e consigliò d’inviarvi preti cattolici accompagnati da lettere del re. Se neanche gli ordini di quest’ultimo potevano aiutarli a comprare edifici in queste città, allora bisognava adoprarsi per concedere loro la cappella della chiesa evengelica luterana.

    In effetti i magistrati urbani luterani facevano uso del loro diritto di giuspatronato, così come i proprietari terrieri delle province circostanti. Dunque le città, nel periodo che precedette la Controriforma aperta e dura degli anni dopo il 1671, si chiusero letteralmente nelle propria mura, tentando di lasciar fuori i missionari di Roma. Per questo il territorio della missione cattolico fu sempre rurale [13].. Come abbiamo già visto la popolazione slovacca delle campagne dell’Ungheria Superiore capiva bene le prediche dei missionari polacchi e lo stesso valeva anche per la popolazione rutena (ucraina). A causa di tale situazione, il nuovo capo della missione, l’italiano Andrea Castellana, girò i villaggi di campagna assieme al polacco Anton Jandriski, che fungeva da interprete latino-polacco. Inoltre i prefetti della missione sostuirono i frati italiani con quelli polacchi.

    Castellana scrisse a Roma che, quando era arrivato a Stropko, vi aveva trovato quattro missionari italiani, che, però, non conoscevano l’ungherese e lo slovacco e potevano essere utilizzati solo per celebrare la messa. Perciò aveva trovato un accordo con la provincia russo-polacca e aveva scambiato i frati italiani con quattro missionari polacchi. Due dei francescani italiani ricevettero da Castellana l’incarico di rettore di seminario rispettivamente di Lemberg di Vilnius. Gli altri due furono dirottati in due monasteri polacchi. La provincia russo-polacca accettò volentieri lo scambio, perché i confratelli italiani erano apprezzati per la loro cultura, grazie alla quale potevano dirigere un seminario ed insegnare ai novizi dell’ordine, e per le loro conoscenze musicali.

    A Castellana lo scambio apparve comunque favorevole perché i missionari polacchi erano facilmente compresi dagli slovacchi. Il già menzionato Cizemsky affermò che nella missione in Ungheria sarebbe stato molto utile, visto che la sua lingua materna era compresa dappertutto nell’Ungheria Superiore. È anche vero che i missionari ungheresi, in grado di predicare in slovacco, erano a loro volta capiti dai polacchi. Negli anni 70 del Seicento il già ricordato Gábor Wildt, monaco paolino ungherese, scrisse a Roma che sapeva predicare in tedesco, ungherese e slovacco, lingua quest’ultima capita anche dai polacchi.

    Alcuni monaci prestarono attenzione anche ai dialetti. Agoston Benkovics, paolino formatosi nel Collegio Germanico-Ungarico di Roma e vescovo di Várad dal 1682 al 1702, redasse nel 1674 un lungo rapporto per i cardinali di Propaganda Fide. Rese conto anche delle lingue, ricordando come nei dintorni di Arva si parlasse uno slovacco contaminato dal dialetto polacco e come nella Sepusia gli slovacchi parlassero una lingua ancora più prossima a quella polacca.

    La situazione delle missioni cambiò ancora a causa delle nuove vicende politico-militari. Dopo i grandi successi militari del re kuruc, il principe Emerico Thököly, vassallo turco, la situazione della religione luterana cambiava per il meglio. I soldati di Thököly, un luterano fervente come gli altri membri, già ricordati, della sua famiglia, cacciavano e talvolta ammazzavano i parroci e i missionari cattolici ungheresi, mentre il principe proteggeva le scuole luterane riorganizzate nella regione.

    Giovanni Sobieski era alleato dell’imperatore Leopoldo e nemico del principe vassallo del sultano. Non voleva dunque che la Sepusia si schierasse con Thököly e fece di conseguenza grandi concessioni alla chiesa luterana locale. Il 9 settembre 1682 inviò una lettera in proposito alle 13 città e il 29 dicembre lo starosta Lubomirski, seguendo gli ordini del re, concesse completa libertà di culto alle 13 città. Sobieski e Lubomirski scrissero che era loro intenzione portare alla vera religione gli abitanti delle 13 città, ma che al momento vedevano bene come la maggioranza non fosse cattolica. L’anno successivo, le 13 città rispondevano ribadendo la lealtà alla Polonia ed esaltando la generosità di Sobieski, conosciuta in tutta l’Europa. Gli abitanti luterani chiedevano al sovrano di restituire le chiese luterane in mano di cattolici, ma questi rispose che soltanto dopo la fine della rivolta in Ungheria poteva prendere una decisione.

    Dopo la battaglia di Kahlenberg nel 1683 e la caduta di Thököly nel 1685, la Controriforma aggressiva riprese vigore nella regione di Sepusia, in questa Polonia in Ungheria. Sennonché dopo la morte di Sobieski fu eletto quale nuovo re polacco l’elettore di Sassonia Augusto II, ex-generale della guerra anti-turca in Ungheria, un luterano. Per ottenere la corona, l’elettore si convertì al cattolicesimo; ciò nonostante alla corte di Varsavia iniziò un periodo di relativa tolleranza. Così, nel 1701, lo starosta Lubomirski permise ai pastori luterani di ristabilirsi nella Sepusia. Due anni dopo il principe Francesco Rákóczi II, in esilio in Polonia, iniziò la lotta per l’indipendenza contro l’imperatore asburgico. Malgrado Rákóczi fosse cattolico, come il suo nemico l’imperatore Leopoldo, questo conflitto offrì nuove possibilità ai protestanti della Sepusia, a quei tedeschi e slovacchi che erano sudditi del re ungherese e governati dal re di Polonia [14].


    [1] G. Bruckner, A reformáció és ellenreformáció története a Szepességben (La storia della riforma e della controriforma nella Sepusia), I (unicus!), 1520-1745, Budapest 1922, con abbondante bibliografia in ungherese.

    [2] Relationes missionariorum de Hungaria et Transilvania 1627-1707, a cura di I. G. Tóth, Roma-Budapest 1994; Litterae missionariorum de Hungaria, a cura di Id., I-II, Roma-Budapest 2002, passim. (Biblioteca dell’Accademia d’Ungheria a Roma, Fonti voll. 1 e 4.) Questi tre volumi, fondati sulla documentazione dell’archivio storico della Sacra Congregazione de Propaganda Fide, sono alla base di questo saggio. Cfr. I. G. Tóth, Missionaries as cultural intermediaries in religious borderlands (Habsburg Hungary and Ottoman Hungary in the seventeenth century), in Religious differentiation and cultural exchange in Europe 1400-1700, a cura di H. Schilling - I. G. Tóth, Cambridge 2004, in corso di stampa.

    [3] D. Tollet, La reconquête catholique en Europe Centrale (fin XVIIe siècle-début XVIIIe siècle), Mélanges de l’École Française de Rome, 109 (1997), 2, pp. 825-852; I. G. Tóth , Between Islam and Catholicism: Bosnian Franciscan missionaries in Ottoman Hungary, Catholic Historical Review, 89 (2003), 3, pp. 409-433.

    [4] J. Bérenger, Tolérance ou paix de religion en Europe centrale (1415-1792), Paris 2000. Cfr. Crown, church and estates. Central European politics in the sixteenth and seventeenth centuries, a cura di R. J.W. Evans - T.V. Thomas, London 1991.

    [5] O. Chaline, La reconquête catholique de l ’Europe centrale. XVIe-XVIIIe siècle, Paris 1998; Ethnicity and religion in Central and Eastern Europe, a cura di M. Craciun - O. Ghitta, Cluj-Napoca 1995; Church and society in Central and Eastern Europe, a cura di Idd., Cluj-Napoca, 1998.

    [6] I. G. Tóth, La fondazione dell ’università di Nagyszombat ed i gesuiti, in Gesuiti e università in Europa (secoli XVI-XVIII), a cura di G. P. Brizzi - R. Greci, Bologna 2002, pp. 137-144; Id., Un dalmata mercante e spia nell ’Ungheria turca e in Bosnia (1626), in Mercanti e viaggiatori per le vie del mondo, a cura di G. Motta, Milano 2001, pp. 175-185.

    [7] Per una buona sintesi sull`attività missionaria della Propaganda, cfr. G. Pizzorusso, Agli antipodi di Babele: Propaganda Fide tra immagine cosmopolita e orizzonti romani (XVII-XIX secolo), in Roma, la cittá del papa. Vita civile e religiosa dal giubileo de Bonifacio VIII al giubileo di papa Wojtyla, a cura di L. Fiorani - A. Prosperi, Torino 2000 (Storia d’Italia. Annali 16), pp. 479-518, con abbondanti riferimenti bibliografici.

    [8] I. G. Tóth, Un missionario italiano in Ungheria ai tempi dei Turchi. Lettera del provinciale dei frati minori conventuali Vincenzo Pinieri da Montefiascone alla Sacra Congregazione de Propaganda Fide, 1631, in Annuario dell ’Accademia d ’Ungheria a Roma. Studi e documenti italo-ungheresi, I, a cura di J. Pál, Roma 1997, pp. 201- 218.

    [9] Relationes, cit., pp. 46-71., 127-133. Cfr. H. Schilling, Confessionalisation and the Rise of Religious and Cultural Frontiers in Early Modern Europe, in Frontiers of Faith, Religious Exchange and the Constitution of Religious Identities, 1400-1750, a cura di E. Andor - I. G. Tóth, Budapest (Central European University) 2001, pp. 21-35.

    [10] Relationes, cit., pp. 167-201.

    [11] Relationes, cit., pp. 191-207.

    [12] Il già citato Klus scrisse più volte da Eperjes ai cardinali di Propaganda. Probabilmente il suo successo fu legato ai ceti inferiori della società urbana e soprattutto agli slovacchi: non afferma infatti mai di sapere il tedesco.

    [13] Relationes, cit., pp. 202-207.

    [14] Relationes, cit., pp. 226-233.

    Tito Livio Burattini, uno scienziato italiano nella Polonia del Seicento.

    Jan Władysław Woś Università degli Studi di Trento

    Il 21 maggio 1674 Giovanni III Sobieski viene eletto re di Polonia. L’anno seguente è pubblicata a Vilna presso la stamperia dei padri francescani la Misura universale di Tito Livio Burattini, un trattato metrologico di notevole importanAza per la storia della scienza, con il quale il fisico italiano si proponeva, come recita il titolo, di stabilire una misura di lunghezza e un peso universali [1] .

    Nella Polonia del XVII secolo Burattini fu un personaggio assai noto, in relazione con i più illustri mAembri della nobiltà del paese, e in contatto epistolare con i maggiori scienziati europei. Ebbe rapporti diretti anche con Giovanni Sobieski, che, non ancora re, lo menziona a più riprese nella corrispondenza con la moglie Maria Casimira: la prima volta in una lettera del 10 settembre 1666 [2], l’ultima il 29 maggio 1671 [3]: da quest’ultimo documento risulta anzi che Sobieski soggiornò nella residenza di Burattini a Ujazdów, nelle immediate vicinanze di Varsavia, residenza di cui egli stesso aveva curato il restauro. Nel 1667 Sobieski fece parte del tribunale che dovette giudicare Burattini a Leopoli nel processo che gli era stato intentato per malversazioni nell’ambito della gestione della zecca [4], e sul quale ci soffermeremo più avanti. Il curatore della corrispondenza di Sobieski, Leszek Kukulski, definisce Burattini «un italiano, appaltatore della zecca, persona di fiducia di Maria Luisa» [5], ovvero Maria Luisa Gonzaga, consorte di Ladislao IV Vasa prima e di Giovanni II Casimiro Vasa poi, che aveva riunito intorno a sé un’influente cerchia di uomini di lettere e di scienza con una forte impronta francese e italiana. La definizione è certamente riduttiva e soprattutto omette di menzionare l’attività per la quale Tito Livio ha lasciato il maggior contributo ai posteri, ovvero quella di scienziato e sperimentatore, specie in ambito metrologico [6], ma è una testimonianza dello sfortunato destino di questo geniale personaggio, destinato ancora prima di morire – in povertà estrema, dopo aver accumulato grandi ricchezze – a un oblio pressoché totale sia in Polonia sia in Italia [7]: in Polonia probabilmente a causa delle vicende giudiziarie e degli scandali nei quali coinvolto, in Italia perché nella sua patria d’origine egli trascorse una parte ben esigua della sua vita movimentata.

    Burattini nacque l’8 marzo 1617 nel bellunese, probabilmente ad Agordo, da una solida famiglia della nobiltà locale la cui presenza è attestata nella regione fin dalla metà del XIV secolo e dalla quale era uscita una nutrita schiera di preti, notai e rappresentanti della comunità presso le autorità di Belluno e della Serenissima Repubblica di Venezia, città quest’ultima dove la famiglia aveva anche un banco di mercanzie e cambi a Rialto. Quasi del tutto oscuri sono gli anni d’infanzia e della giovinezza di Burattini. Sulla sua formazione intellettuale abbiamo invece qualche notizia: essa si svolse a Venezia, dove Tito Livio studiò letteratura classica, lingue, architettura, astronomia e, soprattutto, scienze fisico-matematiche sotto la guida del sacerdote Michiel Peroni, da lui stesso definito «eccellentissimo matematico». Probabilmente fu proprio Peroni a introdurlo all’opera di Galileo Galilei, del quale Burattini si dichiarò sempre fervido ammiratore, tanto che lo scienziato pisano può essere considerato un suo padre spirituale. Terminati gli studi, Tito Livio partì alla volta dell’Egitto, dove risiedette dal 1637 al 1641. Qui svolse molteplici ricerche geografiche, etnografiche e metrologiche, eseguendo fra l’altro una carta geografica del paese e definendo con precisione le coordinate delle più importanti località.

    Lasciato l’Egitto, Burattini fece ritorno in Europa e, dopo un breve soggiorno in Germania, si stabiliì per ragioni che restano ignote in Polonia, paese che diventerà la sua patria d’adozione. Se i motivi per i quali Tito Livio pose la sua residenza in Polonia sono oscuri, è invece ben noto come i rapporti fra l’Italia e questo lontano paese fossero stretti e come numerosi italiani vi svolsero la loro attività nei più diversi ambiti fin dal Medioevo.

    La permanenza di Burattini in Polonia coincide col periodo di governo di quattro sovrani: Ladislao IV Vasa [1632-1648], Giovanni II Casimiro Vasa [1648-1668], Michele I Wiśniowiecki [1669-1673] e Giovanni III Sobieski [1674-1696], durante il cui regno cadono gli ultimi anni di vita di Tito Livio. Ad esclusione del debole e insignificante Michele I, che fu eletto solo grazie ai meriti di suo padre, grande condottiero, tutti gli altri re furono dotati di una forte personalità ed ebbero un ben preciso programma di governo. Nondimeno fu questa un’epoca di particolare debolezza dell’assetto politico dello stato polacco-lituano, al quale fecero riscontro gravi disordini interni e l’espansionismo di alcune potenze confinanti. Al nord la Svezia mirava a ottenere il controllo sul Mar Baltico, mentre a oriente lo stato di Mosca si rese protagonista di uno sforzo bellico teso al dominio su tutti i territori abitati da popolazioni di religione ortodossa. A sud il pericolo era triplice: da una parte la Turchia, dopo aver conquistato l’Ungheria, desiderava procedere con le proprie conquiste, dall’altra si perpetuavano le continue incursioni dei tartari e le sollevazioni dei cosacchi. L’esercito dello stato polacco-lituano era del tutto inadeguato ad agire su questi diversi fronti e fu in questa disastrosa situazione che nel 1655, per motivi dinastici, Carlo Gustavo di Svezia invase la Polonia. Nella storiografia polacca questa invasione è chiamata diluvio svedese.

    Lo stato polacco-lituano che conobbe Tito Livio Burattini fu dunque un paese in decadenza, dominato dal disordine, in cui il cattivo uso della libertà che vi era stato fatto aveva portato a una perdita di importanza complessiva e a un indebolimento della sua compagine, fenomeni sfruttati dalle altre potenze europee e soprattutto da quelle confinanti, cioè l’Austria, la Russia e la Prussia. Senza contare che, in concomitanza con le continue guerre, una serie di calamità naturali aveva determinato una drastica diminuzione della popolazione, che scese da circa 11 milioni di abitanti a circa 6 milioni. Parallelamente la produzione agraria diminuì di circa il 50 per cento.

    Malgrado questo declino lo sviluppo della cultura non si fermò, soprattutto nel campo della pittura, dell’architettura e della letteratura. Presso la corte regia si svolsero regolari rappresentazioni di opere italiane e furono spesso invitate compagnie teatrali straniere. Vennero anche fondate nuove tipografie. Siamo nel periodo barocco e non solo la corte regia, che si trovava sotto la forte influenza della moda francese e dello stile di vita di Versailles, ma anche le corti dei magnati diventarono centri attivi di vita intellettuale, dove stranieri colti e preparati erano ben accolti e remunerati per i loro servigi di segretari, consiglieri, storiografi e bibliotecari. Burattini fu proprio uno di questi cortigiani stranieri.

    Nel primo decennio del suo soggiorno in Polonia Burattini compì vari viaggi, e durante uno di questi, in Ungheria, venne derubato dai briganti di tutto quanto aveva con sé: gran parte del materiale e delle strumentazioni in suo possesso oltre ai manoscritti di alcune sue opere giovanili, fra le quali la prima versione della Bilancia sincera e della Discrittione di tutto l’Egitto, probabilmente composta durante i quattro anni trascorsi in Africa.

    In seguito lo troviamo a Parigi e a Vienna, dove si interessò della tecnica dell’incisione – che apprese da Stefano Della Bella [8] - e del funzionamento della zecca, acquisendo una competenza che molto presto saprà mettere a frutto.

    Fu probabilmente Cracovia la prima città polacca nella quale si fermò. Qui entrò in contatto con Stanisław Pudłowski, professore nella locale università, uno dei maggiori matematici polacchi dell’epoca, a sua volta allievo degli atenei di Roma e Padova, dove aveva conosciuto Galileo, del quale possedeva tutte le opere, sia a stampa che manoscritte. Burattini e Pudłowski avrebbero in seguito stretto rapporti di vera amicizia [9].

    Entrato al servizio della corte, in breve Burattini si distinse in parecchi campi, e in pochi anni il suo nome divenne noto in tutta Europa. Ciò che contribuì in modo determinante a dargli fama nell’Europa del tempo fu l’invenzione di un singolare marchingegno per volare; nel 1648 si diffuse in tutto il continente la notizia che un ingegnere polacco (appunto il nostro Burattini) aveva progettato una macchina, detta dragone volante, la quale, secondo i commenti sarcastici dei maligni, sarebbe stata in grado di compiere il tragitto Varsavia-Costantinopoli in dodici ore. La verità è che Burattini si era per anni dedicato a studi sul volo, realizzando il prototipo di una macchina volante che, in occasione di una dimostrazione compiuta alla fine del 1647 di fronte alla corte di Varsavia, riuscì a innalzarsi per qualche istante sollevando con sé un gatto. La notizia dell’invenzione sulle prime fu accolta all’estero con ironia, probabilmente anche per la scarsità di informazioni più precise in merito. In seguito lo stesso Burattini inviò documentazioni dettagliate del suo esperimento agli studiosi francesi con i quali era in contatto, e le ricerche da lui effettuate furono oggetto di un serio dibattito scientifico [10]. Non mancò, inoltre, di ispirare autori di opere letterarie: alla metà del XVII secolo, ad esempio, è probabile che le macchine volanti progettate da Cyrano de Bergerac per i suoi fantastici viaggi verso le regioni del Sole e della Luna derivassero proprio dal dragone di Burattini [11]. Né è da escludere che lo scrittore francese e Tito Livio si fossero conosciuti personalmente: o nel 1648, quando Cyrano si recò in Polonia al seguito del duca d’Arpajon, o nel 1650, in occasione di un viaggio a Parigi di Burattini. Studi recenti (su tutti, quelli condotti da René Taton) hanno comunque posto in rilievo come l’invenzione di Burattini fosse un notevole progresso rispetto alle realizzazioni compiute sino ad allora. Tito Livio, tra l’altro, era riuscito a ottenere ciò che era sfuggito al suo illustre precursore Leonardo da Vinci: dissociare, per quanto riguarda le ali del suo dragone, la funzione portante da quella propulsiva [12].

    Di particolare rilievo è la gestione della zecca del regno di Polonia e del granducato di Lituania, che Burattini ebbe in appalto negli anni cinquanta e sessanta e che divenne una delle principali fonti del suo arricchimento ma anche l’origine dei suoi problemi. Fra il 1660 e il 1670 furono infatti rivolte a Burattini, a più riprese, pesanti accuse in relazione alla sua attività di zecchiere. Le accuse si riferivano in sostanza alla gestione contabile (ritardi nella consegna dei libri di conto o addirittura mancata consegna), alla qualità scadente della lega delle monete (in particolare dei cosidetti scilonghi, chiamati anche dal suo nome boratynki; ricordiamo che Burattini aveva in appalto anche la gestione di alcune miniere di piombo e di argento), al fatto di aver causato la svalutazione della moneta polacca coniando una quantità di pezzi superiori al consentito: il tutto a scopo di arricchimento personale. È proprio in riferimento a questa vicenda degli scilonghi che troviamo il nome di Burattini nella corrispondenza di Sobieski. Di fatto egli uscì indenne dal procedimento giudiziario, ma la sua popolarità e la sua posizione subirono un colpo durissimo, dal quale non si risollevò più del tutto. Ricerche recenti hanno peraltro dimostrato che effettivamente, fra il novembre 1659 e il giugno 1661, Burattini coniò circa il doppio della quantità di moneta consentita [13], realizzando così dei guadagni illeciti [14]. D’Altra parte non si può perdere di vista il contesto, già per sommi capi descritto, di grave crisi sociale ed economica della Polonia del tempo, della quale Burattini non può certo essere ritenuto responsabile. Non si deve inoltre dimenticare che il nostro Tito Livio, in quanto straniero, aveva attirato su di sé molte invidie (non foss’altro perché era diventato ricco in un periodo di impoverimento sempre più intenso e generalizzato) e che aveva fatto parte della cerchia della regina Maria Luisa, figura poco amata: alla sua morte, avvenuta nel 1667, Giovanni II Casimiro abdicò e nella nuova corte di Michele I Wiśniowiecki l’elemento austriaco prevalse su quello italiano e francese, con tutto ciò che ne consegue.

    Negli anni del diluvio svedese con il denaro accumulato grazie alle sue molteplici attività Burattini sostenne la corona sia assoldando un reparto di fanti a capo del quale si sarebbe posto lui stesso, sia attraverso prestiti fatti direttamente alle casse dello stato. Sempre nell’ambito delle attività belliche, durante la guerra civile degli anni 1665-66, egli mise al servizio dell’esercito regio le sue competenze tecniche, costruendo un ponte sulla Vistola per facilitare il collegamento fra le truppe polacche e quelle lituane [15]. Burattini svolse inoltre importanti missioni diplomatiche a Firenze e a Vienna, per lo più dirette a ottenere la concessione di prestiti per la corona, sempre alla ricerca di fondi con cui finanziare la propria spesa militare, ma anche per verificare le possibilità di un insediamento sul trono polacco di Mattias de’ Medici, fratello del granduca Ferdinando II. Nel 1658 questa sua attività al servizio dello stato fu premiata con l’indigenato e l’assegnazione dell’Ordine Equestre di Polonia. Forse fu proprio grazie a questi riconoscimenti che, in una data a noi ignota ma sempre alla fine degli anni cinquanta, Burattini poté sposare Teresa Opacka [16], proveniente da un’importante famiglia magnatizia, dalla quale ebbe sei figli: due femmine e quattro maschi (ma nessuna discendenza di Tito Livio è documentata in Polonia dopo il 1732).

    La fama di Burattini, che agli studi metrologici si era dedicato fin dagli anni quaranta, è legata alle invenzioni e teorie esposte nell’opera Misura universale, l’unica sua data alle stampe (a Vilna nel 1675). Riedito a Cracovia nel 1897, il volume, che consta di una cinquantina di pagine e quattro tavole, costituisce oggi una rarità bibliografica, essendone noti solo tre esemplari, conservati rispettivamente presso la Biblioteca Nazionale Centrale di Roma, l’Accademia delle Scienze di Cracovia e la Biblioteca Nazionale di Parigi.

    Qui viene usato per la prima volta il termine metro – chiamato dallo scienziato agordino anche metro cattolico, cioè universale – per designare quell’unità di misura basata sul periodo del pendolo, che sarebbe entrata definitivamente in uso in Europa, con grande difficoltà, solo alla fine del XVIII secolo, in costituzione dei numerosi precedenti sistemi metrici. Gli studi metrologici di Burattini (portati avanti anche grazie alle sollecitazioni del matematico inglese, conosciuto in Egitto, John Greaves, e del polacco Stanisław Pudłowski) sono stati riconosciuti come «una proposta singolarmente moderna e anticipatrice dei tempi» [17] sebbene anche altri studiosi contemporanei avessero affermato la necessità di una misura universale e l’avessero anzi determinata con maggior precisione. In sostanza, per rimediare alla confusione generata dai troppi sistemi metrici, si fece ricorso alla natura, perché solo una misura naturale avrebbe potuto sconfiggere i particolarismi locali ed essere accettata da tutti. Vennero individuati due mezzi forniti atti allo scopo: la lunghezza del pendolo che batte il secondo e la lunghezza della circonferenza terrestre. Per ottenere la misura universale questi due mezzi furono fatti interagire: la lunghezza della circonferenza terrestre serviva per la definizione, mentre la lunghezza del pendolo serviva per la riproduzione dell’unità di misura delle lunghezze. Dal metro Burattini ricavò anche il peso cattolico. L’unità di volume adottata fu un cubo di spigolo pari a un sedicesimo del metro cattolico. Come sostanza campione per determinare la massa unitaria, Tito Livio scelse l’acqua piovana raccolta in particolari condizioni. La massa del peso cattolico fu di kg. 0,239.

    Uno dei numerosi altri campi nei quali Burattini si distinse fu l’architettura, tanto che fu nominato architetto reale. La sua opera in tale ambito fu rilevante ed è in parte tuttora visibile in Polonia: a Varsavia Tito Livio sovrintese alla costruzione del palazzo di Casimiro [18] (il futuro sovrano Giovanni II Casimiro Vasa; l’edificio è attualmente sede del rettorato dell’università) e al già menzionato restauro del castello di Ujazdów, dove egli stesso pose la sua residenza. Burattini lavorò molto anche per gli ordini religiosi, in particolare quelli giunti nel XVII secolo: a lui si devono la barocchizzazione della chiesa dei carmelitani scalzi, la chiesa dei fatebenefratelli e alcuni progetti di altari [19].

    Come testimoniano le numerose lettere scambiate con illustri scienziati europei, soprattutto francesi, Burattini ebbe grande passione per l’ottica e l’astronomia, affermandosi come abile costruttore e molatore di lenti per microscopi e telescopi e guadagnandosi con tale attività l’apprezzamento di studiosi e importanti personaggi del tempo, quali Ismael Boulliau, Johannes Hevelius e Leopoldo de’ Medici. Egli peraltro non si limitò a costruire strumenti di lavoro, ma compì anche una serie di osservazioni e indagini astronomiche, in particolare sul fenomeno del parelio e sulle macchie del pianeta Venere.

    Tito Livio Burattini, che è stato definito «mezzo avventuriero e mezzo scienziato» [20], fu in realtà uno studioso poliedrico, mosso da una sincera passione per la scienza, oltre che dotato di inventiva e grande abilità tecnica. Un’abilità che si manifestò nella costruzione di orologi [21], macchine calcolatrici [22] (di cui fece dono al granduca di Toscana Ferdinando II de’ Medici) [23] e altri marchingegni. Ad esempio, potremmo ricordare la macchina hydraulitica costruita per rifornire d’acqua il giardino del palazzo di Jan Andrzej Morsztyn, vicecancelliere della Corona e illustre poeta, oppure il meccanismo progettato per «cavar l’acqua dalle miniere». Ancora, si potrebbe ricordare il suo interesse per una novità di quegli anni, il megafono (invenzione inglese) [24] e per gli specchi ustorii (un’invenzione cui si interessò anche il re Giovanni III Sobieski, probabilmente per le loro possibili applicazioni in campo militare).

    A questa molteplicità di interessi Burattini rimase fedele fino alla morte, anche se i suoi impegni professionali e il suo servizio alla corte gli impedirono per lunghi periodi di approfondire le sue ricerche e di dedicarsi con maggiore intensità e continuità all’attività inventiva e all’elaborazione teorica.

    Poco sappiamo sugli ultimi anni di vita di Burattini. Perso il peso che aveva avuto in precedenza nelle vicende dello stato polacco-lituano, in gran parte a causa della vicenda degli scilonghi, gradualmente cadde in condizioni di grave indigenza, al punto che alla sua morte mancavano persino i soldi per il funerale. Fino all’ultimo però, come testimonia la corrispondenza con vari studiosi, Tito Livio continuò a seguire le sue ricerche scientifiche e tecniche e a lavorare alla costruzione di strumenti astronomici. La morte lo raggiunse il 17 novembre 1681.

    Come accennato, la multiformità della sua azione andò a scapito dell’approfondimento teorico e scientifico. La sua insaziabile curiosità, le sue molteplici competenze, le sue indubbie capacità furono ragione del suo successo e fecero sì che gli fossero conferiti importanti incarichi. Questi, tuttavia, finirono per distoglierlo dall’attività di scienziato e inventore nella quale aveva mostrato grande originalità. Molte sue idee rimasero così allo stadio di progetti non concretizzati. Probabilmente, su ciò ha influito anche il fatto che Burattini si trovò a vivere lontano dai grandi centri europei di ricerca scientifica. Egli stesso, nella sua corrispondenza, a più riprese si rammarica di questa sfavorevole condizione. Si legge ad esempio in una lettera a Boulliau del 4 ottobre 1675, in riferimento alla Misura universale: «Attendo ancora con desiderio quale sarà stato il sentimento e il giuditio di V.S. mio Signore circa la mia inventione della misura e peso universale, perché qua non vi è niuno che ne possi dare giuditio, però è gran infelicità di essere in un Paese nel quale non si possi trovare un amico, dal quale se ne possi ritirare una vera et esatta censura, la quale spero dalla sua sincerità et intelligenza somma nelle cose matematiche» [25]. In ogni caso, Burattini incarna la figura di uno scienziato moderno: le sue riflessioni sono sempre accompagnate da una verifica sul campo, la sua ricerca teorica è instancabilmente seguita da un’applicazione pratica, le sue intuizioni sono costantemente sperimentate.


    [1] Misura Universale overo trattato nel qual’ si mostra come in tutti li luoghi del mondo si pu ò trovare una misura & un peso universale senza che habbiano relazione con niun’altra misura e niun altro peso, & ad ogni modo in tutti li luoghi faranno li medesimi, e saranno li medesimi, e saranno inalterabili e perpetui sin tanto che durer à il mondo di Tito Livio Burattini. La misura si pu ò trovare in un hora di tempo e questa ci mostra quanto grave dev’essere il Peso. Dalla misura si cavano ancora le misure corporee per misurare le cose aride, e le liquide, in Vilna nella stamperia de’ padri francescani l’anno MDCLXXV.

    [2] J. Sobieski, Listy do Marysie ń ki, a cura di Leszek Kukulski, Warszawa 1962, p. 158.

    [3] J. Sobieski, Listy do Marysie ń ki, op. cit., p. 379. Vedi anche pp. 202, 253, 297-298, 307 e 312.

    [4] J. Sobieski, Listy do Marysie ń ki, op. cit., p. 202. (lettera da Leopoli datata 6 agosto 1667). Burattini fu chiamato a rispondere di tali fatti insieme a Andrzej Tymf, il quale però per evitare il processo fuggì, mentre Tito Livio si difese con successo ottenendo l’assoluzione, che tuttavia non mise definitivamente a tacere accuse e proteste, che si manifestarono in particolare durante la dieta di convocazione nel 1668 e la dieta d’elezione dell’anno seguente.

    [5] J. Sobieski, Listy do Marysie ń ki, op. cit., p. 611.

    [6] Cfr. F. Savorgnan di Brazzà, Tito Livio Burattini, precursore del sistema metrico, in Sapere, n. 52, (1937), pp. 117-118.

    [7] Il primo studioso che ha fatto uscire Burattini dall’oblio è stato A. Favaro con la monografia Intorno alla vita ed ai lavori di Tito Livio Burattini fisico agordino del secolo XVII, Venezia 1896. Vedi anche F. Tamis, Documenti inediti di Tito Livio Burattini e della sua famiglia, Belluno 1972 e la voce Burattini (Buratyni) Tito Livio di C. Barocas, D. Caccamo, A. Ingegno nel Dizionario Biografico degli Italiani, Roma 1972, vol. XV, pp. 394-398. Utile per l’elaborazione del presente saggio è stata la tesi di laurea di Ilario Tancon, Lo scienziato Tito Livio Burattini (1617-1681) al servizio del re di Polonia, preparata sotto la mia guida e discussa presso la Facoltà di Lettere e Filosofia dell’Università degli Studi di Trento nell’anno accademico 1996-97.

    [8] Vedi la lettera di Burattini a Hevelius del 9 gennaio 1651 in A. Favaro, Intorno alla vita ed ai lavori di Tito Livio Burattini, pp. 76-77, doc. VI.

    [9] Cfr. A. Janiszek, Stanis ł aw Pud ł owski 1597-1645, Tytus Liwiusz Burattini 1615-1682. Polscy metrolodzy, in Pomiary. Automatyka. Kontrola, n. 11, (1980), pp. 388-389.

    [10] Del dragone volante si è occupato fra gli altri K. Targosz, Le dragon volant de Tito Livio Burattini, in Annali dell’Istituto e Museo di Storia della Scienza di Firenze, a. 2, (1977), pp. 67-85.

    [11] Cfr. G. Boffito, Il volo in Italia, Firenze 1921, pp. 362-368.

    [12] R. Taton, Nouveau document sur le dragon volant de Burattini, in Annali dell’Istituto e Museo di Storia della Scienza di Firenze, a. 7, (1982), pp. 161-168; idem, Le dragon volant de Burattini, in Revue des sciences humaines, vol. LVIII, (1982), nn. 186-187, pp. 45-66. Vedi anche E. Jungowski, Tytus Liwiusz Boratyni – polski konstruktor "smok ó w lataj ą cych, in O pionierach polskiej my ś li lotniczej, Warszawa 1967, pp. 109-124.

    [13] Cfr. A. Mikołajczyk, Rewizja proces ó w T.L. Boratyniego z 1661-1662 r. Zastosowanie prawa Thordana w badaniach znalezisk boratynek, in Biuletyn Numizmatyczny, a. 1983, nn. 6-7, pp. 101-106.

    [14] Della svalutazione monetaria allora in atto si lamenta Sobieski in una delle menzionate lettere a Maria Casimira, dove afferma che non ha senso vendere al momento possedimenti per avere in cambio degli «scilonghi di Burattini». J. Sobieski, Listy do Marysie ƒń ki, op. cit., p. 253.

    [15] I lavori furono terminati il 21 maggio 1666.

    [16] Cfr. A. Favaro, Intorno alla vita ed ai lavori di Tito Livio Burattini, op. cit., p. 22.

    [17] S. Leschiutta, M. Leschiutta, Tito Livio Burattini, metrologo dimenticato del Seicento, in Giornale di fisica, vol. XXI, (1980), m. 4, pp. 305-322.

    [18] Cfr. R. Màczyński, Kto zaprojektowa ł warszawski k ó sci ół pijar ó w?, in Wk ł ad pijar ó w do nauki i kultury w Polsce XVII-XIX wieku, a cura di Irena Stasiewicz-Jasiukowa, Warszawa-Kraków 1993, p. 329.

    [19] Ibidem.

    [20] A. Favaro, Intorno alla vita ed ai lavori di Tito Livio Burattini, op. cit., p. 66.

    [21] Burattini ne regalò uno al principe Leopoldo de’ Medici. A tale proposito cfr. la lettera di Burattini a Paolo Minucci del 23 maggio 1668 in A. Favaro, Intorno alla vita ed ai lavori di Tito Livio Burattini, op. cit., pp. 119-120, doc. XXVI.

    [22] Probabilmente Burattini conobbe a Varsavia nella sua ultima versione, risalente al 1652, una delle macchine calcolatrici di B. Pascal che la regina Maria Luisa Gonzaga possedeva.

    [23] La calcolatrice, in ottone, è attualmente conservata presso l’Istituto e Museo di Storia della Scienza di Firenze.

    [24] A. Favaro, Intorno alla vita ed ai lavori di Tito Livio Burattini, op. cit., pp. 126-129, doc. XXXVIII.

    [25] A. Favaro, Intorno alla vita ed ai lavori di Tito Livio Burattini, op. cit., pp. 130-131, doc. XL.

    Italia e Europa nella carte Odescalchi: una ipotesi di percorso.

    Marco Pizzo Archivio Storico Odescalchi-Roma

    Questa comunicazione, come altre mie precedenti, intende mettere in luce la straordinaria stratificazione documentaria presente all’interno di un archivio storico gentilizio – quello della famiglia Odescalchi – presentando alcuni documenti inediti al fine di gettare nuovi orientamenti sulle fonti per la storia europea. In questo caso ho scelto come via principale la lettura di alcune pagine del ricchissimo carteggio di Benedetto Odescalchi, futuro papa Innocenzo XI, e di Livio Odescalchi. Dalla lettura di questi carteggi emergono alcune interessanti novità che vorrei riportare schematicamente lasciando più spazio alla trascrizione integrale dei documenti.

    In genere l’interesse di Benedetto Odescalchi per le aree dell’Europa orientale e centrale è sembrato prendere il via quasi esclusivamente dopo la sua elezione al soglio pontificio. Le biografie ci riportano rare notizie sugli interessi europei precedenti se non alcune scarse informazioni relative all’andamento dei mercati da mettere in rapporto con l’esistenza del banco sulla piazza di Noriberga. Invece, leggendo il carteggio di Francesco Porta, un suo lontano cugino di stanza a Bruxelles, troviamo attente analisi della realtà politica circostante. Si tratta di relazioni ben distinte dagli avvisi, note personali e personalizzate che ci parlano di movimenti di truppe, di guerre, di intrighi politici. Si tratta di una appartenente a quella famiglia Porta che darà i natali a quel Francesco Maria della Porta, che

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