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Venezia che nessuno conosce
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E-book375 pagine4 ore

Venezia che nessuno conosce

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Un percorso inedito per scoprire l’incanto nascosto della città

Ci sono ancora angoli di Venezia che possono essere definiti “sconosciuti”? Nonostante la sua fama mondiale, la Serenissima offre ancora lati nascosti del suo volto, tesori poco noti che, anche dopo innumerevoli visite, vale la pena conoscere per riuscire ad afferrare meglio l’essenza più autentica della città. Qual è il mistero dietro la presenza dei catari lungo i canali, durante il Medioevo? Quali tracce lasciarono nella Serenissima il genio di Leonardo e di Machiavelli? Che cosa ci fa un calice veneziano a Londra? E quale enigma, a lungo irrisolto, fu la causa della morte di Pietro Aretino? Tutto questo e molto altro ancora, in un libro che ci guida per mano alla scoperta dei segreti della città più bella del mondo.

Un viaggio indimenticabile nel volto oscuro della Serenissima

Tra gli argomenti trattati:

Venezia e la quarta crociata
Difendersi dalla peste
I misteri del Milione
Leonardo a Venezia
Pietro Bembo cavaliere di Malta
Machiavelli agente segreto a Venezia
Michelozzo e Donatello agenti medicei?
Pietro Aretino e Shakespeare
Il mistero del processo a Giordano Bruno
Atei, libertini e massoni
Segreti di stato e spie
Un curioso enigma bibliografico nella Venezia del Settecento
Il “tesoro” di San Marco
La stramba vita di Sebastiano Ricci e Vivaldi compositore fantasma
Venezia e la «cosa absurda et inaudita»
Lara Pavanetto
È laureata in Storia delle istituzioni politiche e sociali presso l’università Ca’ Foscari di Venezia. Ama riportare alla luce storie sconosciute e insolite del passato e raccontarle. Con la Newton Compton ha pubblicato Le incredibili curiosità di Venezia e Venezia che nessuno conosce.
LinguaItaliano
Data di uscita12 ott 2020
ISBN9788822743244
Venezia che nessuno conosce

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    Venezia che nessuno conosce - Lara Pavanetto

    Venezia e la quarta crociata: sembrò che la terra tremasse con un rombo altissimo

    Papa Innocenzo

    iii

     all’indomani della propria elezione al soglio pontificio nel 1198, indisse la Quarta Crociata per il riscatto della Città Santa caduta in mano agli infedeli. Ma questa crociata che segnò l’apice della potenza veneziana, invece di volgersi contro il mondo islamico si abbatté sull’emisfero cristiano orientale e si esaurì con la presa di Costantinopoli. La crociata prese corpo e sostanza in Francia dove all’inizio del Duecento l’assemblea di nobili che presiedevano all’impresa, per evitare i rischi che avrebbe comportato un itinerario terrestre, decise di partire via mare da Venezia e da lì raggiungere la sponda orientale del Mediterraneo. I francesi inviarono una delegazione in laguna per prendere gli accordi necessari per la fornitura di un certo numero di navi, e della necessaria scorta di viveri in cambio di denaro e della divisione delle eventuali prede. Gli ambasciatori giunsero a Venezia nella prima settimana di Quaresima del 1201chiedendo di poter essere ammessi alla presenza del doge.

    A quel tempo era doge Enrico Dandolo eletto il primo gennaio del 1193, famoso per le sue azioni diplomatiche e militari, ma vecchio e di debolissima vista. Dopo aver atteso quattro giorni, i sei ambasciatori furono ricevuti dinnanzi al doge e al suo consiglio e finalmente poterono esporre il motivo della loro missione: «Messere, noi siamo venuti a te per parte degli alti baroni di Francia che hanno preso la croce per vendicare l’onta di Gesù Cristo e riconquistare, se a Dio piace, Gerusalemme, e poiché sanno che nessuna gente ha tanta possanza come voi, vi preghiamo per Dio che abbiate pietà della terra d’oltremare». Il doge chiese come avrebbe potuto aiutarli, e i messi risposero che si affidavano a lui, ai suoi consigli e al suo comando. Il doge, pensoso, disse che avrebbe risposto da lì a otto giorni. In Francia l’ardore crociato era stato risvegliato dalla predicazione del carismatico e taumaturgico Folco della chiesa di Neuilly, un prete di campagna della diocesi di Parigi. Predicava contro l’usura e la vanità dei beni del mondo, direttamente ispirato dallo Spirito Santo, e fu seguito da centinaia e forse migliaia di persone dei ceti più umili, pervase da fervore sacro. I pellegrini indossavano la croce di tessuto sulle spalle dopo aver fatto penitenza, pegno del voto del pellegrinaggio armato in Terrasanta, rivendicando l’indulgenza papale e altri privilegi spirituali e temporali. Ma furono i baroni e i cavalieri a prendere in mano la situazione. Durante un torneo bandito a Ecry-sur-Aisne, nello Champagne, dal conte Tibaldo, accadde che i cavalieri convenuti deponessero le armi, e piangendo giurassero solennemente di dedicare ogni loro forza alla crociata.

    Questo episodio ebbe tale risonanza nella nobiltà francese che furono convocati i parlamenti per discutere della crociata, e dei messi furono inviati a Venezia per assicurarsi la disponibilità di navi. Ci si aspettava una massiccia partecipazione, quattromilacinquecento cavalieri e altrettanti cavalli, novemila scudieri e ventimila fanti. Allestire una simile flotta, anche per Venezia, sarebbe stata un’impresa difficilissima. Occorreva una squadra di galee di scorta, uomini in grado di governare e difendere le varie unità, l’approvvigionamento per un intero anno, materie prime, mano d’opera specializzata, ufficiali, marinai e rematori. Tutta la città avrebbe dovuto impegnarsi nel progetto. Venezia assicurò in poco più di un anno l’allestimento di circa cinquecento navi da trasporto e da guerra. Per coprire parte della spesa chiese un anticipo sul prezzo di nolo pattuito. I giuramenti dei messi erano stati prestati in anima, cioè a nome dei loro mandanti diretti, i conti di Champagne, di Fiandra e di Blois. Ma per maggiore garanzia Venezia richiese anche il giuramento del re di Francia. Fu anticipato dunque dai francesi il quattro per cento della somma globale, calcolato sul numero di coloro che si sarebbero imbarcati, un tanto a testa per uomo e cavallo, il costo del trasporto e dell’approvvigionamento per un anno. Gli inviati francesi si procurarono a Venezia un ulteriore prestito di cinquemila marche d’argento. Il denaro restante sarebbe stato versato entro l’aprile dell’anno successivo, quando l’esercito crociato avrebbe raggiunto Venezia per imbarcarsi poi il giorno di san Giovanni Battista, il 24 giugno. Le spese per le navi sarebbero state sostenute da Venezia, che avrebbe affiancato le navi francesi con cinquanta galee da lei armate ed equipaggiate, diventando così oltre che prestatore di servizio un alleato dell’impresa. Venezia avrebbe fornito materiale bellico e uomini in grado di combattere da fanteria di marina, perciò pretese metà delle prede che sarebbero state fatte.

    Ci è giunta la descrizione della cerimonia di ratifica del trattato da parte del popolo veneziano, tramite il racconto del maresciallo francese Villehardouin. Il doge Enrico Dandolo e i suoi consiglieri ricevettero la piena approvazione del Maggior Consiglio. Ma fu anche chiesta la ratifica, sia pur formale, da parte di tutta la popolazione cittadina. Diecimila veneziani furono chiamati a San Marco per ascoltare la messa dello Spirito Santo e pregare Dio di fronte ai sei ambasciatori stranieri. I sei ambasciatori si inginocchiarono, e fra le lacrime implorarono i cittadini veneziani di aver compassione di Gerusalemme e di coloro che si erano votati alla sua liberazione concedendo l’aiuto che solo Venezia era in grado di dare, perché nessuno come i veneziani aveva un così grande potere sul mare. Tutti i cittadini veneziani scoppiarono a loro volta in lacrime, e levando le mani al cielo gridarono a una voce la loro approvazione: «Lo concediamo, lo concediamo». Sembrò che la terra tremasse con un rombo altissimo, come per sanzionare questa santa alleanza! Tornata la calma prese la parola il doge Dandolo che il maresciallo, cronista francese, definisce più volte saggio e prode, rassicurando i suoi concittadini sulla bontà della loro decisione: la crociata era un onore concesso da Dio ai veneziani.

    La decisione in San Marco obbligava il comune nella sua collettività, acquistando valore legale e vincolante per tutti. Certo gli acclamanti non è che avessero poi in animo di partecipare all’impresa e di farsi crociati. Volontari non ne mancarono, ma alla fine non furono abbastanza numerosi per coprire l’enorme fabbisogno di uomini. La dimensione della flotta da allestire era tale, che avrebbe richiesto il coinvolgimento della metà dei veneziani atti alle armi. La coscrizione, secondo l’uso veneziano, avvenne per sorteggio dato che come registra sempre il nostro maresciallo francese, non ci si metteva d’accordo su chi doveva partire e chi doveva restare. E, anche chi era stato designato dalla sorte alle volte ci ripensava, ma era poi obbligato a partire. Il maresciallo francese fu molto impressionato da questo metodo di scelta, e registrò il segno della croce fatto da un prete sopra i candidati prima di estrarre di propria mano e consegnare agli estratti la loro sorte. In questo modo, per mediazione di un uomo di Chiesa si esprimeva la volontà divina, e ognuno si adeguava con maggior disciplina. Alla fine i crociati arrivarono a Venezia alla spicciolata, con ritardi considerevoli e in numero molto minore di quello preventivato. Quando giunsero gli ultimi, era ormai terminata la stagione adatta alla partenza delle navi e il loro numero era appena un terzo dei previsti trentatremila. Mancò anche Folco di Neuilly con le sue prediche, e insomma l’entusiasmo iniziale s’era un po’ perso per strada. Fatto sta che gran parte dei crociati francesi disubbidendo all’ordine papale di radunarsi e partire da Venezia, si imbarcarono anche in altri porti tra i quali Marsiglia.

    Il doge Enrico Dandolo in un'incisione di fine Ottocento.

    Venezia invece rispettò tutti gli impegni presi, e i francesi ne furono sinceramente stupiti. La notizia dei «magnifica navigia» costruiti nei cantieri veneziani si diffuse ovunque: un complesso di cinquecento navi di vario tipo, bellissime e perfettamente a punto, ma in quantità due volte superiore a quella che sarebbe stata sufficiente per i crociati giunti in città. Accampati sull’isola di San Nicolò, cioè al Lido, i pellegrini aspettarono l’arrivo dei ritardatari, completamente in balìa dei veneziani. Furono praticamente isolati dalla città, perché i veneziani vietarono a loro arbitrio il traghettamento, e nel campo scoppiò anche un’epidemia. Molti avrebbero preferito andarsene o imbarcarsi per le Puglie, ma non poterono. I poveri, gli ammalati e le donne furono rinviati a casa d’autorità dal cardinal Pietro Capuano, legato papale. Il concentramento nell’isola dei pellegrini crociati fu dovuto oltre che a preoccupazioni per la sicurezza e per evitare tafferugli vari, anche al fatto che contrariamente ai patti non avevano ancora pagato il compenso per la flotta. Dopo il trattato Venezia aveva interrotto i propri commerci e affari dedicandosi esclusivamente all’allestimento della flotta. Le perdite si annunciavano dunque ingenti e la liquidazione di quanto dovuto avrebbe potuto incidere sulla sopravvivenza economica della città.

    Verso la fine dell’estate arrivò a Venezia il giovane Alessio Angelo, pretendente al trono imperiale bizantino. Ebbe molti colloqui con il doge Dandolo e i maggiorenti francesi per il suo progetto di ritorno in patria, e promise laute ricompense. Il doge propose di rimandare il pagamento dei soldi residui, circa trentaquattromila marche d’argento, al primo bottino della spedizione. Fu finalmente raggiunto un accordo. Liberati da un incubo i pellegrini accettarono e si gettarono ai piedi del doge. La notte seguente fecero una gran festa con luminarie a San Nicolò fissando così tante torce che tutto il campo sembrò in fiamme. Fu così che la missione inizialmente santa, si volse a obiettivi alquanto terreni, e il doge Enrico Dandolo decise di partecipare personalmente all’impresa. Dall’alto del pulpito di San Marco, di fronte a una grandissima folla di veneziani e francesi grandi e piccoli riuniti per la messa festiva, il doge rassicurò i cittadini destinati a partire con la flotta, che la compagnia con la quale si trovavano era la migliore. Non nascose la sua preoccupazione, era vecchio e debole, avrebbe avuto bisogno di riposo, aveva il corpo afflitto dai malanni, però affermò di voler essere vicino a loro, guidarli, dare consigli, vivere o morire con i suoi concittadini e i pellegrini, volle assumere la croce! Tutti a una voce, in lacrime, glielo chiesero. Il doge Dandolo all’epoca novantenne e quasi cieco, si inginocchiò piangendo davanti all’altare per ricevere la croce. Tutta la cerimonia fece moltissima impressione sui cavalieri francesi, assai sensibili alle virtù militari e al coraggio. Anche molti veneziani ne furono colpiti e iniziarono a crociarsi. Il doge volle che tutti vedessero la croce che prendeva, e così fu che un’impresa che sembrava riservata ai francesi, diventò anche veneziana. Quando la flotta salpò da Venezia, gli ecclesiastici dall’alto dei castelli delle loro navi intonarono il Veni Creator Spiritus, ben cento coppie di trombe d’argento o di bronzo squillarono, e le campane suonarono a stormo. La galea del doge risaltava tra tutte, tutta rossa, il colore imperiale, con il padiglione di sciamito (un tessuto di particolare struttura e intreccio, compatto, satinato e brillante, di derivazione orientale) della stessa tinta, sormontato dall’insegna di San Marco.

    La spedizione crociata non raggiunse mai Gerusalemme, meta naturale di ogni crociata. Vero è che Costantinopoli, nella persona dell’imperatore d’Oriente, era considerata colpevole di ostacolare una delle vie di accesso alla Terrasanta. Lo aveva sperimentato proprio Federico Barbarossa, durante la Terza Crociata, tanto che aveva anche lui valutato di occupare Costantinopoli. Esistevano anche delle profezie bizantine che descrivevano la presa della città da parte di «gente bionda» e da parte dei Franchi. Era la prima volta che i veneziani partecipavano a una crociata, che tra l’altro non contemplò la partecipazione diretta di alcun sovrano. Protagonisti furono i baroni e i cavalieri francesi, e i mercanti veneziani con a capo il doge Enrico Dandolo. Durante l’assalto veneziano a Costantinopoli, il vecchio doge, armato di tutto punto e preceduto dal gonfalone di San Marco, dalla prima delle galee si fece portare a terra sopravanzando tutti. Prima di arrivare a Costantinopoli, i crociati presero le armi contro una città cristiana, Zara, che i veneziani riconquistarono. Molti si rifiutarono di aiutare i veneziani e anzi incitarono gli zaratini a resistere. Papa Innocenzo

    iii

    proibì ai crociati, una volta arrivati in Egitto o in Palestina, di combattere insieme ai soldati della Repubblica. Il sacco di Costantinopoli avvenne tra il 13 e il 15 aprile 1204, il bottino crociato e soprattutto veneziano fu effettivamente consistente, viste le innumerevoli ricchezze provenienti da Costantinopoli presenti nelle chiese occidentali. Nessuno riuscì a salvarsi: le donne furono violentate senza alcun rispetto per l’età o lo stato sociale, gli uomini furono derubati dei loro beni così come gli edifici furono spogliati delle loro immense ricchezze.

    Le cronache raccontano come i crociati non fossero mai sazi, quanto più i donativi crescevano, tanto più aumentava la loro avidità. Circa duemila furono i greci uccisi negli scontri e a macchiarsi di questi delitti, oltre ai crociati, furono proprio quegli occidentali (francesi, italiani o tedeschi) che avevano per lungo tempo abitato a Costantinopoli e che avevano dovuto lasciare la città solo in questa fase bellica. Il saccheggio segnò l’inizio della fine di tanti edifici e manufatti di una città che, caso unico nella sua storia, aveva quasi integralmente conservato la fisionomia urbana e un’incredibile quantità di opere d’arte avute in eredità dal mondo antico. Come scrisse Roberto di Clari, un cavaliere proveniente dalla Piccardia che ha lasciato un resoconto della Quarta Crociata intitolato La Conquête de Constantinople: «Dacché il mondo fu creato, non erano mai stati visti né conquistati tesori così grandi, né così magnifici né così ricchi, né ai tempi di Alessandro, né ai tempi di Carlo Magno, né prima, né dopo. Neppure io credo, per quanto è a mia conoscenza, che nelle quaranta città più ricche del mondo vi siano tante ricchezze quante se ne trovarono a Costantinopoli». Lo stesso maresciallo Villehardouin affermò: «Il bottino fu così grande, che nessuno saprebbe dirvene il conto in oro, argento, vasellame, pietre preziose, seta pesante e leggera, in pellicce di scoiattolo, di martora e di ermellino e in ogni altra suntuosa ricchezza che mai fu trovata sulla terra».

    Veduta prospettica di Costantinopoli, in un’incisione rinascimentale.

    Dopo tre giorni di continui saccheggi, si rese necessaria una pausa perché si era entrati nella settimana Santa e ormai, essendo Venerdì Santo, ci si doveva preparare alla Pasqua. Trascorsa la Pasqua, il saccheggio divenne un’operazione organizzata e metodica. Fu proprio questa seconda fase di violenze che cancellò un’incredibile quantità di capolavori che ornavano i luoghi più illustri della città. Il 16 maggio 1204, rispettando il patto stabilito prima della conquista della città, Baldovino di Fiandra fu eletto imperatore dell’Impero latino d’oriente, mentre al soglio patriarcale di Santa Sofia saliva non molto dopo il veneziano Tommaso Morosini. Secondo l’accordo franco-veneziano il doge acquisì il controllo di parte del bottino e anche di parte del territorio bizantino. Enrico Dandolo ottenne, infatti, il dominio su tre ottavi di Costantinopoli, oltre alla quarta parte e mezza dell’intero impero. Visto che l’imperatore nominato apparteneva alla fazione franca, ai veneziani spettò la nomina del patriarca di Costantinopoli. Il patriarca greco era fuggito e il clero greco era stato scacciato da Santa Sofia, sostituito da quindici canonici latini della cattedrale, di recente nomina, che si assunsero il compito di nominare patriarca il veneziano Tommaso Morosini, che allora si trovava in Italia. Il sacco di Costantinopoli fu tale che Dandolo stesso raccontò che: «In lo qual tempo la più de la giexia de Messer San Marco fo fabbricada delle piere delle colonne et zoieli adutti di Costantinopoli».

    Al tempo del doge Raniero Zeno (1253-1268), nessun veneziano che camminasse nel centro di Venezia poteva evitare di pensare a Bisanzio, perché la città sembrava un museo di oggetti d’artigianato e souvenir bizantini. La piazza era stata pavimentata di mattoni rossi disposti a spina di pesce e la facciata di San Marco era dominata dai quattro cavalli di bronzo dorato, il primo e più grandioso dei trofei profani portati da Costantinopoli dal doge Enrico Dandolo. Tutta la tradizione veneziana è concorde nell’affermare che i Cavalli di San Marco siano stati portati a Venezia da Costantinopoli nel 1204 o secondo altri, nel 1205, o ancora nel 1206, cioè subito dopo la conquista di questa città da parte delle forze venete e franco lombarde, ma nessuna testimonianza diretta e contemporanea è giunta fino a noi. La presenza della quadriga a Venezia è documentata, per la prima volta, dal mosaico medievale del portale di Sant’Alipio sulla facciata della basilica di San Marco, datato dagli studiosi intorno al 1270. Non è casuale che il più che novantenne doge Enrico Dandolo, motore e guida della crociata che aveva rovesciato l’impero più potente d’Oriente e aveva portato Venezia al culmine della potenza, avesse scelto e programmato di impadronirsi di un simbolo associato al potere e all’autorità dell’imperatore bizantino.

    La cosa certa è la presenza della quadriga all’interno dell’ippodromo di Costantinopoli, ed è appunto il significato che esso aveva per questa città e per il suo imperatore, che può spiegare l’interesse di Enrico Dandolo per questi cavalli ricoperti d’oro. L’ippodromo, infatti, aveva a Costantinopoli la stessa fondamentale importanza che aveva l’agorà nella città greca e il foro in quella romana. I Cavalli, al di là di una simbologia solare ormai perduta, erano l’insegna più illustre ed evidente dell’impero e del potere imperiale. Questo trasferimento di poteri e di territori da Costantinopoli a Venezia non fu privo di conseguenze sotto il profilo architettonico urbanistico per la città lagunare, per cui la basilica di San Marco e la piazzetta antistante, finirono per essere vetrina del nuovo assetto politico istituzionale. Proprio come succedeva nell’impero bizantino, il doge presenziava ai giochi sulla piazza di San Marco, dall’alto della facciata, la loggia della basilica, mettendosi sotto i Cavalli, come osservava Francesco Petrarca nel 1364 in un lettera in cui parla dei festeggiamenti e degli spettacoli organizzati dalle autorità di Venezia per la sottomissione di Candia. Se l’episodio non fu casuale, come molti credono, piazza San Marco era adibita ai giochi come l’invaso nell’ippodromo di Costantinopoli.

    I catari a Venezia

    Sulla figura di Martino da Canal cronista del

    xiii

    secolo, mancano precise notizie biografiche. Probabilmente non era veneziano di nascita ma di elezione, fu impiegato alla Dogana marittima e visse lungamente a Venezia. Lo si ricorda soprattutto per la sua Cronique des Véniciens scritta in francese, secondo la consuetudine del tempo. Egli si definisce traduttore delle cronache, ma più che tradurre egli compendiò cronache anteriori, specialmente l’anonimo Chronicon Altinate. Dei suoi tempi egli narra ciò che vide o udì da testimoni oculari, per cui è ritenuto uno scrittore veridico, bene informato ed esatto anche nei particolari . La sua cronaca si divide in due libri, nel primo è tracciato uno schizzo storico dalle origini della Repubblica fino al dogado di Ranieri Zeno (1253-68), intessuto di leggende e contraddistinto da un asciutto elenco di nomi di dogi. Nel secondo sono narrati gli eventi principali di Venezia fino al 1275, anno forse della morte del cronista. Questa parte in cui il racconto diventa più ampio e più ricco, è di grande importanza e di immenso valore storico perché vi sono ritratti personaggi, feste, cerimonie ed edifici della Venezia del tempo.

    La cronaca ha anche però qualche cosa di romanzesco e deve essere letta con molta cautela. In merito alla presenza di eretici a Venezia, Martino da Canal scrive: «E voglio che tutti coloro che sono ora al mondo e tutti coloro che vi devono venire sappiano […] come tutti sono perfetti nella fede di Gesù Cristo e obbedienti alla santa Chiesa, e che mai trasgredirono i comandamenti della santa Chiesa. In quella nobile Venezia non osano dimorare né patareni né catari né usurai né assassini né ladri né predoni». Nessuna deviazione dalla retta fede, l’eresia a Venezia non esisteva. Da notare che gli eretici, patarini e catari, erano affiancati a usurai, assassini e ladri. Se consideriamo che, nella prima metà dell’

    xi

    secolo e poi dalla metà del

    xii

    , in Italia e in Europa si diffusero massicciamente movimenti e dottrine che richiedevano un rinnovamento spirituale e religioso che, spesso, si posero in contrasto con la gerarchia ecclesiastica, è perlomeno curioso notare come, per il panorama veneziano, il quadro sembri quello di una sostanziale assenza di questi movimenti. Ed è assai strano che, restando in ambiti geografici limitrofi, nemmeno il Friuli o il Trentino abbiano all’epoca manifestato tendenze ereticali di particolare rilievo. E resta ancora da spiegare il motivo per cui nemmeno Padova, potente e fiorente Comune della Marca, si possa annoverare fra le città eretiche del tempo, a differenza di realtà vicine quali Treviso, Verona e soprattutto Vicenza. Il catarismo, un  movimento ereticale cristiano, diffuso in diverse zone dell’Europa (Linguadoca e Occitania in Francia, Italia, Bosnia, Bulgaria e Impero bizantino) dal 

    x

    al 

    xiv

    secolo, fu particolarmente diffuso e attestato nelle grandi città della pianura veneta, dove giunse nel

    xii

    secolo e rimase presente nel corso di tutto il successivo.

    La dottrina catara si fondava essenzialmente sul rapporto oppositivo tra materia e spirito, appoggiandosi ad alcuni passi del Vangelo, in particolare quelli in cui Gesù sottolinea l’irriducibile opposizione tra il Suo Regno celeste e il regno di questo mondo. I catari rifiutavano del tutto i beni materiali e tutte le espressioni della carne. Rifiutavano di mangiare carne e uova, e rinunciavano al sesso considerato cosa tanto malefica che perfino il matrimonio era per loro peccaminoso poiché serviva solo ad aumentare il numero degli schiavi di Satana. Nel Trevigiano, processi contro eretici furono celebrati a Treviso, Conegliano, Bassano, coinvolgendo sia borghesi che contadini. Un gruppo consistente di eretici fu individuato nelle terre fra Pederobba e Quero ancora negli anni ottanta del Duecento e altri tredici, qualche anno più tardi, nella zona pedemontana fra Conegliano e Ceneda, anche se l’area maggiormente interessata al fenomeno fu quella compresa fra i territori di Bassano e Asolo. Vicenza, una delle cinque chiese catare italiane, diventò un attivo centro di concentrazione e diffusione del catarismo, grazie all’opera e al carisma di un suo vescovo eretico, Pietro Gallo, diventato famoso per la disputa teologica che intrattenne con il vescovo vicentino Bartolomeo. A Desenzano, sul Garda, ebbe sede un’altra chiesa catara, come anche a Sirmione. Pochi, invece, appaiono gli eretici condannati a Padova, per lo più abitanti del contado. Tuttavia, se la regione veneta fu sensibilmente interessata dalla presenza ereticale, altrettanto non si può dire di altre aree del nord-est.

    In Friuli, come già detto, non è possibile parlare di una presenza eretica diffusa e organizzata, così come nel Trentino. Così pare anche a Venezia. Ma a ben cercare esistono documenti che riservano molte sorprese. Nel 1181 il pontefice Lucio

    iii

    scrisse al vescovo di Castello, il più orientale dei sestieri di Venezia, Filippo Caysolo (o Casolo), in relazione a episodi di predicazione patarina (i patarini furono un movimento ereticale sorto in seno alla chiesa milanese) avvenuti in città, che avevano favorito la creazione di pericolosi legami tra fedeli ed eretici. Alla metà del

    xiii

    secolo, il monaco benedettino Matteo Paris delinea un quadro a tinte fosche della situazione religiosa di Venezia, città fra le più importanti in Italia, nella quale, tuttavia: «inhabitant semichristiani, im apostasiam prolapsi essent», persone sono cadute nell’eresia. L’11 giugno 1251, Innocenzo

    iv

    nominò i domenicani Vincenzo da Milano e Giovanni di Vercelli inquisitori di Venezia: «ut Venetias personaliter accedant et haereticos insequantur». Intorno agli anni Sessanta dello stesso secolo, fra’ Florasio da Vicenza, a un passo, se non fosse intervenuto Urbano

    ii

    , dal lanciare l’interdetto sulla città e la scomunica al doge Ranieri Zeno, visto il continuo rifiuto di inserire negli statuti o capitolari le normative papali e imperiali in fatto di eresia, dipinse il doge, negli ambienti romani, come uomo di poca fede, per nulla devoto alla Chiesa, ricettatore e fautore di eretici, uno dei quali avrebbe liberato, dopo la cattura, dietro compenso di trecento marchi d’argento. È del 1288 la Inter caetera sollicitudinis di Niccolò

    iv

    , nella quale Venezia è dipinta come rifugio sicuro di eretici, per i quali con

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