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DiegoPolitik: Maradona, l'ultimo grande leader del '900
DiegoPolitik: Maradona, l'ultimo grande leader del '900
DiegoPolitik: Maradona, l'ultimo grande leader del '900
E-book278 pagine3 ore

DiegoPolitik: Maradona, l'ultimo grande leader del '900

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Info su questo ebook

Diego Armando Maradona.

Lo hanno celebrato come il più grande campione della storia del calcio, insultato come il demonio che avrebbe corrotto più generazioni con il suo pessimo esempio, il Masaniello che ha osato rendere grande Napoli, il capitano che ha portato l'Argentina sul tetto del mondo sbeffeggiando le sue rivali, politiche e storiche, dall'Inghilterra al Brasile.

Lo hanno reso protagonista, ispirazione, titolo di film, è diventato un genere cinematografico.

C'è una Chiesa intitolata a suo nome, milioni di Diego nel mondo chiamati così per lui.

Idolo, mito, icona, star maledetta, fuoriclasse infinito, D10S e Satana.

Nessuno, però, ha capito la portata della sua personalità politica, il suo carisma sociale, l'importanza che ha avuto nella storia contemporanea.

Prefazione di Alessandro Di Battista

Intervista a Luigi di Magistris

Disegno di copertina Roberto Recchioni

LinguaItaliano
Data di uscita26 mag 2023
ISBN9788869347894
DiegoPolitik: Maradona, l'ultimo grande leader del '900
Autore

Boris Sollazzo

Boris Sollazzo, è critico cinematografico e televisivo, giornalista sportivo, speaker e radiocronista calcistico, autore di libri (tra cui #chevisietepersi - il manuale di chi tifa Napoli), maradoniano militante. Trasmette su Radio Rock, Radio 24, scrive su Rolling Stone e altre testate quotidiane e periodiche. Dirige il Linea D'Ombra Festival di Salerno e il Cerveteri Film Festival.

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    Anteprima del libro

    DiegoPolitik - Boris Sollazzo

    Diegopolitik

    L’ultimo grande leader del ‘900

    Prefazione di

    Alessandro Di Battista

    Intervista a

    Luigi De Magistris

    Biografia

    © 2023 Bibliotheka Edizioni

    www.bibliotheka.it

    I edizione, maggio 2023

    e-Isbn 9788869347894

    Tutti i diritti riservati.

    Foto di copertina: © Roberto Recchioni

    Boris Sollazzo

    Boris Sollazzo è un critico cinematografico e televisivo, giornalista sportivo, speaker e radiocronista calcistico, ma soprattutto un maradoniano militante. Spesso è stato tutte queste cose contemporaneamente.

    È vicedirettore di The Hollywood Reporter, trasmette su Radio Rock e Radio 24.

    Questo è il suo sesto libro dopo America oggi (ed. Alegre, con Alessio Aringoli); Diaz, una storia italiana; #chevisietepersi e la biografia di Clemente Russo Non abbiate paura di me (ed. Fandango); Non avremo un altro D10S (ed. Bietti).

    Dirige il Linea D’Ombra Festival di Salerno.

    La vera droga nel pianeta è la fame

    A Carlo, Bruno,

    Marie-Eve

    e a Gianni Minà.

    Prefazione

    Caro Diego, ti scrivo

    di Alessandro Di Battista

    Ho sempre apprezzato le persone capaci di schierarsi, di prendere posizione. Ho sempre cercato di farlo io stesso.

    Aver visto Diego Armando Maradona farlo, però, è un’altra cosa.

    Lui, il dio del calcio, ben più conosciuto di tanti leader politici e presidenti di paesi anche importanti, ha avuto il coraggio di stare sempre dalla parte degli ultimi, di essere politicamente scorretto, denunciare le nefandezze della Fifa, sostenere la causa palestinese, schierarsi contro le guerre di invasione mascherate da missioni di pace. Ed essere stato testimone della sua lotta è stato un privilegio.

    Perché se sei Diego Armando Maradona ti conviene stare zitto. E campi 100 anni, fai soldi a palate e il sistema mediatico e le istituzioni calcistiche staranno sempre dalla tua parte.

    Ma lui era d’altra pasta rispetto al resto del mondo e si è sempre visto sia in campo che fuori.

    Sono felice che arrivi un libro che invece di entrare nelle pieghe sensazionalistiche della sua vita o di celebrarlo, anche giustamente, per l’ennesima volta come sportivo, ne analizzi il tratto e l’eredità più sottovalutati, il suo ruolo politico nella nostra società.

    Sì, perché va detto: Diego Armando Maradona è stato un grande politico. Il politico non è un dirigente di partito, un amministratore, il politico vero è una persona che porta avanti battaglie politiche, assumendosi dei rischi. Non devi presentarti alle elezioni per essere un politico, puoi esserlo anche al di fuori delle istituzioni.

    Lui è nato in una favela e non ha mai dimenticato da dove veniva, ultimo tra gli ultimi, e anche quando è arrivato in cima al mondo non si è dimenticato di chi non ce l’ha fatta, delle esigenze di chi non ha nulla, stando appunto sempre dalla parte degli ultimi della terra. Con la beneficenza come con le battaglie per i diritti sociali e civili e dei lavoratori.

    Facendo dichiarazioni oggigiorno impensabili per uno sportivo, perché conosciamo tutti le conseguenze che si subiscono se ti metti contro i potenti del pianeta, soprattutto se sono quelli che si credono o vogliono farsi credere come i buoni. Penso a Julian Assange, che Diego ha difeso (Maradona, pure lui, nei file WikiLeaks), cosa sta pagando per aver sbugiardato certi meccanismi e malefatte. Prima esule e fuggitivo, poi incarcerato ingiustamente secondo consiglio d’Europa e Onu, ora con una sentenza di estradizione verso gli Usa. E prima ancora con un’accusa di stupro ora archiviata.

    Lo hanno fatto passare per ingenuo, naif, ignorante, vittima, il Pibe. In realtà Maradona sapeva benissimo a cosa stava andando incontro e quanto dura sarebbe stata la vendetta dei suoi nemici. Si vendicano in tanti modi quanto tocchi interessi troppo grandi, provando a distruggere la tua immagine come uomo in primis. E lo dico io che con tutti i suoi sbagli lo apprezzo più da uomo che da campione, pur considerandolo il giocatore più forte della storia del calcio.

    Maradona conosceva bene, per averla sperimentata sulla propria pelle, la violenza del sistema politico e mediatico italiano, europeo e internazionale. E questo non l’ha zittito, non l’ha fermato. Non l’ha neanche reso un po’ più prudente. Questo, ai miei occhi, lo rende un gigante: combattere una battaglia giusta, con la consapevolezza che la sconfitta sia quasi certa e le conseguenze durissime, ma farlo lo stesso è qualcosa di straordinario, commovente. Persone meno importanti di Maradona, che hanno agito contro il sistema con meno veemenza, hanno subito ritorsioni gravissime.

    Sono convinto che a Diego l’abbiano fatta pagare, perché non era solo un ribelle, ma era il calciatore più forte del mondo, il re dello sport più seguito, che non esitava a scontrarsi contro il Potere. E questo per chi comanda è inaccettabile, chi è in alto e vuole rimanerci deve essere complice, connivente, non può stare dalla parte sbagliata.

    Il Pelusa è stato un leader politico vero. La sua leadership nasce dalla voglia di rivalsa, dal dolore di una vita ai margini, dalla sofferenza. So che perse un compagno di favela alle Malvinas, ucciso da soldati britannici. Tutti mattoni che hanno formato la sua coscienza politica, che probabilmente abbiamo visto, e ha visto anche lui, per la prima volta in quella mitica Argentina-Inghilterra del 1986: lì si comportò da vero leader politico. Nello spogliatoio disse ai compagni, passate la palla a me che oggi li faccio piangere agli inglesi. Si prese addosso la responsabilità non solo sportiva di quella partita, ma si mise sulle spalle, in quel momento, un intero paese. Quando segnò il gol di mano, Valdano e altri lo guardarono disorientati, sapevano che il gol era irregolare. E lui, sorridendo, diceva loro esultate, che rubare a un ladrone ha 100 anni di perdono. Questi sono comportamenti, dichiarazioni da leader politico in campo, che tu condivida o meno le sue posizioni, ma lo sono.

    Il calcio, prima che fosse rovinato dalla finanza e da montagne di denaro, è sempre stato il gioco più democratico del mondo. Perché può vincere il peggiore, il più povero e perché ci si può giocare anche con una palla fatta di stracci, come le prime che ebbe tra i piedi Diego, o anche con un sasso. Il calcio, per questo e per tanti altri motivi, è politica. Nel bene e nel male. Il calcio, ha scritto Galeano, è l’unica religione che non ha atei. Ma, aggiungo io, ha un D10S, soprattutto per quello che ha fatto fuori e dentro al campo: non c’è uno che abbia giocato con lui e neanche uno che ne è stato avversario che non lo ricordi con affetto e gratitudine, che non ne sottolinei la generosità e la correttezza. Mai un lamento, nonostante non ci siano stati nella storia calciatori più picchiati di lui. Il calcio anni ’80 era caratterizzato dalla ruvidezza dei decenni precedenti ma anche dalla velocità che stava diventando quella di oggi. Maradona subiva cacce all’uomo, interventi che ora sarebbero da rosso e da tre giornate di squalifica lui ne subiva a centinaia in un campionato. E non si lamentava, spesso cadeva e si rialzava, riprendeva il pallone e correva verso la porta, anche per capacità tecniche e muscolari uniche. Era una divinità per quel sinistro, per quel corpo resistente e capace di enormi sacrifici, per le magie che altri neanche pensavano, per la sua testa e la sua anima.

    Lo abbiamo sempre sottovalutato. Perché c’era un intero mondo, che lui avversava, a cui faceva comodo attaccarlo, sminuirlo, demolirlo.

    Ma soprattutto, non ascoltarlo. Perché tutte le volte che l’ho sentito parlare ho sempre intuito la sua intelligenza, la sua ansia di conoscere e la sua curiosità. Si sentiva che leggeva, approfondiva. Tanti leader di alto livello dell’America Latina bolivariana lo hanno voluto a fianco, si sono appoggiati tanto a lui non per la sua celebrità ma per le sue capacità intellettuali, umane e politiche. E se di questo si fossero accorti tutti, per i poteri forti sarebbe stato un enorme problema. Già, così Diego per i grandi capitalisti, per gli Stati Uniti, per le destre del Sud America, è stato un’enorme spina nel fianco.

    E immagino già qualcuno scuotere la testa pensando agli errori di quest’uomo, a tutto quello che i media ci hanno raccontato e ricordato in questi decenni. Ma chi siamo noi per giudicare? Come scrisse e gli cantò Manu Chao, si yo fuera Maradona viviría como él. Ma avete idea di cosa significasse essere lui, senza privacy, senza la possibilità di vivere una vita normale? E lui ci ha provato in ogni modo a rimanere con i piedi per terra, se chiedi ai suoi compagni era l’uomo più semplice e alla mano che avessero conosciuto.

    Avrei tanto voluto conoscerlo, lo ammetto.

    Anche per confessargli che in un Lazio-Napoli 3-0, una gran partita al Flaminio, ero sugli spalti e lo fischiai (l’autore di questo libro era nel settore ospiti). Era l’anno del secondo scudetto del Napoli. Avevamo paura di quel genio, e lui lo capiva. Fu una delle mie prime partite allo stadio. Gli direi che non ho mai visto un calciatore, anzi uno sportivo, arrivare ai livelli di eccellenza che ha raggiunto lui a Messico ’86; che guardo spessissimo su internet i suoi gol e ancora di più quello alla Juve nel 1985, la punizione a due in area; che continuo a leggere aneddoti che lo riguardano, ne sono affamato; che la sua persona e personalità mi affascinano ancora adesso. Così come il fatto che sia entrato in simbiosi con una città bella quanto complicata, meravigliosa e difficilissima come Napoli. Amo che avesse amicizie illustri e inaspettate, amo il modo in cui stava in campo e nello spogliatoio, amo lo stoicismo con cui sopportava i falli per amore del pallone, amo la generosità con cui parlava delle qualità degli altri giocatori, dagli avversari come Baresi a compagni come Bruno Giordano, l’unico che parla la mia lingua col pallone. In questa serie A farebbe 60 gol e 150 assist a campionato.

    Era uno fuori scala, che vincesse scudetti o mondiali o facesse politica, non ce ne saranno mai più come lui.

    Io sono stato tanti anni in America Latina, e sì, quella sinistra che lo ha capito e avuto come portavoce noi non l’abbiamo mai avuta. Per diversi motivi. Primo di tutti la fame, nel senso negativo e positivo. Quella che attanaglia e offusca gli uomini, ma anche quella che ti dà la forza di tirarti fuori dalla miseria, di sopportare qualsiasi sacrificio per farlo. La colonizzazione violentissima che da oltre oceano portò la religione, le malattie e la morte. E non sai quale delle tre facesse più danni. Questa roba c’è nel DNA di un latinoamericano, che tale si sente prima ancora che appartenente al proprio paese. Infine la povertà endemica in uno dei continenti più ricchi di risorse al mondo. E questo ha suscitato, tra golpe e tradimenti, la nascita e la crescita di una sinistra che ha preso posizioni nette tentando di costruire politiche sovrane. E questo ha reso anche uno dei più grandi leader politici contemporanei Diego Armando Maradona.

    Lo studieremo sui libri di storia. A partire da questo.

    Capitolo 10-9

    Evita e Henry

    Calle Azamor, bidonville di Villa Fiorito, civico 523. Che sembra un po’ il vero modulo con cui giocavano Napoli e Argentina, peraltro.

    Dicevamo, Calle Azamor 523, Villa Fiorito, la Betlemme del calcio. E, a ben vedere, quei due blocchi di cemento, poco più grandi di un garage e con la stessa conformazione di un’autorimessa con in più un paio di finestre che danno sulla strada, davanti la terra troppo spesso fangosa – nei giorni caldi arida e crepata – e il degrado dietro, dissero subito a Diego Armando Maradona da che parte stare. Nascendo in un posto come quello, sai che tutto quello che sei stato, sei e che sarai non è altro che lotta, dice nella prima pagina della sua autobiografia, Io sono el Diego. Leader, combattente, ribelle, outsider D10S ci è nato. Ma anche diventato.

    Lo capirono tutti quel 30 ottobre 1960, dall’ostinazione con cui venne al mondo, quinto figlio di Doña Dalma, detta Tota, e Don Diego, detto Chitoro, già attorniato da donne, perché all’Ospedale Interzonale Generale de Agudos Gregorio Aráoz Alfaro quella notte nacquero solo femmine. E poi, all’alba, Diego Armando. Nessuno dei presenti, neanche quel medico gioviale e irriverente che urlò alla madre (non c’era la famiglia ad aspettare il nascituro, la mamma a Lanús Oeste era andata con i mezzi pubblici, da sola) che era nato un bel maschio tutto culo e piedi, avrebbe immaginato che la via di quell’ospedale sarebbe stata un giorno intitolata a lui: Calle Diego Armando Maradona, Civico 1910.

    Già da allora, baricentro basso e unicità, già da allora la politica nella sua vita c’è eccome. Perché alle 7.05, quando viene al mondo, nell’unico giorno della sua vita in cui Dieguito si è svegliato presto, dopo una notte movimentata, Doña Tota manda a dire a casa che il ragazzo è nato all’Ospedale Evita. Perché nessuno quella struttura sanitaria, dove andava la povera gente (i ricchi andavano all’Hospital Británico), la chiamava Aráoz Alfaro come era riportato sulle mura e sopra l’entrata, con lettere troppo nuove. Chi era? Un mitico medico insignito delle massime onorificenze in Argentina, Brasile, Francia e Italia. Lo intitolò così il regime golpista, all’inizio della Revolución Libertadora, l’anno della morte di quel luminare, nell’ossessione di cancellare ogni traccia di peronismo. Tornò ad essere l’Hospital Eva Perón solo nel 1988, ma per Lanús, 12 chilometri da Buenos Aires e più di 200.000 abitanti, non aveva mai smesso di essere l’Evita. E quella donna – un’altra, Diego sarà segnato dall’universo femminile – è il seme iniziale dell’animo politico del Pelusa.

    Prima dell’arrivo in città della famiglia Maradona, prima del viaggio della speranza (700 km), a Esquina (Corrientes), i due giovani sposi e suoi futuri genitori tenevano in casa le foto incorniciate dei coniugi Perón. Nel 1955 prima Dalma Salvadora Franco con le figlie Maria Rosa e Rita, in treno, poi in nave Diego Sr. andarono verso la capitale. L’esodo dall’Argentina profonda verso Buenos Aires nasceva dai proclami (tanti, ma pochi programmi) rivolti ai nullatenenti da Juan Domingo Perón. Il presidente caudillo, controverso, amato e odiato con la stessa intensità, figura di riferimento ancora oggi per tutta la politica e la società sudamericana, si sentiva in pericolo, contestato in quella stagione persino da una fetta dei suoi fedeli descamisados. Aveva ragione, di lì a poco un golpe lo deporrà – tornerà solo nel 1973, rieletto, ma morente, ritorno alla Churchill, tardivo, solitario y final – ma avrà fatto in tempo a vedere questa autodeportazione volontaria e spontanea di argentini disperati che finiranno tutti nelle favelas. Non farà eccezione, appunto, la famiglia Maradona che probabilmente qui, per prudenza e probabilmente per delusione, non si dichiarerà più peronista. Quel colpo di stato lascerà in quel popolo la convinzione che con lui tutto sarebbe stato diverso. E soprattutto con lei, Evita, morta tre anni prima e acclamata come una regina dalla povera gente.

    Ecco perché, soprattutto in quella casa di Villa Fiorito, quell’ospedale lo chiamavano col suo nome. Ed ecco perché Diego crescerà con la rabbia degli oppressi, contro il potere. Ma è anche da qui che nasce quella sua personalità politica carismatica e contraddittoria, caotica e populista, irredentista ma incline ad abbagli. Perché una cosa era certa: i nemici dei nemici di Diego erano suoi amici. E come Perón, D10S aveva una visione al contempo globale e clanica, terzomondista e nazionalista, ossessionata dalla giustizia sociale e socialista ma anche sedotta dal capitalismo conquistato e dai suoi miti.

    Tornando ai nemici dei suoi nemici, gli Stati Uniti, a uno che ha messo insieme in sé il Che ed Evita, all’ultimo leader politico del Novecento e all’ultimo vero bolivarista sudamericano, non potevano piacere. Anzi, solo il presidente nero Barack Obama riuscì a smorzare quell’odio ostinato. Acuito dal fatto che lì, nel 1994, si consumò l’ingiustizia sportiva e politica che iniziò a ucciderlo, il caso Efedrina. Sapete chi era l’eminenza grigia del comitato organizzatore di Usa 94? Henry Kissinger (ancora vivo, lui, 100 anni tondi). Sì, proprio il Nobel per la Pace del 1973, repubblicano e sodale di Nixon che fu determinante per deporre Allende in Cile (11 giorni prima di insediarsi come Segretario di Stato) e nel criminale sostegno al regime argentino genocida.

    Con Diego Armando Maradona, insomma, nulla è casuale. E la palla è la metafora materica e dolente di un mondo che lui ha saputo domare, incantare, inchiodare alle proprie responsabilità. Per poi farsene schiacciare. Perché la sua potenza tecnica e politica nulla ha potuto contro il Potere. Potere che lui ha combattuto sempre, anche quando sapeva di non poter vincere.

    Capitolo 10-8

    Gli incontri col regime

    Papà Chitoro vuole solo tenere la sua famiglia al riparo dai pericoli. Padre devoto, la schiena spezzata e le parole contate sulle dita di una mano ogni giorno, conosce il suo paese, sa bene che può essere culla delle menti e della bellezza più raffinate ma anche dell’orrore più insopportabile. Borges e Videla condividevano passaporto e generazione, per intenderci.

    Diego Armando è un ribelle fin da piccolo, ma ama anche Don Diego e Doña Dalma, a cui riserva un’obbedienza costante e mai riservata a nessuno: allenatori, presidenti, moglie, governanti, nessuno. E allora tiene un profilo basso, ovunque, ma non nei campi di terra duri in cui danza e sotto età gioca contro i più grandi. E non era solo per il talento, Diego aveva bisogno di portare alla vittoria i più deboli. Siempre. Dalle Cebollitas che diverranno con 140 partite vinte consecutivamente la squadra più vincente del paese, al Napoli dei due scudetti, passando per un mondiale vinto da solo.

    Spesso chiede al papà, che lo porta al campo d’allenamento, perché nel loro paese molti giovani vengono picchiati e alcuni fratelli di suoi amici spariscono. Gli chiede perché lavora così tanto. Il padre, che sapeva guardare la luna e non il dito, risponde con circospezione senza nascondergli la verità. E se la prende soprattutto con gli americani, quelli sono gli anni dell’Operazione Condor, un protocollo CIA volto alla soppressione e repressione del dissenso antiamericano in Sudamerica e del sovvertimento di governi considerati comunisti, con ogni mezzo. L’11 settembre 1973 in Cile è l’esempio più lampante.

    Sono loro, gli americani e i loro servizi segreti, a tirare le fila di quelli che un giorno chiamerà fantocci. Diego incamera, impara a stare zitto e giocare, ma comincia già a sviluppare quella rabbia antisistema che contraddistinguerà i 61 anni della sua vita.

    Un sentimento profondo e potente che nasce dal particolare, dalla sua vita, dalle sue esperienze, e dall’universale. Diego Armando Maradona imparava dalla propria vita le battaglie da combattere – l’unico buco nero rimarrà un maschilismo adolescenziale e tossico nei confronti di compagne e donne di una notte –, e allo stesso tempo sentiva su di sé tutte le ingiustizie del mondo.

    Se ne accorge il padre, quando di ritorno da una delle prime partite con l’Argentinos, il suo pullman – era un giovane, non viaggiava con la prima squadra ma tornava in bus come (e con) i tifosi –, i militari fermano il veicolo per una perquisizione. Diego le divise non le ha mai amate, è stanco, e ci vogliono ancora diversi chilometri per tornare a casa. Si arrabbia, Chitoro gli consiglia di rimanere calmo. Diego, però, è già una piccola celebrità: siamo nel 1976, e quindicenne si era messo in luce per i suoi palleggi in mezzo al campo, nello stadio Argentinos Juniors dal 2004 intitolato a lui (rara, quasi unica occasione di intitolazione di un impianto a un vivente). Protagonista di quei 15 minuti, lui, semplice raccattapalle. Una volta il pubblico reclamò un supplemento di spettacolo e l’arbitro isterico fischiò forte per richiamare tutti all’ordine e riprendere il

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