Le più belle poesie romanesche
Di Trilussa
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Introduzione di Claudio Rendina
Edizioni integrali
Trilussa è il poeta dialettale più famoso d’Italia, grazie a un linguaggio romanesco che ha il dono di farsi capire da tutti. Questo volume presenta il meglio della sua produzione, con le edizioni integrali delle raccolte pubblicate tra il 1922 e il 1935. Nelle parole di Trilussa la cronaca della vita romana e nazionale, filtrata attraverso una bonaria ironia, si svolge dai Sonetti a La gente, approdando alla “favola” di Lupi e agnelli e a Ommini e bestie. La sua poesia divenne interprete della borghesia, che vide riflessi nei versi i propri vizi e le proprie debolezze: così è in particolare nel Libro n. 9 (del 1929). Vicende e costumi italiani furono espressi da Trilussa con affabile arguzia, venata a tratti da una crepuscolare malinconia: elementi di un classico da riscoprire oggi più che mai e da tornare a frequentare.
Trilussa
pseudonimo di Carlo Alberto Salustri, nacque a Roma nel 1871. Divenne ben presto popolare in tutta Italia come interprete di poesia dialettale romanesca, attraverso una serie di recital e numerose raccolte poetiche. Il genere della “favola” gli si rivelò congeniale come mezzo espressivo, all’insegna di una morale corrente e corriva, che si fece anche portavoce di un’avversione al regime fascista. Morì nel 1950.
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Anteprima del libro
Le più belle poesie romanesche - Trilussa
592
Prima edizione ebook: gennaio 2021
© 2021 Newton Compton editori s.r.l., Roma
ISBN 978-88-227-5347-2
www.newtoncompton.com
Edizione elettronica a cura di Corpotre, Roma
Trilussa
Le piu belle poesie romanesche
IntroduzioneIIsoRazzini
I sonetti; Le favole; Nove poesie; Lupi e agnelli; Le cose; Le storie; Ommini e bestie; La gente; Libro n. 9; Giove e le bestie; Libro muto
Introduzione di Claudio Rendina
Edizioni integrali
Edizione integrale
marchio.tifNewton Compton editori
Indice
Introduzione
Gli anni di Trilussa
Le opere di Trilussa
Gli scritti su Trilussa
I sonetti (1922)
Er ventriloco
Er barbiere e l’avventore
Er macchiavello de certe…
Io e voi
L’assicurazzione de la vita
L’istinto
La lapida sur portone
Pe’ le scale
L’ingresi
L’innesti
Un carzolaro che se fida
L’ecrisse
Dar botteghino
L’arte di prender moglie
Er sentimento de certe…
Questioni de razze
A un amico
La regazza de Toto
A chi tanto e a chi gnente!
In pretura
L’indovina de le carte
A Nina
Dispiaceri amorosi
L’antiquario
Pippo a la festa de beneficenza
Er pignoramento
Er sorvejato sincero
Poveraccio!
Per direttissima
Er ministro novo
Er reggistratore de cassa
Dar pretore
li calennari
i
ii
l’ostessa ammosciata
i
ii
la fattucchiera
i
ii
iii
fifì
(già mariantonia)
i
ii
er prete spretato
i
ii
li boni posti
i
ii
li bacilli
i
ii
a giggia
i
ii
a piazza gujermo pepe
i
Il coccodrillo vivente
ii
La donna barbuta
iii
La donna gigante
iv
Il museo-storico-artistico-meccanico
gente de servizzio
Er pappagallo scappato
Le corrisponnenze amorose
Maria, la serva stufa
L’arbero genaloggico
Le soprascritte
Li stemmi
Li scrupoli de la cammeriera
Li mercoldì de la marchesa
Lisetta sparla…
La serva ar telèfono
L’imbroji de la padrona
Le delibberazzioni der portiere
La tintura
La serva sedotta
Er busto de la padrona
La signora infilantropica
La risata de la duchessa
Lisetta cor signorino
parla maria, la serva…
i
ii
iii
er principe rivoluzzionario
i
ii
iii
iv
v
la consegna der portierato
i
ii
iii
iv
v
vi
vii
viii
dialetto borghese
La presentazione
La lingua francese
Li complimenti
Er gatto de Lisetta
La visita
La casa nova
ii (In casa)
iii (Cose intime)
Incontri
i
ii
Le scappatelle de la signora
la morale der codice
i
ii
caffè-concerto
i
ii
iii
iv
v
vi
vii
viii
ix
la nomina der cavajere
i (Prima)
ii (Doppo)
er fabbro ferraro
i
ii
varî
In pizzo ar tetto
Momenti scemi
L’onestà de mi’ nonna
Er battesimo civile
L’ingiustizzie der monno
Er pranzo a l’ambasciata
Lo sciopero
Er teppista
Er teppista a la dimostrazzione
L’arrestato
Li bisogni de la giustizzia
Uno sbajo
La settimana der lavoratore
La statistica
La politica italiana
li frammassoni
i
ii
onore ar merito
i
ii
l’assassino moderno
i
ii
iii
li burattini
i
ii
Le favole (1922)
La cecala e la formica
L’acqua, er foco e l’onore
Er sorcio lombetto
Er Sole e er Vento
Er Sorcio de città e er Sorcio de campagna
Er Fume e la Nuvola
L’elezzione der Presidente
favole moderne
La Ranocchia ambizziosa
Er Leone ariconoscente
Er Porco
Er Buffone
La caccia a la Vorpe
La Violetta e la Farfalla
Er bijetto da cento lire
Er Pipistrello
Li cappelli
L’Omo e er Serpente
La Purcia
Er Rospo e la Gallina
La carriera der Porco
L’Omo e la Scimmia
L’Ortolano e er Diavolo
C’era ’na vorta un povero Ortolano
Er Cane e la Cagna
Er Gallo e er Cane
La Margherita
L’omo
Er Pavone
Er Bacillo
La corte der Leone
La Purcetta anarchica
Er Maestro de musica e la Mosca
Er Porco e er Bovo
Er congresso de li Cavalli
Er Gatto e er Cane
Core de Tigre
L’amori der Gatto
La Pantera
La solidarietà der Gatto
Le penne d’Oca
La Bandiera e la Banderola
Er Ragno socialista e er Bagarozzo democratico-cristiano
Er Coccodrillo
L’incarico a la Vorpe
La guerra
L’editto
La Tarla e la Coccotte
Er Pappagallo
La Tartaruga
Er Sovrano pratico
La Vorpe antimilitarista
La carità
La fine der Leone
Er Somaro monarchico e er Ciuccio repubblicano
La Campana de la chiesa
Er Re e er Gobbo
La Cecala rivoluzzionaria
La libbertà de pensiero
L’unità der partito
La Cornacchia libberale
Le bestie e er crumiro
Lo Scimmiotto
La religgione
Er brindisi de Re Baiocco
Er compagno scompagno
La fame der Lupo e le tendenze der Cane
L’Automobbile e er Somaro
La libbertà der Gatto
La Spada e er Cortello
Carità cristiana
L’Aquila
La Gallina lavoratora
L’aristocrazzia
La Maschera
Nove poesie (1922)
Er comizzio
La ribbejone
La fine de lo sciopero
Lupi e agnelli (1922)
Er Leone e er Conijo
La Lucciola
Er Montone, eroe prudente
Er Mulo neutralista
La razza
La Mosca e er Ragno
L’educazzione
L’istruzzione
L’ingegno
La fama
L’Omo e er Lupo
Basta la mossa!
Er Cane e la Luna
L’Ape, er Baco e lo Scorpione
Er Rospo e er Gambero
Er Somaro e er Leone
La Pecorella
La Farfalla e l’Ape
Scenza e preggiudizzio
Festa da ballo
Lo spauracchio
Adamo e la Pecora
L’arrivisti
La previdenza
Le Lucciole
La speculazzione de le parole
La trappola
Er Pastore e l’Agnelli
Lo Scorpione
Noè er Pollo
Li Rospi contro l’Aquila
dalla guerra alla pace
La ninna-nanna de la guerra
La Madre Panza
Natale de guerra
L’«Internazzionale» tedesca
Un Re umanitario
Sermone 1914
Ne la Luna
L’Ape
Natale 1915
Voci lontane
Er Drago e er Ranguttano
Adamo e er Gatto
L’Orso bianco
La Lupa e l’Orso
A casa de la Pace
La pace der Lupo
Er disarmo
Er Lupo
L’eroe a pagamento
L’omo nudo
Se è vero che la guerra…
La Lega
Er Ragno Bianco
varie
L’omo inutile
Lo sborgnato
L’assoluzzione
Fra cent’anni
Banchetto
L’Eroe e li pupazzi
Le cose (1922)
La barchetta de carta
La favola vera
L’Angelo custode
L’accompagno
A Mimì
Ricordi d’un comò
L’illusione
La riconoscenza de li posteri
Bolla de sapone
La gente
Sciampagne
La rassegnazzione
favolette
L’Oca
Er Cane polizzotto
Re Leone
Tempo perso
La modestia der Somaro
Er primo Pescecane
L’evoluzzione
Er Pollo e er Mastino
La bestia raggionevole
libertà, uguaglianza, fratellanza
La Libbertà
L’uguaglianza
La fratellanza
sempre bestie…
La Zampana
La raggione der perché…
L’Orco innammorato
Raji e grugniti
Er Moscone e la Rosa
Seimila anni fa…
Comizzio
La rivoluzzione nell’orto
fiabe rosse
La perla
Come la va la viè’…
L’incoronazzione
Li peccati capitali
Le decisioni der Re
Tre pappagalli
Tropea
Er professore de filosofia
Er Vento e la Nuvola
Le storie (1923)
Er discorso de la corona
Roccasciutta
Er punto d’onore
Er coco der Re
Li convincimenti der Gatto
Tutti contenti!
Per aria
Er Diavolo de stoppa
L’Aquila romana
Un Re senza pennacchio
Li pensieri dell’Arberi
La Vipera
L’incontro de li sovrani
Er pranzo de l’alleati
Er monumento
La Mosca bianca
Lo Scimmiotto malinconico
Er libbro der Mago
Autunno
La Cecala e le Formiche
Er testamento d’un arbero
La prudenza
L’esperienza
La Verità
La calunnia
L’affezzione
La gratitudine
L’egoismo
Er disinteresse
La fede
Er principio
Er carattere
Er coraggio
L’incontentabbilità
L’orloggio cor cuccù
La pupazza
L’onestà
La fiducia
La morale
Er sentimento
La sincerità
L’inganno
L’ideale
Ommini e bestie (1923)
La morte der Gatto
politica e dipromazzia
Le coscenze all’asta
Riunione monarchica
Riunione repubbricana
Riunione socialista
Riunione clericale
Li ricevimenti
La Dipromazzia
Ministro
elezzioni
La propaganda ner Colleggio
L’elezzione
L’indennità
La sincerità ne li comizzi
Doppo l’elezzioni
La Purcia ar ballo a Corte
Le Formiche e er Ragno
Un volo de ricognizzione
La guerra co’ li turchi
sonetti ripescati
i
Er primo amore
ii
Doppo quattr’anni
L’amante de prima e quello d’adesso
La regazza arrabbiata
L’amore
L’illeggittima difesa
Er vino
Er cinto de castità
Una bella accojenza
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Li consiji boni
Quanno ce vô, ce vô!
Er decimo giurato
Tutto sfuma
Bella filosofia!
tre strozzini
i
Er macellaro
ii
Isacco e C.°
iii
Don Micchele
bestie e ommini
L’antenato
La Tigre
Er core der popolo
i
ii
La paternità
Le fatiche der Ragno
Li cambiamenti
(Prima)
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Democrazzia reale
Suffraggio universale
Li debbiti
La guerra carestosa
Gatta ce cova…
Le notizzie allarmiste
L’eroe ar caffè
Er bijetto da mille
L’Aquila vittoriosa
Romanità
Er Pollo nazzionalista
Er Cane moralista
Er Somaro filosofo
Er Sorcio vendicatore
Er Gatto avvocato
er ceco
i
ii
iii
iv
La gente (1927)
Superbia
Avarizzia
Lussuria
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La scappatella der Leone
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le lucciole
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L’Orco nero ossia la sincerità
La battecca der commanno
Pero’…
per cui…
Libro n. 9 (1929)
i
ii
iii
iv
v
la maschietta d’oggi
i
Parla cor fidanzato
ii
Parla cor boccetto
la madre bona
la madre previdente
er cammeriere indeciso
er consumo de la fede
er marito che rinvia
la terza roma
i
ii
giove
i
ii
iii
l’animali
i
ii
er telefono
l’amore d’oggiggiorno
malinconie
li cannibbali
i
ii
er marito infelice
i
ii
li frammassoni d’oggi
i
ii
zi’ prete
i
ii
l’adulterio
i
ii
iii
iv
la toletta de la marchesa
i
ii
lisa e mollica
i
ii
iii
iv
v
vi
vii
er marito filosofo
demolizzione
er pensiero politico
Uno che svicola…
La crisi de coscenza
Er martire de l’idea
Er saluto romano
lo «smemorato»
le donne mezze nude
quello che dice meo…
la stretta de mano
er duello de jeri
cronaca mondana
er sonatore ambulante
er signore decaduto
i
ii
iii
paesetto
i
ii
iii
iv
v
vi
er sogno bello
i
ii
iii
dodici sonetti vecchi e scordati
La serva de la marchesa
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Giordano Bruno
Lisetta co’ la signora
La Francia
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Li boni consiji de la servetta
Giove e le bestie (1932)
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La stima
Legge de natura
Er Lupo convertito
La fine dell’Orco
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L’Orso venditore de fumo
La Libbertà
L’incrocio
L’Omo e l’Arbero
La Candela
Er provedimento
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L’Omo e er Lupo
La musarola
La giustizzia aggiustata
Le pretese der Camaleonte
Lo Specchio
Er miracolo
La nascita
Er Grillo zoppo
Pasquino sempre scontento
Matina abbonora
Un Conijo coraggioso
Favole…
Libro muto (1935)
Libbro muto
Cerimonia
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La Gloria
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Bonsenso pratico
La paura
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L’amicizzia
L’ospite
Coscenza
La guida
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Disinteresse
L’Idolo
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Er Salice piangente
La gloria artificiale
Pretenzioni
La generosità der Leone
Questione de razza
Massime eterne
La Vorpe sincera
In finestra
La Tartaruga lemme-lemme
Peccato n.° 1
Ripari
Dignità
L’Agnello prudente
La Lumaca
La fedeltà
La proprietà
Lo scialletto
Soffitta
Bar dell’Illusione
Compassione
Cortile
Una mano
Mania de persecuzzione
La strada mia
Introduzione
«Se la sera volete pijà più fresco, sapete indove ve ne dovete annà? Da Guardabassi a piazza Montecitorio. Lì v’assicuro che ce passate n’oretta co’ tutti li fiocchi. Ve gustate la vista de tante ciumachelle. Ce ne so’ co’ li capelli rossi, neri, biondi, castagni, ce so’ pallide, ce so’ colorite. Ma tutte de ’na leganza che levateve!!! Chi è quello che possiede un cinquanta centesimi e nun se va a gode ’sta grazzia de Dio!? Quanno che c’è la musica sentite le sonate uguarmente come che stassivo a piazza Colonna. Quanno nun c’è, ce penza Paganini seconno, a fa tricche e tracche cor violino. Ho raccorto un buggerìo de scenette, de dialighetti che succedono lì, e forse, forse, puro quarche macchietta…»
Così si legge sul «Rugantino» del 5 luglio 1888. A scrivere questo invito ai lettori del settimanale in dialetto romanesco è Marco Pepe, pseudonimo di Carlo Alberto Salustri, diciottenne giornalista che alle cronache cittadine alterna versi firmati con un altro pseudonimo, Trilussa. Un giovanissimo poeta, eppure già famoso nella sua Roma. Quella che è allora, una grande città provinciale, capitale da neanche vent’anni, che vive le sere e la domenica, animata dal generone ai tavoli dei caffè concentrati tra piazza Montecitorio e il Corso, come il Falchetto, il Colonna, il Guardabassi e il Ronzi & Singer con i concerti del maestro Vessella, mentre la piccola borghesia mette in mostra le sue belle ragazze da marito sotto il palazzo Chigi, «dove un intraprenditore modesto», rievoca Livio Jannattoni, «aveva ottenuto il privilegio di affittare le seggiole di legno impagliate, a due soldi l’una». Uno spaccato significativo di una Roma che non arriva a contare 400.000 abitanti e che, politica a parte, vive di scandali e scandaletti, omicidi e suicidi, fattacci di cronaca e stravaganze di sedute spiritiche. Tutti avvenimenti di cui la cittadinanza è avida di sapere, per chiacchierare, commentare, ridere.
E questa Roma è alla base della poesia di Trilussa, che da subito, da giovanissimo, ha la straordinaria capacità di carpirla nei propri versi, coinvolgerla in prima persona, ponendosi in comunicazione diretta con il cittadino-lettore, senza intermediari, senza l’oste che racconta o il popolano che funge da «storico». Come testimonia la nota sul «Rugantino»: un invito a vivere quella certa città e a leggere le cronache in prosa di Marco Pepe e i versi di Trilussa che esaltano le belle «ciumachelle», le Stelle de Roma.
Ed è in sostanza vero quanto ha scritto Pietro Pancrazi, che «Trilussa nacque alla poesia… dalla cronaca cittadina degli spettacoli, dei teatri, dei caffè-concerti e delle altre novità o curiosità quotidiane».
Cronista ancor prima che poeta, così che «l’incontro con la pungente e cangiante attualità del giornale fu per lui un definitivo scoprirsi a se stesso: gli si rivelò in quel punto la vocazione di poeta chansonnier (l’occasione colta al balzo, il pronto avvertimento e commento al fatto del giorno), cui resterà a suo modo fedele tutta la vita». Che poi le Stelle de Roma, esaltanti alcune fanciulle quiriti, siano state ripudiate dal poeta maturo ha poca importanza; quelle poesie restano la base del linguaggio poetico che fin da allora non appariva «romanesco» al cento per cento, ma diluito, annacquato nel quotidiano, non più «belliano» e aperto alla «lingua» in molteplici sfaccettature.
È vero però che Roma non era soltanto quella salottiera e dei caffè, vissuta dalla borghesia. Roma era anche quella popolare di Trastevere e Borgo, meno blasonata e più in linea con la tradizione «romanesca», sia per costume che per lingua. Città dell’osteria, del botteghino del Lotto e del portierato; città del plebeo belliano. Alla quale Trilussa si rivolge con i sonetti nella linea tenuta viva allora da Zanazzo, ma sempre ammorbidendo il dialetto, puntando sul senti-mento.
Sono i sonetti di Er Mago de Bborgo. Una poesia all’insegna della semplicità, che registra l’epoca e l’ambiente con realismo ma senza drammi, con l’immediatezza che ha il timbro dell’improvvisazione, come cronaca in versi della vita filtrata attraverso una bonaria ironia. Trilussa bamboleggia con i personaggi (Er piantinaro, La strega, L’ottobrata de Nannarella), scende alla macchietta in una rapida impressione e si diverte alle piccole vicende quotidiane. Valga per tutti come esempio il sonetto Li comprimenti der barbiere:
Sì… S’accommodi qui, sor cavaiere:
Se metta puro a ssede. La famija
Sta tutta bbene? Ciò tanto piacere.
Quer fijo?… Come je s’arissomija!
Che be’ raponzoletto! Quello pija
Tutto de lei… l’ingegno… le magnere…
Jeri me disse la contessa Ersija,
Che llei la va a trovà tutte le sere.
Vecchio?! Adesso j’aggiusto ’sto ciuffetto,
Se guardi. Cià ’na cera colorita,
ch’a vvedella arissembra un giovenetto.
Lei stia sempre accusì gajardo e ttosto,
E nun sarà mai vecchio… Ecco è sservita,
Tanti rispetti a llei… Bon feragosto.
Uno dei sonetti ripudiati, ma nel quale è già il Trilussa autentico, almeno quello stesso dei sonetti di Robba vecchia, Dialetto borghese e Caffè Concerto, nei quali in più la macchietta si apre dal monologo al dialogo, ma sempre legandosi al contingente della realtà spicciola con grande brio e spigliatezza. Così che lo stesso barbiere torna integro e vitale in un altro sonetto, non ripudiato, scambiando battute con il cliente questa volta, ma non maturando più di tanto. Er barbiere e l’avventore nasce evidentemente proprio da quel sonetto di Er Mago de Bborgo, quasi confondendosi con quello, magari perdendo il colore locale e mantenendo di romanesco solo la forma, perché la macchietta ora è diventata personaggio di vita nazionale e la poesia trilussiana si è fatta «satira molto pungente della società e in special modo della società borghese», secondo una nota critica della Nuova Antologia del 1901:
In questo qui so’ come San Tomaso,
o Sonnino o Giolitti, sia chi sia…
– Famme la barba, Pippo, tira via…
– Er proletario ormai s’è persuaso
che se un governo de la borghesia
sfrutta er lavoratore, in de ’sto caso…
– Abbada, Pippo, m’insaponi er naso…
– È tanto peggio pe’ la monarchia!
– Peggio per me! me scortichi! fa’ piano!…
– Ma intanto er socialismo progredisce…
– Attento ar pedicello!… – E a mano a mano…
– M’hai fatto du’ braciole sur barbozzo…
– Un giorno o l’antro sa come finisce?
– Finisce che me taji er gargarozzo!
L’evoluzione poetica c’è, tutta dettata da una straordinaria facilità di verseggiare e modellata su quella che resta poi l’idea geniale di Trilussa, la rivisitazione della favola. La poesia «giornalistica» si sgancia dalla linotype, accanto alla quale è nata, per scendere nella strada, salire nelle case, librarsi nell’aria: più che Roma «in pantofole», secondo la definizione di Giuseppe Antonio Borgese, Italia «in pantofole»,fissata in versi lontanissimi da una condizione culturale letteraria, ma piuttosto elaborati sulla cultura del luogo comune, che è fatto di sorridente moralità, priva comunque di sferzanti impennate e nutrita di un conciliante scetticismo. Cultura di vita, non di arte, dalla quale tutti gli ismi della letteratura fioriti dalla fine dell’Ottocento alla metà del Novecento sono ben lontani dal comparire, sia pur vagamente. A cominciare dal crepuscolarismo.
C’è chi invece considera Trilussa un anticipatore dei crepuscolari, un gozzaniano ante litteram; questo anche perché il poeta romano protestò sull’originalità di certe movenze malinconico-borghesi proprie dei Colloqui e le rivendicò come sue. Trompeo gliele riconobbe. Anche Pancrazi. Ma in un Mondo di Là, dove Antonio Baldini immaginava che i poeti si dessero a volte convegno, «il pur modesto Guido vi starà come persona di casa, mentre Trilussa potrà forse sentircisi un poco spaesato», ha scritto l’autore di Michelaccio, anche se «nel Mondo di qua la sua vena sappia esilararci e commuoverci e cavarci la sete di un po’ di poesia, meglio di altri che poi di Là potranno essere magari accolti con fiori e bande».
Trilussa è molto probabilmente un romantico tardivo, con tutto quel che di negativo questo attributo purtroppo porta con sé, in riferimento a certo sentimentalismo fiutato nell’aria deamicisiana di bonario paternalismo. Quello che riesce ad essere attenuato, diventando fonte di scetticismo, gli può derivare dalla conoscenza di Lorenzo Stecchetti, ma senza il tono blasfemo o il gusto maudit del poeta forlivese. Perché resta difficile credere a tracce di scapigliatura, anche se, osserva Livio Jannattoni, «non si può misconoscere che nel finale a singhiozzo di alcuni suoi sonetti – In pizzo ar tetto, Ar Pincio – si rifletta, se non l’amaro interrogativo di Georg Pfecher, il compiaciuto, improvviso concludersi della boitiana Lezione d’anatomia».
Trilussa è evidentemente, quanto a cultura, Trilussa e basta. Anche quando si apre alla favola; la riscopre e la fa sua, senza misurarsi in «riscritture» a confronto di Esopo, Fedro, La Fontaine o Clasio. «Il suo vero titolo», ha scritto infatti Emilio Cecchi, «è la creazione di un tipo di favola che, nella prima idea, avrebbe dovuto essere una sorta di parodia delle favole classiche, ma si sciolse subito in libere invenzioni, metricamente sempre più variate». La «riscrittura» si fa in caso «reinvenzione»: i personaggi della favola sono lo spunto per un cambiamento di tendenza moraleggiante, più cruda dell’ipotetico originale, per un «finale» diverso e nuovo, che è più di un «grazioso per finire». Valga per tutti il raffronto tra La Cigale et la Fourmi di La Fonfaine e La cecala d’oggi, dove all’elemosinante cicala del francese che si sente rispondere dalla formica con quel sentenzioso «Ora balla!» Trilussa oppone un amorale strafottente insetto canterino in risposta all’«Ancora canti? / ancora nu’ la pianti?» della previdente interlocutrice:
– Io? – fece la Cecala – manco a dillo:
quer che facevo prima faccio adesso;
mó ciò l’amante; me mantiè quer Grillo
che ’sto giugno me stava sempre appresso.
Che dichi? l’onestà? Quanto sei cicia!
M’aricordo mi’ nonna che diceva:
Chi lavora cià appena una camicia,
e sai chi ce n’ha due? Chi se la leva.
La favola trilussiana nasce quando il poeta si rende conto che la favola già esiste intorno a lui, nella stessa Roma in cui vive, come in altre città dove lo porta il mestiere di giornalista da «cronista», nonché quello di lettore dei suoi versi. Ha scritto giustamente Cesare Giulio Viola: «Trilussa pensa che in quelle sue creature siano manifesti costumi, sentimenti, propositi, relazioni che son di tutti gli uomini, a guardar bene; quasi che nel piccolo mondo plebeo e borghese si verifichino con maggior certezza leggi spirituali e sociali di tutta la razza umana; astraetele, fatene l’ordito di una rappresentazione nella quale agli individui siano sostituiti i tipi, ai tipi gli animali, ed avrete le favole». È un fatto che Trilussa resta Trilussa. Non cambia connotati di scrittura quando si impegna e si ingegna nella favola. Mentre personifica gli animali (aquile, volpi e leoni, ma anche pulci e pidocchi) Trilussa seguita a scrivere epigrammi e raccontini, quadretti d’ambiente e macchiette, dove l’elemento culturale non ha spazio, ma neanche ha ragion d’essere.
È probabilmente vero allora che «la sua poesia è segnata da un movimento di abbassamento, che riconduce entro confini più dimessi e feriali la favola d’animali», come ha scritto Franco Brevini. Anche «perché Trilussa ebbe il merito (e il grande vantaggio) di rimanere romano, con tutto quanto di nobile e di popolaresco, di pregi e di difetti, può racchiudersi in questo attributo», ha sottolineato Livio Jannattoni, «e facilitato, nella conservazione di tali caratteri, dal più o meno splendido isolamento, soprattutto intellettuale, culturale, in cui si relegò, costantemente, malgrado la discreta quanto gradita presenza in riunioni e cenacoli. Tanto discreta da farlo apparire quasi avulso, a volte, dalla vita, dalle correnti letterarie che attraversarono anche la sua esistenza». Con tutta la coscienza dei propri limiti intellettuali, evidentemente, e che fu la sua stessa forza. Quella per cui credette in se stesso, in quello che dicevano i versi, sempre in linea con l’insegna della romanità diluita nell’italianità.
Sarebbe infatti quanto mai arduo, se non impossibile, ricostruire all’interno della poesia di Trilussa gli ambienti di una particolare Roma, cosi come è invece possibile in Belli, Zanazzo o Pascarella. Certo, notò Ceccarius, «non mancano, è vero, nei suoi versi nomi di strade e di piazze, ma con un significato puramente occasionale, spesso per comodo di rima». E in sostanza il volto della città s’intuisce tra i versi, è alla portata di chi vuole inoltrarsi in alcuni vicoli o sostare in certi ambienti; ma è un volto intuito dal romano che ci abita; non è un volto delineato. Perché non è questo lo scopo di Trilussa, il quale, quando nomina piazza Colonna o S. Maria in Via, potrebbe allo stesso modo indicare, non dico piazza della Scala o il Duomo di Milano, ma una qualunque via o monumento ignoto al romano. Perché il lettore di Trilussa è, allora come oggi, l’italiano. E in barba anche al dialetto, che è però la base del linguaggio poetico di Trilussa.
Sulla funzione che il dialetto ha in questa poesia mi sembra che siano state già espresse ben precise indicazioni. Non siamo di fronte ad un vernacolo che da solo regge il discorso, nel senso che non si tratta di un romanesco autentico. E questo fu notato fin dagli esordi trilussiani, e con particolare severità, da quel purista del dialetto romanesco che era il Chiappini. Se vogliamo insistere in quella critica, diremo che è un dialetto privo di cultura semantica propria. È un arrangiamento di dialetto, perché Trilussa lo parlava così e non si è curato di renderlo «dotto», ovvero autenticamente romanesco, al pari di quello «plebeo» del Belli o del «popolano» del Pascarella. È «dialetto borghese», come lo stesso poeta segnalò nel sottotitolo di un gruppo di sonetti; ma in pratica è un italiano scritto «male», se lo passiamo al vaglio delle buone regole dell’italiano. «Non è un dialetto, ma una non-lingua, una fuga dalla lingua, una regressione dalla storia alla natura», secondo un’indicazione di Franco Brevini. Ma questo «macheronico italo-romanesco», come lo chiamò Pier Paolo Pasolini, non è frutto di un’elaborazione; non nasce da una sovrapposizione di lemmi, non è giocato in un doppio senso fonico. Nasce così: sonoro e lineare nella sua naturale scorrettezza.
È un linguaggio che ha il dono peraltro di farsi capire da tutti, di entrare nell’orecchio del milanese come del siciliano. Ciò che ha costituito la fortuna e la popolarità del suo autore, o meglio del suo «dicitore». Perché Trilussa deve gran parte della fama di poeta in Italia a «letture poetiche» che ancor giovane lo portarono ad essere applaudito in numerose tournées. Una poesia che ha parlato a tutti ed è stata di tutti, perché si presentava nella sua semplicità, «bella e vera che ha in sé il segreto di agitare con sentimenti diversi chi l’ascolta; poesia che è come un felice amalgama di riso, di pianto, di scetticismo fine e di amarezza sarcastica, attinto a sorsi ed a pennellate alla inesausta fonte di immagini e d’impressioni che ci offre la vita», annotava entusiasta il cronista de «La Provincia di Ferrara» facendosi interprete dell’entusiasmo destato negli spettatori presenti al recital di Trilussa al Comunale di quella città il 18 novembre 1909. Cronache di questo tipo restano quanto mai valide per chiarire il successo che ha avuto da allora in poi Trilussa, tanto da non risultare «datate», ovvero superate da successive critiche che non fossero di carattere più strettamente letterario. È il cronista di questi recitals che offre la misura più precisa dello spessore poetico di Trilussa, quando definisce in lui «non l’eco di una scuola o di un partito, ma la semplice e sincera voce d’un animo che osserva e che canta, foggiando i suoi canti a satira pungente, senza predilezione, a staffile terribile ma elegante; la poesia di Trilussa ne ha per tutti; per il socialista e per il prete; per il liberale e per il conservatore; per il poeta e per il commerciante; per l’amore e per l’ipocrisia».
È in questi anni che si è definito, parallelamente al poeta delle favole, il «personaggio». Che dipende non tanto dai versi quanto dalla «taglia della persona, il modo di vestire». Prima di tutto è la statura che si è imposta, attirando l’attenzione degli ascoltatori delle letture fino a diventare una macchietta. Come fosse un personaggio della sua poesia. E sul «Secolo xix» di Genova si leggeva questa autentica caricatura:
«Le sue proporzioni sono colossali: vi fu un tempo in cui pareva crescere a vista d’occhio, tanto che un amico che gli avesse fatto una carezza alle cinque, alle sette non arrivava più a fare altrettanto. E colossali sono anche le sue cravatte, con ognuna delle quali si potrebbe rivestire un orfanatrofio».
Trilussa stava al gioco di certa aneddotica che facilmente confondeva l’artista con l’uomo, maschera e volto di una persona che si adattava al gusto del tempo. Faceva il dandy a suo modo. In un’epoca in cui si «dannunziava», Trilussa faceva il verso all’imaginifico. Il tutto rientrava nel lancio della sua poesia a livello nazionale che, una volta approdata alle edizioni Mondadori, ebbe un riconoscimento benevolo anche da parte della critica accademica.
Il personaggio Trilussa divenne in tal modo l’etichetta di autenticità della sua stessa poesia, in una vera e propria scalata alla celebrità. Così «La Tribuna» del 29 ottobre 1908 presentava l’iter di quel successo: «L’immagine di Trilussa divisa in capitoli come la puntata di un romanzo, agevolmente si prestava a promuover la risata e il poeta vide aperta innanzi a sé la porta della fama: entrò per quella strada, ridendo e facendo ridere, ma osservando e studiando le persone e le cose per mezzo cui passava e non si compiacque mai di fermarsi dove la facile lode ispirata dal facile sorriso lo invitava con le sue lusinghe a sostare; egli seguitò ad avanzare forbendo con amorevole cura il diamante grezzo che la fortuna gli aveva posto tra mano, e quando lo ebbe sfaccettato e pulito e reso limpido e chiaro di splendore, lo levò sopra il capo e ne fece abilmente vibrar la luce d’attorno. Il sesquipedale Trilussa
era diventato il poeta delle favole: e la sua fama fu questa volta compiuta».
Cosi la società edonistica fine Ottocento e primo Novecento ha esaltato Trilussa, poeta e personaggio; era il simbolo di un’epoca e della classe borghese. E cosi si espresse