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Canti degli Indiani d’America
Canti degli Indiani d’America
Canti degli Indiani d’America
E-book271 pagine1 ora

Canti degli Indiani d’America

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Traduzione di Francesca Toticchi

La facoltà poetica è, tra tutte quelle proprie dell’uomo, la più sensibile alla natura che lo circonda, la testimonianza più vera ed evidente dell’influenza che il cielo, i corsi d’acqua, le foreste, i colori del mattino esercitano su di lui. Questi canti costituiscono il segno più autentico e profondo della poesia indigena dell’America del Nord. E rappresentano un’eredità lirica e visionaria di rara bellezza. Amore e gioia, dolore e guerra, natura e magia, tutta la realtà e l’universo mitico dei nativi americani emergono così da quel silenzio in cui la “civiltà” dei colonizzatori bianchi, con il suo linguaggio, le sue leggi, i suoi eserciti avrebbe voluto confinarli. Rivivono in queste pagine le voci dirette dei Dakota, Sioux, Pawnee, Navajo, Shoshone e di tutte le altre tribù che hanno abitato gli enormi spazi dell’America del Nord e del Canada, dalle foreste orientali alle Grandi Pianure, dalla California alla Costa Nord Occidentale. Un’ampia sezione, inoltre, riunisce alcuni esempi di interpretazione lirica dei versi indiani ad opera di artisti e scrittori statunitensi (Constance Lindsay Skinner, Mary Austin, Frank Gordon, Alice Corbin Henderson, Pauline Johnson) insieme con l’articolato e complesso rituale dell’Hako (una cerimonia pawnee) rivissuto attraverso la penna di Alice Fletcher.
LinguaItaliano
Data di uscita16 gen 2012
ISBN9788854139374
Canti degli Indiani d’America

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    Canti degli Indiani d’America - AA. VV.

    365

    Titolo originale: Canti degli Indiani d’America

    Traduzione di Francesca Toticchi

    Prima edizione ebook: gennaio 2012

    ©2012 Newton Compton editori s.r.l.

    Roma, Casella postale 6214

    ISBN 978-88-541-3937-4

    www.newtoncompton.com

    Edizione elettronica realizzata da Gag srl

    Canti degli Indiani d’America

    Traduzione di Francesca Toticchi

    Newton Compton editori

    Introduzione

    La facoltà poetica è, tra tutte quelle proprie dell’uomo, la più sensibile alla natura che lo circonda, la testimonianza più vera ed evidente dell’influenza che il cielo, i corsi d’acqua, le foreste, i colori del mattino esercitano su di lui. È la poesia la prima a documentare l’innalzamento dello spirito dell’uomo allo stimolo di nuovi ideali di nazione. Se così non fosse, allora non potremmo parlare di identità etnica nell’arte, ed è solo stabilendo una continuità con le primissime istanze di tale relazione che possiamo riconoscere con certezza la nota autoctona del genio poetico americano. Diventa dunque giusto e importante che questa raccolta di versi degli Indiani d’America venga proposta al pubblico in un momento in cui è evidente la volontà e la ricerca da parte degli americani di un maggior radicamento alla propria terra. È il certificato della nostra adozione che il giovane genio della nostra epoca debba inconsapevolmente nascere su questo antico sentiero verso gli High Places.

    Quando in America l’arte poetica cominciò a essere soffocata dalla cultura europea, aveva toccato un livello simile a quello raggiunto dai greci all’inizio dell’epoca omerica. La lirica era ben sviluppata, l’epica nascente, e il dramma ancora allo stadio dei Satiri, una rozza danza rituale intorno a un altare o a un fuoco sacrificale. Poesia e dramma non erano ancora separate dal canto, e l’arte tutta scaturiva dal Grande Mistero. La magia veniva cantata e i canti avevano un potere magico. Erano entrambi accompagnati dai movimenti del corpo, tanto che per un indiano dire «Non so cantare quella danza» o «Non so danzare quel canto» non farebbe nessuna differenza. Parole, melodia e movimenti erano un tuttuno, come in un fiume acqua, onde e corso. Canticchiate poche battute di un canto familiare a un uomo delle pianure e vi dirà, confuso: «Dovrebbe trattarsi di un canto di guerra», ma senza sentirne anche le parole avrà difficoltà a riconoscerlo con certezza. Le parole potrebbero diventare obsolete e renderlo intraducibile, ma fin tanto che il canto continua a contenere l’impulso emozionale originario da cui è scaturito, per un indiano varrà sempre la pena cantarlo. Per loro «i canti dei bianchi parlano troppo».

    Ciò spiega in parte il motivo per cui la stragrande maggioranza dei canti degli Indiani siano legati a occasioni particolari. Il resto della spiegazione sta nel fatto che i canti per loro hanno un potere magico. Tirawa, Wokonda, L’amico dell’anima dell’uomo è ovunque, nel campo che seminiamo, nella pietra con cui maciniamo, nell’orso che uccidiamo. Cantando, l’anima di colui che canta è messa in armonia con l’Essenza delle cose. Ci sono canti per ogni singolo aspetto della vita tribale, per l’inizio di un viaggio, per l’arrivo a destinazione e per il ritorno dei mariti. Molti di questi canti appaiono svincolati da tutto tranne che dall’occasione per la quale sono nati, come ad esempio il canto della macina, che è ritmato dal rumore della mola, o il Canto della pagaia che segue il movimento dei remi. Altri, meno descrittivi e più legati alla dimensione del sacro, si presentano originariamente come numeri nelle sequenze del canto con cui si celebrano i Misteri tribali.

    Dietro ogni cerimonia indiana c’è una storia, i cui momenti culminanti sono contenuti nel canto, mentre il racconto è pertinenza dei riti simbolici e della danza. L’ineguale sviluppo a livello sociale di tribù contemporanee ci permette di avere esempi di ogni fase dell’evoluzione strutturale dei loro canti, dalla danza relativa agli elementi naturali punteggiata da esclamazioni cantate, al Canto della montagna degli Zuni nel quale il peso della storia ha scomposto le varianti dei versi in forme semplici e forti, facili da ricordare e interpuntate dalla sequenza rituale del Midéwan.

    Nel considerare lo sviluppo delle forme versificatorie degli Indiani, dobbiamo costantemente tenere presente la necessità tutta pratica di preservare e tramandare solo oralmente i canti.

    Questa necessità ha fatto in modo, infatti, che la poesia fosse sempre legata alla melodia, che aiutava la memoria, e che risultasse costantemente in fieri, poiché il ritmo veniva modificato ogni volta che c’era un qualche cambiamento nella storia. Gli antichi cantori Chippeway appuntavano i canti, tramite degli ideogrammi, sulla corteccia degli alberi, poi c’erano le cinture wampum che commemoravano gli eventi per i quali quei canti venivano cantati, ma non bisogna dimenticare, però, che questi ultimi erano arrivati fin lì grazie a centinaia di anni di trasmissione orale, e da essa, allo stesso modo, limitati.

    Il cerchio della creazione degli Zuni – con il suo stile narrativo sostenuto – e l’epica omerica sono vicinissimi in termini poetici, lo spazio che li separa, rappresentato nella letteratura del vecchio mondo dalle saghe scandinave e dal Kalevala, è rivelato ma non riempito, in America, dalla prosa. È probabile che se avessimo una documentazione adeguata della letteratura delle tribù scomparse, questo periodo pre-omerico ci regalerebbe importanti esempi di materiale epico. Nessuno sa davvero come venissero recitati il Walam Olum o i Miti della migrazione dei Creek. Questi incarnavano intere epoche di storia tribale, e quello che conosciamo è arrivato fino alla nostra epoca solo grazie alla trasmissione orale, quindi solo attraverso la chiave mnemonica. In ogni tribù ci sono dei canti sparsi che sono chiaramente frammenti della sequenza di una storia la cui chiave è andata perduta, e non è inverosimile affermare che un documento come il Wallum Olum probabilmente fosse composto da complete, anche se slegate, narrazioni di eventi storici ora solo impercettibilmente accennati (alcuni dei quali potrebbero tuttavia concedersi allo sguardo di un paziente ricercatore).

    Per il lettore occasionale suscitano maggiore interesse i canti privati, come le ninnananne, i canti d’amore, e ancor di più il canto personale dell’uomo, da lui inventato e cantato per celebrare un momento particolare della propria esistenza. Questo tipo di canto è considerato una vera e propria proprietà, nessuno potrebbe cantarlo senza il suo permesso. Potrebbe concederlo a un amico, o donarlo alla tribù alla sua morte, ma potrebbe anche morire senza averlo mai cantato davanti a nessuno se non alla divinità.

    Quando sono salita sulle alte catene montuose (Sierras), ho osservato la mia guida indiana andarsene ogni giorno in un luogo isolato, sempre alla stessa ora e canticchiare fra sé accennando dei passi di danza. Quando gliene chiesi spiegazione mi rispose che si trattava di un canto scritto da lui stesso che lui e sua moglie dovevano cantare quando erano lontani.

    Non aveva parole; era solo un canto.

    Dovunque si trovassero, si voltavano nella direzione in cui doveva trovarsi l’altro, e quando il sole era a un tiro d’arco sopra il limitar del cielo, lo cantavano insieme. Ecco un esempio del vero valore di un canto nella vita dei nativi. Non sono le parole a essere potenti, ma lo stato mentale evocato cantando, che, secondo il semplice selvaggio, era un bene superno. Nei momenti più importanti, quindi, intonava questi canti. La poesia è il Sentiero lungo l’arcobaleno attraverso il quale l’anima dell’uomo si eleva; lo porta vicino all’Amico dell’anima dell’uomo. Questi stati della mente sono ritenuti protettivi e curativi. Gli uomini della medicina cantano per i propri pazienti e, in tempi di guerra, le mogli si riuniscono intorno alla donna del capo e cantano per la vittoria dei propri guerrieri.

    «Invocare Zeus con i nomi della Vittoria», come diceva Euripide.

    È il potere insito nella poesia a elevare la mente al di sopra degli accidenti della vita, e così ci spieghiamo anche l’uso del Canto di morte. Quando l’indiano sente avvicinarsi il proprio momento, si getta, per un profondo istinto di autoconservazione, nello stato mentale più alto raggiungibile. Quando, durante una battaglia, gli uomini intonano il canto di morte, si gettano nell’ultima disperata avventura. Quando qualcuno moriva di una malattia debilitante, gli amici andavano da lui e cantavano in cerchio il canto di morte.

    Una volta ho sentito il canto di morte di un compositore Yokut. Era molto semplice:

    Per tutta la vita

    ho cercato,

    cercato!

    Gli anni di scuola forse ci hanno insegnato di più di ciò che è contenuto in questo canto?

    La metrica indiana non è ancora stata studiata in modo adeguato. Il problema della forma è complicato dal legame con la melodia e i movimenti. La necessità di rendere il verso conforme alla danza forse spiega l’uso di sillabe senza significato. Il nostro orecchio non è in grado di individuare l’uso di forme particolari nelle loro composizioni, ma è certo che gli Indiani fossero in grado di riconoscere una certa corrispondenza tra la forma e il significato. Riuscirebbero a classificare in canti d’amore, di guerra o di magia canti di altre tribù in lingue sconosciute. La genialità del linguaggio tribale è un fattore determinante. Nemmeno la traduzione più distratta potrebbe – dal nostro punto di vista – alterare la superiore cantabilità del verso dei Chippeway. Solitamente la poesia degli abitanti delle foreste è più lirica dei canti degli abitanti delle montagne. Uno studio che ho fatto sulla psicologia del linguaggio dei segni degli Indiani con lo scopo di scoprire una possibile relazione tra di esso e la gestualità dei greci – così come si vede negli antichi dipinti – è arrivato alla conclusione che i ritmi indiani scaturiscano più dall’autoconservazione che dall’autocoscienza. Detto in altri termini, significa che per il nativo

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