Scopri milioni di eBook, audiolibri e tanto altro ancora con una prova gratuita

Solo $11.99/mese al termine del periodo di prova. Cancella quando vuoi.

La battaglia del Leone di Venezia
La battaglia del Leone di Venezia
La battaglia del Leone di Venezia
E-book1.067 pagine15 ore

La battaglia del Leone di Venezia

Valutazione: 0 su 5 stelle

()

Leggi anteprima

Info su questo ebook

Un grande romanzo storico

Venezia, 1644. Marco Civran è il giovane figlio di un mercante veneziano, sempre per mare a caccia di avventure. Suo padre vorrebbe che imparasse a far di conto, a calcolare le distanze e i denari, ma Marco ha ben altro per la testa: si è invaghito di Thea, la sorella di un amico greco, e ha intenzione di corteggiarla. L’occasione si presenta quando Thea si imbarca alla volta di Creta per raggiungere una zia: durante il viaggio Marco fa di tutto per conoscerla meglio. I suoi piani sono però interrotti quando, dalla nave, i due assistono a una cruenta battaglia nel mare Egeo tra le galee cristiane dei Cavalieri di Malta e una piccola flotta ottomana, che viene sopraffatta. Marco non lo sa ancora, ma quello spettacolo è solo un’avvisaglia delle imprese che lo attendono in futuro. Perché ben presto gli ottomani arriveranno a minacciare i possedimenti della Serenissima, mettendo a repentaglio tutto ciò che ha di più caro…

Autore del bestseller Il guerriero del mare
Un grande narratore di epici scontri tra flotte. 

Un’avventura mozzafiato, sotto il segno del leone alato di Venezia. 

Hanno scritto dei suoi romanzi: 

«Solida documentazione storica, agile libertà creativa, riesce a incuriosire e appassiona il lettore.» 
Il Sole 24 Ore 

«Attraverso il suo racconto in presa diretta, Giulio Castelli ci mostra in dettaglio il disfacimento di quel mondo affascinante, le nostre radici.» 
Il Venerdì di Repubblica 

«Castelli miscela il rigore della ricostruzione storica con i sapori forti dell’avventura e della fiction.» 
Il Messaggero
Giulio Castelli
Narratore, saggista e giornalista professionista, è studioso di storia tardoantica e medievale. Tra le sue pubblicazioni ricordiamo il romanzo Il fascistibile, il pamphlet Il Leviatano negligente, i saggi Potere e inefficienza in Italia e Il Piccolo dizionario 2005. Con la Newton Compton ha pubblicato Imperator, Gli ultimi fuochi dell’impero romano, 476 A.D. L’ultimo imperatore, Il diario segreto di Marco Aurelio, L’imperatore guerriero, La battaglia sulla montagna di Dio, Il guerriero del mare e La battaglia del Leone di Venezia.
LinguaItaliano
Data di uscita26 gen 2021
ISBN9788822748478
La battaglia del Leone di Venezia

Correlato a La battaglia del Leone di Venezia

Titoli di questa serie (100)

Visualizza altri

Ebook correlati

Narrativa storica per voi

Visualizza altri

Articoli correlati

Categorie correlate

Recensioni su La battaglia del Leone di Venezia

Valutazione: 0 su 5 stelle
0 valutazioni

0 valutazioni0 recensioni

Cosa ne pensi?

Tocca per valutare

La recensione deve contenere almeno 10 parole

    Anteprima del libro

    La battaglia del Leone di Venezia - Giulio Castelli

    GLOSSARIO

    Aga: Titolo attribuito a un alto dignitario civile o militare ottomano.

    Alabarda: Lancia fornita di punta e scure. Anche usata dai corpi di guardia.

    Albero di maestra: Nei velieri l’albero centrale e più alto.

    Albero di mezzana: Nei velieri a tre alberi quello più vicino alla poppa.

    Albero di trinchetto: Nei velieri è l’albero più vicino alla prua.

    Alcalde: Funzionario spagnolo preposto a una città o a un ufficio.

    Almirante: In una nave da guerra veneziana l’ufficiale addetto alla rotta.

    Argosiana: Nave della Repubblica di Ragusa (oggi Dubrovnik).

    Aspide: Piccolo pezzo di artiglieria che poteva essere disposto in qualsiasi punto del ponte. Nelle galee sottili soprattutto a prua.

    Atamano: Capo militare dei Cosacchi.

    Bailo: Era il titolo dell’ambasciatore veneziano a Costantinopoli, anche responsabile per la comunità veneta nella capitale ottomana.

    Balestra: Tipo di arco corto di legno e ferro che poteva lanciare piccole frecce a breve distanza ma con molta precisione e forza di penetrazione.

    Balteo: Cintura pendente dalla spalla alla quale poteva essere appesa un’arma.

    Barbareschi: Pirati nordafricani formalmente sudditi ottomani che facevano la guerra di corsa per catturare navi cristiane. Da Barberia, gli odierni paesi del Maghreb.

    Barnabotto: Nobile veneziano senza rendite. Nonostante la povertà era membro del Maggior Consiglio.

    Bas chiaus: Alto ufficiale dei giannizzeri ottomani.

    Basci-buzuk: Truppe irregolari e indisciplinate dell’esercito ottomano note per la loro ferocia.

    Basileus: L’imperatore bizantino di Costantinopoli.

    Bastarda: Grossa galea che spesso era anche la capitana di una squadra navale veneziana.

    Baùta: Un tipo di maschera molto usata nel Carnevale di Venezia.

    Beccheggio: Il movimento della nave quando le onde vengono da prua o da poppa.

    Bey: Governatore di una provincia ottomana.

    Beylerbey: Bey di massimo grado.

    Biribisso: Gioco d’azzardo che presentava alcune somiglianze con la roulette.

    Biscotto: Pane cotto due volte fino a farne gallette dure che potevano essere conservate per mesi a bordo delle navi.

    Boma: Nei velieri un’asta trasversale collegata ad angolo retto con un albero utile a supportare la velatura.

    Bombarda: Grosso cannone usato per sparare proiettili di grandi dimensioni contro le fortificazioni. Era molto impreciso.

    Bombardiere: Nel gergo seicentesco era l’artigliere che serviva qualsiasi tipo di pezzo.

    Bompresso: Albero situato obliquamente sulla prua di un veliero.

    Bordata: Il fuoco di artiglieria dei cannoni disposti sulle fiancate di un veliero o di una galeazza.

    Borea: Vento settentrionale assimilabile alla tramontana ma anche al grecale.

    Brigantino: Piccolo veliero a due alberi che accompagnava una squadra navale con compiti di collegamento e di esplorazione.

    Brulotto: Barca o zattera carica di esplosivo o di materiale incendiario usata per attacchi a sorpresa alle navi più grandi.

    Buonavoglia: Vogatori o marinai che si arruolavano liberamente nelle navi veneziane.

    Cadì: Un giudice nell’impero ottomano.

    Cadì lesker (Cadilescheri): La massima autorità giudiziaria dell’esercito ottomano.

    Caimacan: Nell’esercito ottomano un grado simile a tenente colonnello.

    Cambusa: La dispensa delle navi.

    Capitan grande: Il capo della polizia veneziana. Aveva ai suoi ordini duemila sbirri.

    Capitano da mar: Il grande ammiraglio comandante di tutta la flotta della Serenissima.

    Capitano di giustizia: Nell’impero spagnolo il presidente di un tribunale.

    Capo da mar: Nella flotta veneziana il comandante di una squadra navale.

    Caracca: Veliero a tre o quattro alberi molto alto di fiancata e di notevole stazza. Una specie di grossa caravella.

    Cassero: Nei velieri una parte sopraelevata che si estendeva dalla poppa all’albero di mezzana. Spesso ospitava una cabina per il comandante.

    Castellani e Nicolotti: Le due fazioni dei popolani di Venezia. Tra i primi vi erano numerosi arsenalotti mentre i secondi erano in gran parte pescatori. Le loro risse potevano degenerare in scontri sanguinosi.

    Castello: Un’altra definizione del cassero della nave (generalmente a poppa).

    Catapulta: Pezzo di artiglieria non da fuoco utilizzato per lanciare proiettili grazie a un sistema di molle.

    Cavaliere: Fortificazione che dall’interno dominava una muraglia e sulla quale potevano essere disposti cannoni di lunga gittata.

    Cavus: Grado dell’esercito ottomano equiparabile a sergente.

    Cernide: Unità formate generalmente da contadini locali che venivano usate dall’esercito veneziano come forze di appoggio.

    Cerusico: Un chirurgo.

    Chiajà: Ufficiale ottomano con compiti di segreteria anche in uno Stato maggiore.

    Coffa: Piccola piattaforma posizionata presso la sommità dell’albero di maestra di una nave dove era piazzata una vedetta.

    Colubrina: Cannone di piccolo calibro che poteva essere spostato sul ponte di un veliero. La gittata era poco più di cento metri.

    Comito: Ufficiale di galea di grado immediatamente inferiore a quello del comandante.

    Commonwealth: A metà del Seicento con questo termine in Inghilterra si intendeva il potere del Parlamento nel confronto con la Corona.

    Compagnia: Unità militare veneziana che comprendeva circa 40-50 soldati. Era comandata da un capitano che aveva ai suoi ordini un luogotenente, cinque caporali, tre musici, un alfiere, uno scrivano e un furiere.

    Consiglio dei Dieci: La suprema magistratura che, con amplissimi poteri, sovraintendeva alla sicurezza della Repubblica veneziana. I Dieci erano eletti annualmente dal Maggior Consiglio.

    Controscarpa: Parete perpendicolare posta verso l’esterno di un fossato per rendere ardua la discesa di attaccanti nel fossato stesso.

    Corazziere: Cavalleggero armato di lancia e protetto da elmo e corazza a mezzo busto.

    Corbac: Ufficiale dell’esercito ottomano il cui grado corrispondeva a quello di colonnello.

    Corsaletto: Corazza leggera non metallica a mezzo busto.

    Corte Capitanale: Un tribunale locale nell’impero spagnolo.

    Defterdar: Una specie di ministro delle finanze dell’impero ottomano.

    Derviscio: Membro di una confraternita musulmana con interessi rivolti al misticismo.

    Dey: Il governatore di Algeri o di Tripoli nell’impero ottomano. Godeva di grande autonomia.

    Dieci: Vedi Consiglio dei.

    Dimarco: Il capo di un villaggio greco sottoposto all’autorità ottomana o a quella veneziana.

    Divano: Il consesso dei ministri ottomani sotto la presidenza del gran visir.

    Dragomanno: Interprete ufficiale delle ambasciate europee a Costantinopoli autorizzato dal Divano.

    Effendi: Titolo di rispetto attribuito a funzionari, a notabili o a personalità straniere.

    Eunuchi bianchi: Erano schiavi catturati nei Balcani o nel Caucaso e poi evirati. Erano impiegati in varie mansioni collegate alla sicurezza del sultano.

    Eunuchi neri: Erano schiavi catturati nel Sudan e poi evirati. Erano adibiti alla sicurezza delle donne dell’harem. Il loro capo era il kizlar aga che per la sua frequentazione con la sultana validè spesso acquisiva grande potere.

    Falcone: Cannoncino da marina di piccolo calibro in grado di sparare proiettili di ogni tipo.

    Falconetto: Un falcone di calibro ancora minore.

    Fante da mar: Soldato dei reparti da sbarco veneziani utilizzato anche nei combattimenti navali e soprattutto negli arrembaggi.

    Fatwa: Sentenza del diritto islamico che poteva anche equivalere a un interdetto.

    Feluca: Piccolo veliero usato soprattutto in bacini chiusi.

    Feudato: Nobile veneziano la cui famiglia era insediata a Creta, talvolta da secoli, cui era attribuito un ampio possedimento sul quale aveva poteri di tipo feudale.

    Firmano: Decreto firmato dal sultano che poteva equivalere a un lasciapassare.

    Freccia: Fortificazione triangolare priva del lato maggiore disposta con la punta rivolta all’esterno in modo da proteggere una porta o un punto debole delle mura.

    Fregata: Veliero a tre alberi in grado di manovrare anche controvento e di avere notevole velocità di crociera. Era comunque di stazza inferiore al vascello.

    Fusta: Una piccola galea.

    Galea sottile: La più usata nave da guerra fino alla metà del Seicento quando anche nel Mediterraneo fu gradualmente soppiantata dai velieri, soprattutto vascelli. Era armata con uno o due pezzi di artiglieria dal calibro rilevante posti a prua. Mediamente il suo equipaggio era composto da 2-300 vogatori, 50-60 marinai, 100-150 soldati imbarcati, una ventina di bombardieri e una ventina tra ufficiali e addetti ai servizi. Se si tiene conto che una galea era in genere non più lunga di 50 metri e non più larga di 8 e che sotto coperta esistevano pochi e angusti locali, si può immaginare come vivessero tutti quegli uomini in quel piccolo spazio.

    Galeazza: Grossa galea dalle fiancate molto rialzate, lunga oltre 60 metri, con 3 o 4 alberi e fino a 16 banchi per la voga. Aveva un equipaggio di oltre 500 uomini e 200 fanti da mar imbarcati. Era dotata di cannoni anche sulle fiancate e dunque in grado di fare fuoco da tutti i lati.

    Galeone: Veliero dalle alte fiancate con castello di poppa molto rialzato. Armato di cannoni su tutti i lati. Era in grado di navigare anche attraverso l’oceano. Il suo equipaggio era meno numeroso di quello di una galea perché non c’erano i vogatori.

    Galeotta: Piccola galea con un equipaggio di circa 150 uomini. Usata soprattutto dai pirati barbareschi.

    Galeotto: Condannato ai remi. Poteva essere un prigioniero di guerra ridotto in schiavitù o un condannato per reati comuni.

    Garbino: Vento di libeccio.

    Generalizia (Galea): Grossa galea sottile con le murate rialzate e un grande castello di poppa. Era la nave ammiraglia della flotta veneziana a bordo della quale si trovava il capitano da mar.

    Giannizzeri: Corpo scelto dell’esercito ottomano. Era formato da soldati strappati da bambini alle loro famiglie, generalmente cristiane dei Balcani, allevati alla religione musulmana e addestrati a tutti i tipi di combattimento. Disponevano di notevoli privilegi e avevano un forte spirito di corpo.

    Golfo: Denominazione data dai veneziani al mare Adriatico, considerato appunto il golfo di Venezia.

    Grandi savi: Erano sei e facevano parte del Collegio dei Savi della Serenissima composto da ventuno dignitari.

    Gran muftì: Il massimo esponente religioso dell’impero ottomano. Poteva emanare fatwe sia come ordinanze sia come anatemi.

    Gran visir: Il primo ministro dell’impero ottomano. Aveva grandissimi poteri ed era sottoposto alla sola autorità del sultano. Presiedeva i dibattiti del Divano.

    Grida: Decreti e editti delle autorità spagnole del ducato di Milano e del Regno di Napoli e Sicilia. In genere, come ha ben descritto il Manzoni, erano disattese.

    Guardia del Golfo: La squadra navale veneziana incaricata di difendere l’accesso all’Adriatico. Aveva le sue basi a Corfù e a Zante.

    Guardia del Regno: La squadra navale veneziana incaricata di difendere il Regno di Candia.

    Hidalgo: Nobiluomo spagnolo di secondo rango in genere ambizioso ma anche insofferente per i suoi scarsi poteri.

    Inquisitori di Stato: I tre dignitari scelti tra i membri del Consiglio dei Dieci. Erano preposti alla sicurezza della Repubblica e detentori di segreti di Stato. Avevano grandissimo potere.

    Iuzbasci: Comandante di compagnia nell’esercito ottomano. Simile al capitano veneziano.

    Jinn: Spiriti infernali nella religione islamica.

    Kapudan pascià: Il comandante della flotta ottomana.

    Kizlar aga: Il capo degli eunuchi neri (schiavi sudanesi) dell’harem del sultano. Aveva la facoltà di essere ricevuto dal sovrano in qualsiasi occasione e dunque un immenso potere.

    Lanzichenecco: Soldato mercenario di lingua tedesca. Poteva essere uno svizzero, un bavarese, un tirolese ecc.

    Lanzo: Così venivano chiamato in Italia un abitante della Germania meridionale.

    Luigi d’oro: Moneta francese del peso di circa sette grammi. Molto apprezzata in Europa e nel Levante.

    Maestra: Vedi Albero di.

    Maggior Consiglio: Il parlamento riservato ai patrizi veneziani composto da circa duemila nobili. Eleggeva il doge ed era l’organismo legislativo della Repubblica.

    Maomettano: Definizione di musulmano usata dagli occidentali dell’epoca, ma sgradita agli islamici i quali considerano Maometto soltanto l’ultimo dei profeti.

    Maona: Grossa nave da carico che poteva agevolmente essere trasformata in nave da guerra simile a una galeazza.

    Marangone: Carpentiere maestro d’ascia per la costruzione delle navi.

    Marchio diabolico: Un segno, generalmente un neo, che doveva trovarsi all’interno delle cosce di una donna sospettata dall’Inquisizione di essere una strega.

    Meltemi: Vento dominante dell’Egeo proveniente da nord (Balcani) o nord-est (Anatolia).

    Mezzana: Vedi Albero di.

    Mezzanello: Piccolo albero di mezzana.

    Minor Consiglio: Sei consiglieri che affiancavano il doge e in qualche misura ne limitavano i poteri.

    Mirhab: Vano dalle pareti arrotondate all’interno di una moschea che indica la direzione della Mecca per la preghiera dei fedeli musulmani.

    Muda: Convoglio di navi, mercantili o militari.

    Mulazim: Ufficiale ottomano equivalente a un tenente.

    Mutesellim: Governatore di un distretto dell’impero ottomano.

    Nave tonda: Era così chiamato un galeone, un vascello o una fregata. Una unità a vela dalle alte fiancate anche utilizzata come mercantile.

    Nobile (da nave): Giovane patrizio veneziano imbarcato a quindici-sedici anni su una unità militare per apprendere l’arte della navigazione. Assimilabile a un guardiamarina.

    Oltramarini: Soldati veneziani arruolati nelle isole Jonie o lungo la costa dalmata o nella Grecia continentale.

    Oltramontani: Soldati veneziani mercenari arruolati al di là delle Alpi. Generalmente tedeschi e fiamminghi.

    Orta: Reparto militare ottomano di circa cinquecento uomini. Era comandato da un corbac.

    Para: Moneta aurea ottomana di circa un grammo.

    Pascià: Titolo attribuito ad altissimi dignitari militari e civili dell’impero ottomano.

    Pennone: Una grande e robusta asta che taglia l’albero di un veliero per reggere le vele.

    Petriera: Cannone che poteva lanciare anche pietre pesanti più di cento chili. La gittata era però modesta.

    Piastra: Grande moneta d’argento in uso nell’impero ottomano.

    Picca: Lunga asta terminante in una punta di ferro di vario tipo. Era usata da reparti addestrati per fermare le cariche di cavalleria nemiche.

    Picchieri: I soldati armati di picca.

    Piombi: Carcere di Venezia alle spalle del Palazzo Ducale. Si affacciava sul Rio di Palazzo e sul ponte dei Sospiri.

    Polena: Figura femminile scolpita e generalmente dorata o colorata che faceva parte della prua di una nave da guerra europea.

    Porta (Sublime): Veniva così definito l’ufficio del gran visir e prendeva il nome dalla principale porta d’ingresso ai padiglioni del Serraglio.

    Pregàdi: Il consiglio dei Pregàdi o Senato veneziano era formato da circa 200 membri – il Doge, i 6 membri del Minor Consiglio, i 21 Savi, i 40 della Quarantia, i Dieci, i 3 avogadori del Comun (una specie di avvocati dello Stato), i 6 procuratori di San Marco (carica prestigiosa e vitalizia), oltre a 60 membri eletti annualmente dal Maggior Consiglio e i 60 della Zonta (i senatori aggiunti).

    Provveditore: Alto funzionario civile o militare incaricato di provvedere a un dato servizio (alle armi, al vettovagliamento, alle navi, ecc.).

    Provveditore d’Armata: Il più alto grado della Marina veneziana dopo quello del comandante (il capitano da mar).

    Quarantia Criminal: Era formata da quaranta giudici in funzione di tribunale supremo. Ai suoi ordini era il capitan grande comandante dei duemila sbirri della città.

    Raki: Acquavite turca e greca a base di frutta aromatizzata con anice o menta.

    Rascona: Grossa imbarcazione a vela dal fondo piatto utilizzata per il trasporto delle merci nella laguna di Venezia o lungo i fiumi.

    Reggimento: Nell’esercito veneziano una unità oscillante tra i 250 e i 600 soldati. Era suddiviso in compagnie (da 5 a 10).

    Regno: Era quello di Candia che comprendeva l’isola di Creta e gli isolotti fortificati che la circondavano. Regno in quanto ceduto a Venezia nel

    XIII

    secolo dal re di Tessalonica, ma in realtà un ducato che la Serenissima considerava una colonia divisa in feudi affidati a nobili veneziani.

    Remero: Operaio dei cantieri navali specializzato nella costruzione e riparazione di remi e timoni.

    Rettore: Titolo attribuito al supremo magistrato di una città o di una fortezza. Anche il duca o governatore di Candia era chiamato rettore.

    Rinnegato: Un cristiano che aveva abiurato per convertirsi all’Islam.

    Rivellino: Fortificazione esterna alle mura, generalmente a freccia, che impediva di colpire una porta o una posizione debole con cannonate o colpi di ariete.

    Saica: Nave appoggio usata dagli ottomani sia per azioni militari sia per trasportare rifornimenti.

    Saltarello: Ballo popolare di moda nel Seicento.

    Savi: I ventuno dignitari della Serenissima incaricati di esaminare i problemi di politica estera.

    Scabino: Un leguleio o esperto di diritto.

    Schiavoni: Gli abitanti dell’interno della costa dalmata. In genere croati.

    Schipetari: Gli albanesi.

    Sciabecco: Piccolo veliero a tre alberi usato per azioni militari di minor rilievo o per il trasporto merci.

    Scotta: Corda utilizzata per manovrare le vele.

    Scudo: Tipo di moneta usato in molti paesi europei con valore, peso e forma diversi.

    Sentina: La parte infima della stiva dove si raccoglievano rifiuti o l’acqua penetrata a bordo.

    Serenissima Signoria: Attribuzione data al doge e al suo governo.

    Serraglio: Il complesso dell’harem del sultano e per estensione tutto l’insieme di palazzi e padiglioni che ospitavano gli addetti alla corte. Sovrintendevano all’harem la sultana validè, madre del sultano, e il kizlar aga, capo degli eunuchi neri. Ambedue, comunque, erano schiavi del sultano.

    Sfacchiotto: Abitante della zona montagnosa nel sud-ovest di Creta.

    Signori della Notte: Giudici e comandanti di polizia incaricati della sicurezza nella città di Venezia durante la notte e le feste.

    Sopracomito: Il comandante di una galea sottile. Era sempre un patrizio veneziano.

    Spahis: Cavaliere ottomano. In origine era un proprietario terriero obbligato a servire in cavalleria.

    Staia: Misura di capacità e di peso variante da paese a paese e da periodo a periodo.

    Sufi: Mistico musulmano.

    Sultana: Veniva spesso così chiamata ogni grande nave da guerra turca non ben identificabile.

    Talacimanno: Religioso musulmano assimilabile al muezzin.

    Tallero: Moneta europea esistente in vari stati con valore diverso. In genere il suo potere d’acquisto era tale da garantire il sostentamento di una persona per una decina di giorni.

    Tartana: Piccolo veliero con un solo albero.

    Tavola Reale: Gioco simile al backgammon.

    Tercio: Unità militare dell’esercito spagnolo formata da picchieri e moschettieri arruolati nella Vallonia, in Germania e in Italia.

    Terraferma (Dominio di): Le province venete e lombarde della Serenissima il cui potere decisionale sulle scelte della Repubblica era molto modesto.

    Tornese: Moneta di origine francese coniata in vari Stati italiani e con valori diversi.

    Trinchetto: Vedi Albero di.

    Validè sultan: La madre del sultano che regnava sul Serraglio.

    Vascello: Nave da guerra a vela originariamente ideata per i mari settentrionali e gli oceani ma che lentamente si era imposta anche nel Mediterraneo. Aveva molti cannoni sulle fiancate, a prua e a poppa.

    Venturiere: Soldato mercenario della Serenissima.

    Zecchinetta: Gioco d’azzardo con le carte.

    Zecchino: Moneta d’oro veneziana del peso di tre grammi e mezzo. Era particolarmente richiesta in tutto il Mediterraneo.

    Zerbinotto: Giovanotto molto attento all’eleganza e alla moda dall’atteggiamento affettato.

    Zontarolo: Un coscritto per la voga su una galea in tempo di guerra.

    PREMESSA

    La battaglia del Leone di Venezia è un romanzo di ambientazione storica che ha come sfondo la sanguinosa guerra di Candia, quinto terribile conflitto turco-veneziano. Una guerra protrattasi per ventiquattro anni, dal 1645 al 1669, che causò duecentomila morti. La Serenissima ebbe l’aiuto saltuario ma poco consistente di vari alleati tra i quali alcuni Stati italiani, i Cavalieri di Malta, qualche contingente papale e, nelle ultime fasi, di alcune migliaia di volontari francesi. Dal canto loro i turchi ebbero un rilevante aiuto dalle flotte dei corsari barbareschi nordafricani. Al termine furono gli ottomani a uscire vincitori dopo avere rischiato più volte di essere sconfitti. Ma sia per l’impero del sultano sia per la repubblica del doge, la guerra, con il suo enorme sforzo finanziario e il suo tributo di sangue, rappresentò l’inizio del declino.

    Gli episodi storici narrati nel romanzo sono documentati e il racconto è fedele a quanto realmente accaduto se si escludono le vicende personali dei protagonisti. L’impegno di Venezia per resistere alla proditoria invasione dell’isola di Creta fu grandioso, ma nel momento decisivo mancò ai governanti della Repubblica l’audacia per un ulteriore sforzo che avrebbe probabilmente capovolto l’esito dello scontro. Come giustificazione per questa incapacità di osare occorre ricordare che il regno, di Creta distava oltre duemila chilometri dalla laguna e la base avanzata di Zante si trovava a quattrocento chilometri. Invece Costantinopoli era a soli novecento chilometri e i suoi porti fortificati della Morea, l’attuale Peloponneso, non distavano più di cento chilometri. I combattimenti si svolsero anche in un teatro di guerra secondario, nell’immediato retroterra della Dalmazia, dove la Bosnia musulmana distava pochi chilometri dalle città veneziane dell’Adriatico.

    Il libro non narra soltanto di eventi bellici che videro come protagonista la flotta veneta. È anche un ritratto della società seicentesca con il suo sfarzo e le sue miserie. Lo splendore delle ricchezze di Venezia e del sultano suo nemico è offuscato dalla crudele schiavitù dei galeotti, dalla fame, dalla peste e dal tenebroso fanatismo dell’Inquisizione. Dietro la sfrenatezza del Carnevale e la lussuria dell’harem, il fondale presenta forti contrasti dove violenza, religiosità e dissolutezza si confondono in quello che è passato ai posteri come il secolo del Barocco.

    Infine, una nota. Il linguaggio e i comportamenti del Seicento erano molto diversi dai nostri. Aulico, retorico, con riferimenti continui alla religione e alla mitologia il primo; maschilisti, enfatici e roboanti i secondi. Pertanto, sono stato costretto a non tradirli del tutto ma al tempo stesso a tentare di modernizzarli: una via di mezzo che spero sia accettata dal lettore.

    Pireo, fine settembre 1687

    Questa volta sono stato visitato da un medico vero, non da uno dei soliti barbieri che curano i feriti a bordo delle galee, ognuno con i suoi decotti, i suoi impiastri, i suoi filtri, tutti diversi l’uno dall’altro e tutti quasi sempre inefficaci. Il medico mi è stato mandato dallo stesso Francesco Morosini, il Marte vendicatore degli oltraggi subiti per secoli dal Turco. Ha avuto il tempo e la benevolenza di pensare a un suo sottoposto infermo mentre sta assediando ad Atene la guarnigione ottomana. Per fortuna il medico ha escluso che si tratti di peste. Ce ne sono stati alcuni casi tra gli oltramontani tedeschi, forse perché contagiati da prigionieri turchi o dai miasmi provocati dal gran numero dei cadaveri di nemici rimasti insepolti. Sono assistito da un nobile, uno dei giovani patrizi imbarcati sulla mia galea. È riuscito a procurarmi cibo fresco acquistato dai contadini che affollano il porto per vendere i loro prodotti ai marinai. Inoltre, il capitano da mar mi ha fatto portare una tazza di brodo cucinato dal cuoco di bordo della sua capitana.

    Per quanto mi senta ancora debole, spero di essere sulla via della guarigione, perciò incomincio di nuovo a preoccuparmi di cose estranee alla mia salute. Infatti ho appena inviato a Morosini e al suo luogotenente svedese, il conte Von Königsmarck, un messaggio urgente per segnalare loro quanto ho appreso da un bombardiere. Sulla collina del Filopappo sono stati piazzati alcuni mortai predisposti per colpire la polveriera turca che si trova sull’Acropoli a meno di un miglio di distanza. Secondo quanto si dice, le polveri sarebbero in gran parte immagazzinate proprio all’interno del Partenone, che riesco ad ammirare in queste limpide giornate di primo autunno, distante soltanto poco più di quattro miglia dal Pireo.

    Non so come i nostri condottieri reagiranno leggendo quanto ho scritto. Ho usato una certa enfasi nel ricordare la bellezza di quel celebre monumento che si erge sulla città da duemila anni, ammirato nei secoli da imperatori, re, filosofi e artisti. Insomma, ho finto di informarli circa un pericolo che, sospetto, conoscono bene. Ecco perché potrebbe anche darsi che questa mia missiva non sia accolta con la sperata benevolenza.

    Intanto godo della brezza pomeridiana. Porta i profumi dei frutti autunnali frammisti all’odore di salsedine. Con gli occhi chiusi vado a ritroso nel tempo. Le immagini si moltiplicano nel mio ricordo finché qualcuna svanisce e qualche altra diviene più nitida. Ecco allora che rivedo alcune figure di ragazzi in un pomeriggio assolato e uno di loro sono proprio io. Ho diciotto anni.

    1

    Isola di Chio, inizio settembre 1644

    Se fossi nato in tempi e in luoghi remoti sarei stato un arciere. Magari uno di quegli egizi che dal loro carro di guerra saettavano infallibili sui nemici. Con l’arco sono infatti capace di vari esercizi di destrezza: voltarmi di scatto verso un bersaglio sconosciuto, gettarmi a terra e colpire con una freccia una sfera fatta rotolare, centrare per tre volte di seguito in un solo minuto un cerchio di pochi pollici distante almeno trenta piedi.

    Ero perciò sicuro di poter battere i miei amici mentre stavo a osservarli estrarre dalla faretra le loro frecce come fossero oggetti preziosi. Era l’inizio di settembre e mi trovavo sotto un pergolato carico di grappoli d’uva. Gli acini troppo maturi erano già sparsi per terra e venivano beccati dai polli. Dal lato opposto al punto dove stavo con Giorgio e Anastasios, vedevo mio padre discorrere con Giobatta Guglielmi, il padre di Giorgio. Sulla mia destra era il muro calcinato della grande casa, e in fondo potevo scorgere il golfo di Lithi con le cupole bianche delle poche case del villaggio e qualche vela di pescatori che sembrava immobile nel mare sullo sfondo dell’isola di Psara.

    Il caldo era ancora intenso sebbene il sole stesse già declinando da quella parte, appunto verso occidente. Avevamo scoccato una dozzina di frecce a testa e io ero in vantaggio. Dieci centri contro gli otto di Anastasios e i sette di Giorgio. Appoggiata al muro stava a osservare la gara Thea, la sorella minore di Anastasios, una ragazza di quindici anni che portava le trecce annodate sulla nuca legate da un nastro e un fiore bianco di narciso tra i capelli spartiti a metà della fronte. Ogni tanto la osservavo di sottecchi. Uno sguardo a lei mentre estraevo un dardo dalla faretra e un’occhiata al bersaglio. Thea mi piaceva molto. Era bruna, con una espressione che sembrava un po’ imbronciata e una bella bocca carnosa. Il suo viso era bianco con le guance rosa. Infatti lei faceva attenzione a non stare al sole. Anche quel pomeriggio se ne era rimasta nell’ombra ad accarezzare con la punta delle dita le foglie di una vite. Teneva le spalle arcuate all’indietro quasi dovesse spingere il muro e in quel modo mostrava il seno sporgente sotto il corpetto ricamato.

    Un’occhiata a Thea e socchiudevo gli occhi per mirare ai cerchi concentrici che Giorgio aveva disegnato con un gesso di allume. Ed era proprio di allume che mio padre e Giobatta Guglielmi stavano discutendo. Un carico stava per arrivare da Focea e sarebbe stato rivenduto in parte a Venezia e in parte a Genova, la patria dei Guglielmi. Il padre di Giorgio era un mercante facoltoso, capo di una delle famiglie genovesi che hanno dominato Chio prima dell’avvento dei turchi ma che continuavano a esercitare proficui commerci anche sotto il dominio del sultano.

    A pranzo Giobatta Guglielmi aveva ricordato con un certo orgoglio che un secolo prima i genovesi erano un quinto della popolazione dell’isola e certamente la parte più ricca e nobile. Dopo la conquista ottomana in molti se ne erano andati, ma erano rimaste ottantanove famiglie e nessuna di queste aveva avuto da dolersene. Oltre all’allume si potevano inviare al di là del mare grandi quantità di mastice. Veniva estratto dalle piante di lentisco presenti ovunque sull’isola. Avevo visto i lavoranti dei Guglielmi all’opera mentre incidevano i rami delle piante e ne raccoglievano la resina. Dicono che quelle palline grosse come piselli e trasparenti come ambra siano preziose e aiutino a guarire da numerosi malanni. Mio padre ne faceva incetta appena poteva grazie ai suoi corrispondenti in molte isole del mare Egeo. Non solo genovesi e veneziani. C’erano armeni, greci, ebrei e catalani, ma non turchi perché loro amano soltanto un’arte, quella della guerra, nella quale sono abili e spietati. Con tutte queste persone mio padre, come mi aveva spiegato qualche anno prima perché diventassi il suo aiutante, scambiava lettere di credito che sostituivano le monete d’oro. Era meglio non portarne troppe. Per un mercante, infatti, la prudenza è la qualità principale. Ci sono pirati che si nascondono nelle insenature delle isole e banditi che attendono i viandanti lungo le strade. Anche l’impero ottomano, nonostante la severità delle punizioni che infligge a costoro, non ne è affatto indenne. Le insidie sono ovunque, ripeteva mio padre mentre fumava. Tra le meraviglie (e, aggiungeva, le diavolerie) arrivate dalle Americhe era infatti quella che gli piaceva di più.

    A quell’epoca mio padre aveva già cinquant’anni perché si era sposato tardi e non aveva cercato nuove nozze dopo che mia madre era morta per darmi alla luce. Era un uomo massiccio con lunghi capelli grigi che gli fluivano sulle spalle. Le sopracciglia folte gli davano una certa aria inquisitrice. Poiché io ero il suo unico figlio mi aveva sempre portato con sé ovunque dopo essere stato allattato da una nutrice scesa a Venezia dalle montagne della Carnia.

    Nelle pause tra un viaggio e l’altro, mio padre leggeva una quantità di libri. Da giovane era stato affascinato dalle teorie di padre Sarpi. Ero ancora un ragazzo quando mi aveva raccontato che la Curia romana voleva morto quell’uomo coraggioso, ostile all’interdetto papale. Quando mi parlava di un suo soggiorno a Roma descriveva quella città come ostaggio dello splendore tenebroso della Curia che dopo il concilio di Trento era uscita rafforzata nei suoi vizi. Al pari del suo modello ideale, anche mio padre non cedeva a illusioni e suggestioni. Era freddo e misurato, un uomo pratico. Secondo lui i fatti esprimevano una logica inconfutabile mentre le opinioni sorgevano, maturavano, contrastavano e mutavano. Era solito dire: «Ci preoccupiamo più della forma che della sostanza, come se ci preoccupassimo più della montatura della panna che della qualità del latte». Sbeffeggiava il fraseggiare sontuoso e inutile. Non accettava che l’autorità sembrasse più importante della verità. «Siamo prigionieri delle nostre convinzioni e le difendiamo con caparbietà anche quando si rivelano false».

    A causa di queste sue opinioni si lamentava spesso che i traffici con il Levante erano inceppati, le colonie occupate o minacciate dai turchi, il commercio deviato al di là delle Alpi verso i mari settentrionali dove dominavano le flotte olandesi e inglesi. Ma soprattutto a preoccuparlo era l’asservimento dell’Italia alla Spagna, che riteneva una minaccia per l’indipendenza della Serenissima.

    «I nostri domini sono remoti», diceva, «e di mezzo c’è sempre il mare. La Spagna ci è ostile e trama congiure contro di noi. L’imperatore ancora di più». Tuttavia l’aspetto più importante della mia educazione, secondo lui, riguardava la capacità di far bene i conti. «Sono i numeri», sentenziava, «il motore del mondo. Chi li conosce e sa usarli è padrone del proprio destino». E, per spiegare ciò che intendeva, prendeva a fare esempi. Era importante saper calcolare le distanze e il tempo, i pesi e le misure, il denaro incassato e quello speso. E specialmente, grazie ai numeri, essere in grado di prevedere quanto sarebbe accaduto nel campo degli affari.

    Debbo confessare che, pur essendo diligente, non ero interessato ai commerci. Ero piuttosto appassionato ai racconti di avventure e ai poemi come La Gerusalemme liberata, che avevo letto e riletto più volte fino a ricordarne alcuni brani a memoria. Poi avevo l’arco. Nelle soste invernali tra un viaggio e l’altro al seguito di mio padre mi esercitavo nel giardino della grande casa di campagna che lui aveva acquistato nei pressi di Treviso. Avevo costruito un bersaglio con cerchi in legno di vari colori che al centro terminavano in uno dal diametro non più grande di mezzo pollice. Possedevo anche alcuni archi poco più lunghi di tre palmi ma che, quanto a precisione, non avevano nulla da invidiare a quelli inglesi.

    Quel pomeriggio Giorgio e Anastasios avevano usato archi di tipo ottomano, piuttosto diversi dal mio, e alla fine della gara si erano detti convinti che la mia vittoria fosse dovuta più che alla mia precisione di tiro proprio alla qualità dell’arma. Ci sarebbe stato motivo per una disputa, soltanto che negli occhi di Thea avevo letto adesione alle mie tesi e una certa ironia nei confronti di Giorgio e del fratello. Al punto che Anastasios se ne accorse e redarguì la sorella. Che cosa poteva capirne una ragazza delle armi degli uomini? Thea continuò a sorridermi e sembrava mi esortasse ad avere pazienza. Insomma, io ero il vincitore e se fossi stato un cavaliere in un antico torneo sarebbe stata lei la dama dalla quale avrei ricevuto il pegno.

    Appena finita la gara uscimmo per recarci alla caletta dove si ancoravano barche da pesca e piccole navi. Anastasios precedeva noi tre mentre ci inoltravamo in un viottolo tra casette che sembravano addormentate nella calura. Soltanto giunti nei pressi della piazzetta davanti al molo incontrammo gente e man mano che ci avvicinavamo al mare ci imbattemmo in una piccola folla. Pareva che tutto il minuscolo paese si fosse radunato e scendesse con noi verso il porto.

    Sbucammo da dietro il muricciolo sbreccato della chiesetta ortodossa. Sulla porta il pope era circondato da alcune donne e tutti stavano guardando verso un punto. Anche noi guardammo da quella parte. C’era una galea ottomana ormeggiata ad alcune bitte e prima ancora di scorgere i marinai fummo investiti dal fetore. I galeotti erano stati fatti scendere sul molo. Tutti incatenati stavano seduti a mangiare pane biscotto inzuppato in acqua di mare.

    Ci avvicinammo. Dal ponte della nave stava scivolando in acqua un liquido melmoso dal puzzo nauseabondo. Thea era rimasta indietro tappandosi il naso. Alcuni schiavi portavano secchi d’acqua e li rovesciavano sulla tolda. Sapevo che l’operazione era necessaria dopo giorni e giorni durante i quali i galeotti, avvinti ai loro scalmi, mangiavano, dormivano e facevano i loro bisogni senza muoversi. Non di rado morivano legati ai remi e i loro corpi venivano gettati in mare.

    Stavo a osservare la scena con un misto di disgusto e di pietà quando mi si avvicinò Giorgio Guglielmi.

    «È orribile». Mi indicò alcuni di quegli infelici coperti di piaghe e altri che non riuscivano neppure a mangiare.

    «Già», feci. «Presto alcuni di loro moriranno di stenti. Eppure spesso si tratta di uomini senza alcuna colpa. Gente che viaggiava per mare ed è stata rapita dai pirati».

    Non avevo finito quella frase che uno dei galeotti più vicini al punto dove io e Giorgio ci trovavamo agitò le mani verso di me. Rimasi attonito a guardarlo.

    «Fratello», mormorò lui con un filo di voce ma comunque ben udibile nel silenzio che circondava la scena. «Fratello», ripeté, «il tuo accento rivela che sei veneziano. Io sono un chioggiotto. Sono schiavo da otto mesi perché sono stato preso da una nave barbaresca mentre stavo pescando presso un’isola della Dalmazia».

    Otto mesi? Ricordavo che mio padre mi aveva detto che proprio all’inizio dell’anno erano state messe in mare decine di galee turche perché si unissero ai pirati algerini in modo da catturare navi degli infedeli. Le nazioni cristiane avevano reagito fiaccamente perché impegnate a combattersi tra loro. L’imperatore contro gli svedesi e gli spagnoli contro i francesi. Stavo appunto ripensando a quegli avvenimenti quando un altro galeotto si volse verso di me. Parlava con uno strano accento e usava alcune parole che riuscivo a capire soltanto per il senso del discorso. Disse di essere un brindisino, suddito del re di Napoli. Aveva portato le capre a pascolare non lontano dal mare quando era stato rapito. Aggiunse che c’erano duecento brindisini tra i prigionieri ma su quella galea erano soltanto in sette. Degli altri non aveva saputo più nulla. Molti erano certamente già morti.

    Poi parlò di nuovo il chioggiotto. «Sono incatenato insieme con questi uomini perduti. Se torni a Venezia vai a Chioggia e cerca la famiglia Micheletto. Forse potranno pagare un riscatto per me. Se non puoi tornare scrivi una lettera e affidala a qualcuno. Ti scongiuro! Non sopravvivrò all’inverno».

    Aveva appena terminato di parlare che un colpo di scudiscio lo fece urlare di dolore. Uno degli aguzzini che sovrintendevano ai galeotti si era avvicinato e lo batté altre due o tre volte. Il disgraziato Micheletto si coprì la testa tirandosi appresso le catene. Io ebbi uno scatto come per intervenire ma, per fortuna, Giorgio mi prese per un braccio.

    «Non c’è niente da fare», disse. «È la legge della marineria. La guerra di corsa è sempre in atto anche in tempo di pace. Quando si solca il Mediterraneo non si può mai sapere se si arriverà a destinazione, se si potrà essere liberi e felici o si dovrà finire la propria vita come schiavi ai remi. E finirla presto perché in quelle condizioni in pochi sopravvivono più di cinque anni». Ci fissammo stringendo le labbra. Poi lui aggiunse: «Per le donne non è meglio. Potrebbero divenire merce per la voluttà di qualche saraceno e dopo un po’ essere gettate in un bordello».

    Il guardiano, intanto, ci intimò di allontanarci e riprese a frustare i disgraziati prigionieri colpendo a caso anche chi stava tranquillamente sgranocchiando il proprio biscotto. Lanciai un ultimo sguardo a Micheletto e incrociai i suoi occhi imploranti. Intanto Anastasios ci invitò a seguirlo. Dopo pochi passi un vicolo sbucava su una spiaggetta e anche là c’era un assembramento di paesani. Dietro la siepe umana alcuni cumuli di pietre delimitavano uno spazio quadrato al centro del quale stavano due uomini. Erano coperti di sangue e si colpivano con le mani nude. La prima fila di spettatori era fatta da soldati. Si trattava di giannizzeri. Io stavo ancora pensando con raccapriccio a quanto avevo visto sul molo, ai derelitti senza speranza e tra loro il povero chioggiotto e il suo compagno brindisino, quando vidi quei guerrieri del sultano esultare. I due sventurati che offrivano lo spettacolo erano – come poi ci fu rivelato – prigionieri persiani condannati come gli antichi gladiatori del Colosseo a uccidere o a essere uccisi. I giannizzeri incitavano l’uno o l’altro e nel frattempo scommettevano su chi sarebbe stato il vincitore. I due lottatori sembravano sul punto di cadere a terra, ma continuavano a colpirsi ed era evidente che anche il sopravvissuto sarebbe uscito dal combattimento più morto che vivo. Pugni, calci, gomitate, tutte le percosse arrivavano lente ma poderose e risuonavano come tonfi sordi accompagnate dagli schiamazzi dei giannizzeri.

    D’istinto mi spostai davanti a Thea che si era coperta gli occhi con le mani. Giorgio e Anastasios seguivano invece affascinati lo spettacolo e così i paesani, anche se non avevano il coraggio di parteggiare per uno o l’altro dei contendenti per timore di offendere qualcuno dei soldati. Il mio amico greco, che aveva parlottato con uno spettatore, mi sussurrò all’orecchio che i due avevano poca voglia di battersi ma un corbac dei giannizzeri aveva detto ai persiani che avevano tempo un’ora per uccidere altrimenti sarebbero stati uccisi entrambi.

    Non seppi come finì quella lotta mortale perché a un tratto Thea decise di fuggire via, e poiché Giorgio la seguì subito (mi pareva evidente che le facesse la corte) anch’io mi unii a loro e ugualmente fece, anche se controvoglia, Anastasios Aristopoulos. Risalimmo verso la casa dei Guglielmi senza commentare quanto avevamo visto. Thea si mostrava turbata e io le sfiorai una mano. In cambio ne ebbi un sorriso e l’invito a vedere la sua colombaia. Giorgio che già la conosceva ci seguì con un atteggiamento sospettoso e il suo dispetto aumentò quando lei gli si rivolse per dirgli che io, con i miei capelli biondi un po’ ricci e gli occhi azzurri, assomigliavo a un angelo. Un complimento che gradii moltissimo ma che certo non fece piacere al mio amico genovese.

    2

    Giorgio Guglielmi fece un grande sforzo per nascondere la sua gelosia quando seppe che Thea sarebbe partita alla volta di Creta con la stessa nave sulla quale ci saremmo imbarcati io e mio padre. A quel tempo l’isola era il regno superstite posseduto dalla Serenissima dopo la perdita di Cipro e di Negroponte. Eravamo in pace con il Turco da quasi settant’anni e i traffici tra Creta e le isole ottomane dell’Egeo erano intensi e proficui per tutti. Al centro dell’arcipelago noi veneziani tenevamo l’isola di Tino, dove era sempre presente qualche galea bene armata della Repubblica. Erano in nostro possesso anche Cerigo e Cerigotto. Insieme con Creta erano la porta che si sarebbe chiusa davanti a un nemico che da oriente avesse voluto entrare nel mare Jonio.

    La nave sulla quale ci imbarcammo prima dell’alba nel porto di Chio era una grossa maona a tre alberi in grado di compiere in quattro giorni la traversata fino alla città della Canea tenendo conto che, per prudenza, la rotta non sarebbe stata quella diretta. Dal capitano, che aveva fatto molte volte quel viaggio, ci fu infatti spiegato che la nave non si sarebbe allontanata dalla costa dell’Asia Minore fino all’isola di Rodi, quindi sarebbe passata a settentrione di Scarpanto per poi seguire le rive settentrionali di Creta fino alla Canea.

    Thea Aristopoulos si recava a Creta per visitare una zia. Era anche la sua madrina dalla quale, sospettavo, si attendeva una ricca dote. A salutarla era venuto, oltre al padre, ricco possidente proprietario di vigneti e uliveti, alla madre e a suo fratello Anastasios, anche Giorgio Guglielmi. Con un’espressione di malcelato disappunto, le aveva regalato un libretto di preghiere dedicate alla Vergine Pammakaristos, che nella nostra lingua significa Madonna beatissima. Thea era accompagnata da una monaca sua lontana parente, due cameriere e un servo. Ci furono le consuete raccomandazioni e, in particolare, mio padre fu pregato di vegliare sulla piccola comitiva.

    La maona levò l’ancora alle prime ore del 26 settembre. Il mare era calmo e spirava soltanto una leggera brezza da terra che spingeva la nave verso la costa di Cisme. Il nocchiero era abile e uscì rapidamente dal canale che separa l’isola dalla terraferma. Durante il giorno veleggiammo in mare aperto e grande fu il mio piacere di poter trascorrere gran parte del tempo a conversare con Thea. Lei mi chiedeva a proposito dei gabbiani, dei delfini, dello scorrere delle nuvole e anche di antichi miti dei quali quel mare è la patria. In verità avevo la sensazione che di molte delle sue domande Thea già conoscesse la risposta. Quindi, alla sera, mentre la maona si era ancorata tra gli isolotti di Thimena e Fourni a occidente di Samo, ero giunto alla conclusione che a lei piacesse semplicemente parlare con me. Cenammo con le focacce preparate dalle cameriere e con il pesce pescato all’amo durante la giornata. Io bevvi vino resinato facendo attenzione a non sembrare ubriaco mentre le donne si limitarono all’acqua portata nelle otri.

    A un tratto, era l’ora per ritirarci – uso questo eufemismo valido soltanto per Thea e le sue accompagnatrici, che avevano avuto il privilegio di essere ospitate nel castelletto di poppa dove di norma dormiva il capitano – provai a trattenerla ancora per un po’. La monaca aggrottò le sopracciglia che si univano al centro della fronte e mi rivolse uno sguardo severo cui risposi con un sorriso disarmante: il più ingenuo che riuscii a mostrare. Così Thea ebbe il permesso di rimanere un po’ a guardare il cielo stellato. Eravamo appoggiati alla murata della nave. Io presi a descriverle gli astri che sapevo individuare. Sirio, Arturo e naturalmente Venere, non esitando a inventare di fronte a domande per le quali non conoscevo le risposte. Lei mi seguiva come se ascoltasse un oracolo e i suoi gridolini di meraviglia alimentavano in me il desiderio di farla ridere e gioire. Uno spicchio di luna era sufficiente perché io potessi vedere le espressioni del suo viso. Era scomparsa quella apparenza di fastidio che avevo notato in lei durante la nostra gara con gli archi. Teneva la bocca socchiusa come se volesse respirare meglio l’aria ancora tiepida e devo ammettere che all’improvviso mi sentii completamente preso da lei.

    «Se osservate bene il cielo», disse Thea a un tratto, «troverete molte stelle a formare un arco simile al vostro».

    Quella frase mi parve un segno del suo interesse per me. Infatti dissi: «Vi è piaciuta la nostra gara?»

    «Mi è piaciuto soprattutto che voi l’abbiate vinta», fece lei con gli occhi rivolti al mare.

    Rimasi senza fiato. Una serie di pensieri rapidi e fuggevoli mulinavano nella mia testa e si confondevano tra loro. Alla fine azzardai: «Credo di avere vinto perché voi eravate presente».

    «Addirittura?».

    Thea era stata più pronta di me a replicare.

    «Certo», feci. «Scoccavo una freccia e vi guardavo».

    «Non dite la verità. Se lo aveste fatto vi sareste distratto e non avreste centrato il bersaglio».

    «Invece era proprio così».

    «Ci credo poco. Voi siete abile. Avreste vinto comunque».

    «Anche contro Giorgio Guglielmi?»

    «Perché lui?». Thea si rivolse a me. Sembrava nuovamente imbronciata, ma poi si portò una mano davanti alla bocca per nascondere che stava ridendo.

    «Mi pare sia il vostro spasimante», azzardai.

    Lei scrollò le spalle.

    «Comunque lo avete battuto».

    «È il vostro spasimante?», insistei.

    Questa volta Thea non tentò di nascondere una risata squillante.

    «Giorgio?»

    «Vi sembra strano?».

    Lei rimase per un po’ in silenzio senza guardarmi. Ma a quel punto fummo interrotti da mio padre.

    «Dovresti permettere a questa ragazza di andare a riposarsi». Tossicchiò come aveva l’abitudine di fare quando voleva sottintendere qualche cosa d’altro. Mio padre aveva l’abitudine di impartire ordini usando sempre il condizionale. Quindi mi resi conto che non potevo obiettare nulla. Anzi, prima ancora che Thea dicesse qualche cosa, aggiunsi a mia volta che era troppo tardi e la monaca avrebbe avuto a ridire con me.

    «Oh, la sorella Elena», fece lei con il tono di chi aveva capito la situazione. Mi porse una mano che per l’emozione non feci in tempo a stringere come avrei voluto. Fece un inchino a mio padre e si diresse verso il castelletto di poppa.

    «Una creatura deliziosa». Mio padre stava seguendola con lo sguardo. «Ora cerca di dormire anche tu. Ci sono alcune amache a prua e sotto l’albero di maestra. Domani dovremo parlare un po’ più in dettaglio delle cose da fare alla Canea. Vorrei affrettarmi con i contratti per poter rientrare a Venezia prima delle tempeste autunnali».

    In effetti sapevo che avremmo venduto parte del nostro carico di allume e mastice ad alcuni mercanti cretesi che agivano da intermediari per vari Paesi europei. Il resto della merce era destinato al mercato di Rialto. Quindi ubbidii a mio padre e, trovata un’amaca libera, mi ci stesi dondolandomi. Però non riuscivo a chiudere gli occhi. Il mio sguardo vagava nel cielo stellato come se cercassi tra gli astri una risposta alla domanda che continuavo a pormi. Thea Aristopoulos era davvero interessata a me?

    Trascorsi gran parte della notte a ricostruire i nostri incontri. L’avevo conosciuta per la prima volta una domenica appena uscito dalla chiesa cattolica della Magnifica Comunità latina dove avevo assistito alla messa celebrata dal vescovo Soffiano. Anche lei era uscita da una chiesa ma era quella degli scismatici greci, in maggioranza sull’isola. Ero rimasto subito colpito non solo dal suo aspetto, ma in particolare dal suo modo di muoversi. Avevo avuto l’impressione che i suoi fossero passi di danza. C’era una eleganza morbida nel suo sfiorare gli oggetti e nell’evitare gli ostacoli. Poi mi era immediatamente piaciuto il suo viso, un musetto smorfioso lo aveva definito mio padre per quella espressione di un fastidio, una scontentezza appena accennata che, ne ero certo, nascondeva il desiderio di attirare l’attenzione. In seguito l’avevo incontrata altre volte. Durante una visita alle vigne degli Aristopoulos insieme con Giobatta Guglielmi e il figlio Giorgio. Un pomeriggio avevamo passeggiato in gruppo lungo la scogliera di Lathi dove lei aveva raccolto conchiglie con la stessa grazia con la quale si toccano le gemme. Infine Thea aveva assistito alla nostra gara con l’arco. Lei aveva esordito affermando che si trattava di un’arma ormai troppo antica. Ma io non mi ero scoraggiato. Anzi, avevo colto l’occasione per parlarle delle mie frecce. Erano più precise e rapide del fuoco di un archibugio anche se, ero costretto ad ammetterlo, l’uso dell’arco era più faticoso. Thea mi era stata ad ascoltare come se avesse appreso per la prima volta chissà quali verità. Poi era rimasta a guardare la nostra gara in silenzio con il busto proteso in avanti e le spalle spinte indietro contro la parete. Ogni tanto si sistemava il fiore di narciso tra i capelli. Sceglieva qualche ciocca per scioglierla e riannodarla in una nuova treccia. Ora quella immagine, nella notte settembrina, mi pareva la rappresentazione più esatta del desiderio. Ecco, pensavo prima di addormentarmi, io desideravo quella ragazza.

    Il levare del sole insieme con il rumore dei marinai alle vele mi svegliò. La maona salpò poco dopo mentre io continuavo a guardare in direzione del castelletto di poppa dove da un momento all’altro speravo di vedere Thea. Ma lei tardò di oltre un’ora e quando uscì allo scoperto si sedette su una panca presso la fiancata di sinistra, dalla parte opposta a quella dove io mi trovavo. Rimasi sconcertato. Non sapevo se avrei dovuto recarmi da lei che distava soltanto pochi metri ma mi volgeva la schiena oppure rimanere ad aspettare. Infine scelsi di attendere, ma mentre guardavo il mare con distrazione mi auguravo che da un momento all’altro Thea mi si avvicinasse.

    Però ciò non avvenne. Non so quanto tempo rimasi in quella posizione. A fianco della nave balzavano i delfini mentre i gabbiani si tuffavano tra le onde per pescare le loro prede. Ben presto passammo al largo di Patmo con la rotta verso mezzogiorno. Poiché era ormai trascorso un bel po’, decisi di arrendermi e di andare a salutarla. Ma quando mi voltai – e confesso che provavo una certa emozione – scoprii che lei non era più accanto alla murata. Dove fosse naturalmente non lo sapevo ma non era difficile immaginarla rifugiata al coperto per evitare i raggi del sole ancora forti. A giudicare dal suo aspetto doveva tenere molto al bianco della sua pelle.

    Man mano che passava il tempo mi accorgevo che l’assenza di Thea mi dava una specie di languore che mi prendeva allo stomaco, al punto che mangiai poco e rimasi seduto a lungo tra i cordami a pensare a tutto e a niente. Fu mio padre a interrompere le mie inutili meditazioni. Lo vidi accomodarsi in precario equilibrio accanto a me ed estrarre da una borsa un pacco di carte. Erano lettere di credito e ordinativi. Poi una grande quantità di conti che lui faceva di persona perché non si fidava di alcun contabile.

    «Se riusciremo a vendere bene l’allume e il mastice, almeno quello che non intendiamo portare a Venezia», esordì, «potremo acquistare molti orci di olio buono e almeno un ventina di sacchi di uva sultanina. Ho calcolato un profitto di cinquecento ducati». A un tratto, però, si accorse che non lo stavo seguendo.

    «Sarebbe utile che mi ascoltassi», mormorò usando il solito condizionale. Poi mi indicò sulla linea dell’orizzonte verso oriente un’isola. «È Lero», fece, «l’isola della dea Diana. Secondo gli antichi proteggeva i cacciatori». Rimase a fissare da quella parte come per cercare chissà quale ispirazione. Soltanto dopo un po’ disse: «Non ho visto la giovane Aristopoulos. Si è già stancata di te?».

    Fu come se una delle mie frecce mi avesse colpito al petto. Reagii d’istinto.

    «Perché mai dovrebbe occuparsi di me?», domandai.

    «Mi pareva che aveste molto da dirvi, ieri sera». Sul suo viso un accenno di sorriso ironico.

    Feci spallucce.

    «Niente di importante. Parlavamo della gara di tiro con l’arco».

    «Ah, eccellente argomento. I tuoi dardi sono sempre precisi, anche se non ho ancora capito il motivo del tuo interesse per quell’arma. Spero che non vorrai diventare un guerriero. Ricorda che un giorno tutto quanto abbiamo sarà tuo. Potrai vivere comodamente in un bel sestiere di Venezia e avere una bella moglie». Quindi si fermò un istante. «Per conto mio potrebbe anche essere la Aristopoulos. La sua è una famiglia di sudditi del sultano, però sono abbienti e cristiani. Scismatici ma cristiani. Meglio che turchi».

    Quindi, pensai, anche mio padre aveva notato il mio interesse per Thea. Forse non era troppo difficile indovinarlo.

    «Anche i Guglielmi sono sudditi del sultano», bofonchiai.

    «Sì, lo so». Mio padre annuì come se approvasse la cosa. «In queste isole sono tutti sudditi del Turco, da cent’anni a questa parte, ed è una fortuna».

    «Perché una fortuna?»

    «Perché evitano di essere depredati dai barbareschi come invece accade a molti borghi marini in Italia».

    Era vero. Pensai al povero Micheletto e al pastore pugliese. Così raccontai a mio padre di quel triste incontro.

    «Gente sfortunata», disse lui dopo essere rimasto per un po’ sopra pensiero. «Non credo potranno mai rivedere la libertà. I barbareschi chiedono riscatti esosi e, in genere, intavolano trattative soltanto se si tratta di un nobile per il quale possono ottenere centinaia di ducati, ma di quelli d’oro. In Barberia quei denari vanno in parte al bey di Tunisi o ai dey di Tripoli e di Algeri e in parte sono destinati alla costruzione di nuove navi con le quali moltiplicare le loro scelleratezze. Il bey di Tunisi possiede palazzi, montagne d’oro e d’argento e centinaia di schiavi. Li sceglie tra i neri più robusti e i cristiani più belli per i suoi piaceri perversi».

    Mio padre respirò a pieni polmoni.

    «Tu che hai studiato sai che questi mali provengono dal giorno in cui i seguaci di Maometto hanno conquistato l’Africa. Venivano dal deserto e non conoscevano il mare, al punto che provarono a berne l’acqua. O almeno è quanto si racconta».

    Seguì una risata. Mi porse un pane ripieno di formaggio piccante. Era il primo pomeriggio e ormai la sagoma di Lero si stava confondendo con quella della vicina Calimno, mentre dietro le due isole stava apparendo la grande Coo.

    Mio padre la indicò dicendomi che era il luogo dove era nato Ippocrate, l’inventore della medicina. La maona intanto procedeva a vele spiegate. Il vento di grecale bilanciava la brezza pomeridiana che spirava da occidente. Ma, mentre conversavo con mio padre e ogni tanto aiutavo qualcuno dell’equipaggio, non mancavo di gettare lo sguardo verso il castelletto di poppa. E alla fine fui premiato. Infatti, era appena passata la quarta ora del pomeriggio quando Thea uscì all’aperto accompagnata dalla monaca.

    Rimasi incerto se muoverle incontro o attendere appoggiato alla murata. Fu mio padre a risolvere la situazione. Con un ampio gesto delle braccia si rivolse alla monaca.

    «Sorella», esclamò, «spero non abbiate a soffrire il mare».

    La monaca ringraziò per l’attenzione mentre Thea rimaneva immobile al suo fianco.

    «Noto che la signorina Aristopoulos», aggiunse lui, «ha un ottimo aspetto. Evidentemente la navigazione non le dispiace».

    «No, certo signore». Thea aveva risposto prontamente e con voce squillante. Colsi l’occasione per infilarmi nella conversazione.

    «È l’aria marina a essere salubre», feci, e subito mi vergognai per la banalità del mio intervento. Tuttavia lei sembrò apprezzare il fatto che avessi parlato perché indicò proprio me.

    «Alla fine del viaggio il signor Marco Civran diventerà simile a un moro ma i suoi capelli saranno sempre più chiari. È stato tutto il giorno al sole».

    Quindi, pensai, Thea mi aveva guardato senza essere vista. Fui colto da una grande contentezza.

    «È per vedere il panorama», feci. «Queste isole sono magnifiche». Quindi presi a elencare le bellezze che mi erano state descritte proprio da mio padre. In passato lui le aveva visitate tutte. Gli chiesi così di raccontare le sue avventure proprio a Calimno. Thea non avrebbe potuto rifiutarsi di ascoltarlo.

    A mio padre piacevano le descrizioni. Conosceva l’arcipelago come pochi. Così prese a ricordare di avere visto all’opera, in uno dei suoi primi viaggi, i pescatori di spugne, che nel mare di fronte all’isola si trovano numerose. Non solo ne aveva acquistate in grande quantità ma si era anche fatto spiegare come fosse possibile rimanere per tanto tempo sott’acqua senza respirare.

    In ogni passaggio della narrazione lui aggiungeva particolari e da ogni particolare risaliva ai particolari del particolare. Il tutto era accompagnato da gesti ed esclamazioni che inducevano chi ascoltava a credere di trovarsi a sua volta protagonista dell’avventura. Quella era una tecnica che usava anche nelle trattative commerciali. Alla fine le sue controparti erano come ubriacate dalle parole e generalmente finivano per accettare le condizioni proposte da mio padre.

    Mentre lui parlava io un po’ lo seguivo ammirato e un po’ osservavo le reazioni di Thea. Era come affascinata e attentissima. Così io mi proponevo di rammentare i passaggi più interessanti per poi farne oggetto di conversazione con lei. Anche la monaca stava ad ascoltare con interesse. Quando l’avventura diventava emozionante – mio padre aveva descritto la difficoltà di un pescatore per strappare la spugna dallo scoglio prima che gli mancasse il fiato – vedevo le sue dita stringersi intorno al crocifisso d’argento che portava al collo.

    Mio padre parlò a lungo. Riusciva a non annoiare mai. Nel frattempo la maona aveva doppiato il capo di Coo volto a libeccio e puntava verso Nikia. I racconti sulle avventure dei pescatori di spugne finirono ed eravamo già nei pressi dell’isola dove il capitano fece ancorare la nave al riparo di una caletta.

    Era dunque la seconda serata che passavamo a bordo e io speravo, con una certa emozione, di poter trascorrere nuovamente un po’ di tempo con Thea. La monaca offrì a me e a mio padre alcuni dei cibi che aveva portato da Chio e questo fu un ottimo pretesto per rimanere accanto alla ragazza. Per quanto le provviste preparate dalla signora Aristopoulos fossero ben più gustose del rancio della nave, mangiai senza neppure accorgermi di quanto stavo mettendo in bocca. Mi concentrai nel tentativo di essere brillante e gentile evitando di sembrare troppo preso da Thea. Anzi, mi rivolgevo a lei non più di quanto facessi con la monaca o con mio padre. Non volevo apparire una preda troppo facile della quale ci si può annoiare presto.

    Dopo cena mio padre si recò a prua a chiacchierare con il capitano mentre la monaca si ritirò per le sue preghiere serali. Il sole era appena tramontato e il mare di fronte a noi stava cambiando colore. Era chiaro, quasi perlaceo, per poi divenire roseo e infine violetto e scuro, finché fu possibile scorgere soltanto qualche minuscola spuma che si allungava sulla spiaggetta.

    Chiesi a Thea del suo viaggio alla Canea e di quanto tempo si sarebbe trattenuta a casa di sua zia. Lei si limitò a qualche risposta generica ma a un tratto domandò: «Voi, Marco, quanto tempo rimarrete?».

    Era la prima volta che mi chiamava per nome rivolgendosi direttamente a me e in quel momento il suo suono mi sembrò il più armonioso immaginabile.

    «Fino a quando mio padre avrà concluso i suoi affari». Parlai a bassa voce come se la risposta non mi piacesse.

    «E poi tornerete a Venezia?»

    «Temo di sì». Trovai un tono ancora più mesto.

    «Non sembrate affatto contento. Non vi piace rivedere la vostra città? Dicono che è una delle più belle e allegre del mondo».

    «Lo è infatti».

    «Allora? C’è qualche motivo per il quale non vorreste tornare?».

    In quel momento ero sicuro che Thea avesse capito bene ciò che pensavo. Rimasi per un po’ interdetto. Poi dissi: «Non credete di conoscerlo?».

    Thea piegò la testa da un lato mentre mi squadrava. Come se, così facendo, riuscisse a carpire i miei pensieri.

    «Io? Dovrei conoscerlo? E perché?»

    «Perché è facile indovinarlo», dissi d’un fiato.

    «Non mi pare. Inoltre io non sono abile a risolvere gli enigmi, forse potete aiutarmi voi rivelandomelo».

    Rimasi interdetto. Non ero certo di fare bene, ma mi ero spinto troppo avanti. Quindi dissi: «Il motivo siete voi».

    Questa volta Thea mostrò un’espressione strana. Poteva nascondere il piacere del successo ma anche un po’ di fastidio. Rividi il suo viso imbronciarsi e la testa piegarsi in giù a guardare il tavolato del ponte. Poi prese a sciogliersi una treccia e a riannodarla.

    «Volete lusingarmi, ma non siete sincero», disse dopo un po’.

    «È il contrario», protestai. «Sono sincero ma altrettanto convinto di non lusingarvi».

    «Allora perché me lo avete detto?»

    «Perché certi desideri non possono essere trattenuti troppo tempo».

    «Eppure», disse Thea, «qualche volta è necessario».

    Era una risposta sibillina. Non capivo che cosa lei volesse intendere. Attesi qualche istante prima di dire: «Ci sono molte ragioni perché mantenere il silenzio sia necessario. Per prudenza o per non mettere in imbarazzo gli altri. Oppure semplicemente per evitare umiliazioni. Perché secondo voi avrei dovuto tacere?»

    «Secondo voi?»

    «State rispondendo a una domanda con un’altra domanda». Provavo a vedere la sua espressione, ma la lampada appesa a un pennone seguiva il dondolio della nave cullata dal movimento delle lievi onde. Gli occhi di Thea apparivano per un attimo per poi scomparire nuovamente nell’ombra. Allora aggiunsi: «Probabilmente non volete umiliarmi».

    Ero in piedi con una mano appoggiata sulla murata. A un tratto sentii le sue dita appoggiarsi sulle mie.

    «La risposta non è questa», mormorò soltanto.

    3

    Una maona è una grande nave. Può trasportare fino a cinquemila staia di grano o diecimila orci d’olio. La nostra era anche armata con alcuni cannoni e infatti a bordo, oltre ai marinai, c’erano una ventina di bombardieri. C’erano anche altrettanti archibugieri. Si trattava di gente originaria del Ponto dall’apparenza indolente. Se ne stavano tutto il giorno sdraiati a giocare a dadi, occupazione interrotta soltanto dalle cinque preghiere dei maomettani. Non tutti erano seguaci del Profeta. Almeno una mezza dozzina erano i cristiani scismatici. Sedevano in disparte e sembravano non adorare alcuna divinità.

    Nonostante la sua forma tozza e la chiglia abbastanza profonda

    Ti è piaciuta l'anteprima?
    Pagina 1 di 1