Volontà
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Info su questo ebook
Una madre, un padre, un figlio e l’indagine di una procuratrice. Un caso giudiziario diventa lentamente esplorazione delle coscienze di tutti i personaggi e delle loro contraddizioni. Si può trasformare il dolore in bellezza? Con quali parole si pronunciano l’assenza e la perdita? La narrazione di ognuno ha un abisso dal quale riemergere. Per tornare in superficie è necessario nuotare con forti bracciate, uscire allo scoperto, riprendere fiato e poi ripartire.
Olimpia De Girolamo
Olimpia De Girolamo nasce a Napoli dove cresce e si laurea in filosofia con indirizzo storico politico presso l’università degli Studi Federico II. Approfondisce i suoi studi in linguaggi cinematografici seguendo numerosi corsi di specializzazione post lauream in Italia e in Francia. Continua la formazione da attrice tra Napoli, Roma, Torino e Milano fino ad approdare all’Agorà Teatro di Magliaso nel 2014 di cui diventa co-direttrice artistica, formatrice e responsabile delle ultime rassegne annuali. Frequenta con borsa di studio i corsi della scuola internazionale per creativi “Università dell’Immagine” di Milano e intraprende una specializzazione in drammaturgia teatrale seguendo le open class della Paolo Grassi di Milano e aderendo al laboratorio permanente dell’ATIR Teatro Ringhiera. Si occupa di laboratori scolastici teatrali per evidenziarne la valenza didattica e insegna italiano nella scuola media. Con la sua prima opera teatrale “La Mar” è finalista al Premio Donne e Teatro a Roma nel 2017 (testo pubblicato per Borgia Editore e presente nella biblioteca virtuale del Teatro-i) e vince il Premio Fersen a Milano nel 2018. Previsto nel 2022 il conseguimento del Master in Pedagogia e Didattica Teatrale presso il Centro Psicopedagogico Studi e Ricerche “OIDA” di Napoli in collaborazione con il Centro di Formazione Teatrale “Cantieri Stupore” e si specializza ulteriormente nel suo ruolo di formatrice teatrale. Sempre nel 2021 vince il Premio Open Net delle Giornate Letterarie di Soletta con il racconto “Il primo scalino: l’assalto del passato” che diventerà il romanzo “Tutto ciò che siamo stati”.
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Anteprima del libro
Volontà - Olimpia De Girolamo
Volontà
di Olimpia De Girolamo
Copyright 2024 Gabriele Capelli Editore
Gabriele Capelli Editore
ISBN 978-88-31285-75-9 (ePub)
Immagine di copertina:
Lassedesignen – shutterstock
Prima edizione GCE aprile 2024
Pubblicazione sostenuta da
Pro Helvetia, Fondazione svizzera per la cultura
La casa editrice Gabriele Capelli Editore beneficia di un sostegno
dell’Ufficio federale della cultura per gli anni 2021-2024.
Olimpia De Girolamo nasce a Napoli il 6 settembre 1975. Laureata in Filosofia e specializzata in linguaggi teatrali e cinematografici, vive dal 2002 in Svizzera dove insegna italiano e si occupa di teatro come autrice, attrice e formatrice. È co-direttrice artistica dell’Agorà Teatro di Magliaso, uno spazio di ricerca e di formazione fatto edificare nel giardino della sua casa nel 2005. Con il monologo teatrale La Mar vince il Premio Fersen (Milano) ed è finalista al Premio Donne e Teatro (Roma). Nel 2021 vince il Premio Opennet nell’ambito delle Giornate Letterarie di Soletta con il racconto Il primo scalino: l’assalto del passato che diventerà il romanzo Tutto ciò che siamo stati edito nel 2022 da Gabriele Capelli Editore. Nel giugno 2023 svolge la residenza artistica di scrittura nell’ambito del progetto internazionale Cultivate La Baldi. Nella primavera del 2023 vince la Borsa di creazione letteraria di ProHelvetia.
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A mio fratello Luigi
Nessuna lista di cose da fare. Ogni giornata sufficiente a se stessa. Ogni ora. Non c’è un dopo. Il dopo è già qui. Tutte le cose piene di grazia e bellezza che ci portiamo nel cuore hanno un’origine comune nel dolore. Nascono dal cordoglio e dalle ceneri. Ecco, sussurrò al bambino addormentato. Io ho te.
Cormac McCarthy, La strada, Einaudi
*
I lampioni disegnavano lame di luce sull’asfalto bagnato. Pioveva. Suonarono alla porta alle quattro di mattina ed Elena fu sorpresa nel sonno. Stava sognando di suo padre e di sua madre durante un viaggio al mare di molti anni fa. La macchina si trovava proprio sulla spiaggia e mentre era lì, bambina, a chiedersi come ci fosse arrivata sulla rena umida della riva del mare, aveva cominciato a sentire il suono del campanello. Si era alzata, scalza e arruffata. Da anni abitava da sola, dal divorzio con Arturo. Il figlio Giacomo, appena compiuti i sedici anni, aveva deciso di stabilirsi col padre e lei aveva dovuto abbracciare la solitudine e il fallimento di essere stata scomoda anche al figlio oltre che al padre. Erano arrivati in due. Avevano gocce di pioggia sulle spalle e sul feltro dei cappelli. Appena l’avevano vista si erano tolti il berretto e si erano presentati. Lei sentiva le parole senza capirle, le vedeva rotolare nell’aria, oggetti evanescenti, lucine di Natale in lontananza. Restava immobile come un cane in agonia.
Le avevano chiesto di seguirla e le avevano detto che doveva mettersi qualcosa addosso, che doveva andare con loro, non c’era bisogno che prendesse la sua macchina, l’avrebbero accompagnata anche al ritorno.
Elena si ritirò nel corridoio buio, sbatté col piede contro lo spigolo del mobiletto dell’ingresso, quello che le aveva lasciato in eredità sua madre, era di legno scuro, mogano antico, dove appoggiava le chiavi appena entrata per non doverle stupidamente cercare in tutto l’appartamento il giorno seguente. Con un mugolio di dolore si addentrò in camera da letto. Prese il cellulare e vide le chiamate di Arturo. Erano dieci. Si infilò il maglione bordeaux che stava buttato sulla sedia e i soliti jeans. Si allacciò le scarpe e poi, prima di chiudere la porta, afferrò la giacca con cappuccio, perché fuori fa freddo e piove, avevano detto loro.
Solo in macchina si rese conto di non aver preso la borsa coi documenti. E nemmeno le chiavi. Stringeva solo il telefono. Lampeggiavano sul display le dieci chiamate perse. Fuori la strada sbiadiva nella pioggia battente. Il vetro opaco le trasmetteva la vista della sua faccia stanca, dei suoi capelli in aria.
La macchina si fermò. Camminarono in un lungo corridoio con le luci al neon. Le pareti erano di un giallo paglierino, in alcuni punti c’erano dei rappezzi di pittura, forse per coprire un buco o qualcos’altro. Si fermarono di colpo davanti a una porta di legno laccato di marrone. Dovevano averla ridipinta da poco, si sentiva ancora l’odore della vernice. La lasciarono fuori e loro entrarono. Il neon sopra alla sua testa vibrava, come se stesse per fulminarsi. L’intermittenza della luce le faceva sentire un tremolio nella palpebra destra. Se ne restava immobile e sospesa come si può stare quando vieni prelevata in piena notte per essere condotta non sai dove e nemmeno per quale motivo. Si aprì la porta. Uscì Arturo. Lei lo guardava come si guarda un’ombra sul muro di un corpo assente dalla stanza. Un fantasma.
Il colpo all’addome la fece piegare in due. Non era stato un pugno o un calcio, era stata la notizia che dalle orecchie era passata direttamente nella pancia e gliela stava squarciando. Si era accasciata per terra senza dire, ma con l’aria che le traboccava dal petto. Cercarono di prenderla, di rimetterla seduta. Elena non si ricordava più di poter stare seduta o in piedi. Sentiva il corpo molle e perso, come quei pupazzetti di legno con le giunture legate che se premi un bottone al di sotto della base, il corpo si scompone e diventa deforme. Elena era deforme adesso, era nel gelo di parole inattese che parlavano di forse e non si sa.
Il fatto successivo accadde altrove. Dovettero risalire in macchina e attraversare altri corridoi nei sottofondi di un palazzo. Le mostrarono un sacchetto trasparente dove stavano scarpe rosse Jordan, una felpa Octopus e altre cose piccole, tra cui spiccava la catenina d’argento con la G. Non poteva portarseli via, sarebbero serviti per le indagini. Mentre le mostravano nel cellophane ciò che restava di suo figlio, Elena, poggiandosi al braccio di Arturo, dovette riconoscere nel corpo morto disteso sul marmo Giacomo e i suoi diciotto anni. Non lo vedeva nudo dai tempi delle medie.
«Non è mio figlio», disse, ma nessuno sentiva. «Non è mio figlio, non è mio figlio!», urlava, e Arturo le mise una mano sulla bocca per farla tacere.
«Signora, lo deve riconoscere, senza riconoscimento non possiamo avanzare con le indagini. Lo deve riconoscere. Signora lo conosce o no? È Giacomo questo o no? Signora? Signora?»
Elena lo guardava tutto questo figlio, i muscoli dell’addome sgonfio perché senza più aria, il viso tumefatto, un occhio in fuori e l’altro talmente gonfio da essere sparito. Sotto le costole, nel lato destro, c’erano segni neri e tondi. Ripensava alle aureole che disegnava con lui quando era bambino. Tamponavano con una spugna gli acquerelli sulla carta Fabriano rilasciando impronte di colore che sembravano corolle sfocate di fiori.
I polsi erano segnati con una linea rossa e le dita delle mani erano livide. Elena passava gli occhi su tutto il figlio nudo, persino sul suo sesso grande da