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Lei, Lui e l’Altro
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Lei, Lui e l’Altro
E-book515 pagine4 ore

Lei, Lui e l’Altro

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Info su questo ebook

“Tutte lo abbiamo vissuto. Da quando ci piaceva il più bello della scuola che ignorava persino la nostra esistenza, no al momento in cui i nostri occhi si sono soffermati un attimo di troppo su un vicino di casa, quello carino che sembra anche tanto simpatico. L’amore a senso unico fa soffrire a qualsiasi età e il più delle volte si tratta di ossessione. Mia nonna lo dice sempre: se non è amore al primo sguardo, non lo sarà mai. Io e il mio Adorato di sguardi ce ne siamo scambiati tantissimi, ma non è ancora successo niente. Né succederà, non è destino! continua a ripetermi insistentemente la saggia vocina dentro la mia testa. Ma ci sono volte in cui al destino bisognerebbe dargli una piccola spinta, no?” Genni cambierà gradualmente idea quando nella sua vita entrerà un ragazzo bello come il sole e con un’intelligenza fuori dal comune, che inizierà a farle la corte. Ben presto il suo amore a senso unico verrà dimenticato, complice anche l’indifferenza che l’ormai quasi per niente Uomo dei suoi sogni le dimostra e a cui, prima dell’incontro con Giovanni, non voleva assolutamente rassegnarsi. Perché in fondo lei sogna, come tutte le sue coetanee, di trovare qualcuno che la ami a sua volta e le doni quella felicità affettiva che ritiene di meritare.
LinguaItaliano
Data di uscita2 nov 2016
ISBN9788892635036
Lei, Lui e l’Altro

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    Anteprima del libro

    Lei, Lui e l’Altro - Eugenia Guerrieri

    1

    LEI

    Non sono granché soddisfatta del mio primo colloquio. Mi hanno assunta, ma i miei datori di lavoro non mi convincono proprio. Due cafoni, marito e moglie.

    Lui è grasso come un maiale, rozzo, con due occhi piccoli e cattivi in una faccia troppo larga. Lei è piccola, magra e ha un viso antipatico. Sembra più vecchia della sua età, nemmeno mia nonna ha tutte quelle rughe.

    Ero già stata lì d’estate, con mio padre, per comprare una macchina a mio nome. In quell’occasione avevo visto soltanto la concessionaria, non l’ufficio vero e proprio. Ma era in ufficio che mio padre mi ha detto che avrei dovuto presentarmi alle 16.30.

    Il suo amico Alberto Giuliani – il grassone – cercava una collaboratrice e si era detto disposto ad assumermi, sempre se avessi avuto i requisiti adatti. Toccava a me fare una buona impressione, non a loro.

    Mansioni di segreteria, niente di troppo difficile o impegnativo. Alberto Giuliani me le ha illustrate con aria annoiata, praticamente senza guardarmi in faccia: rispondere al telefono, aprire la porta, fare le fotocopie, smistare la posta, scrivere le lettere a macchina… e se la loro ragioniera avrà tempo da dedicarmi, potrò cominciare ad imparare i primi rudimenti della contabilità.

    Alle 16.45 ero già fuori. Il colloquio è durato più o meno un quarto d’ora, mi hanno assunta sulla parola. Quella di mio padre.

    Voglio essere sincera: sono contenta di aver trovato un lavoro, ma quella gente e quel posto non mi piacciono per niente.

    Innanzitutto arrivarci è un viaggio degno di Marco Polo, da casa mia mi tocca prendere due autobus ed entrambe le metropolitane. Lo stipendio è misero, 400.000 lire al mese per quaranta ore a settimana.

    Seduta sulla panchina ad aspettare l’autobus, cerco di calcolare a mente il mio guadagno giornaliero.

    Mio padre ha detto che la precedente segretaria è stata licenziata, ma io sospetto che invece abbia dato le dimissioni. Chi lavorerebbe per 20.000 lire al giorno?

    Mi chiedo se quell’uomo sia davvero lo stesso che in occasione del nostro primo incontro era stato così simpatico… ma rifletto che quando ho comprato la macchina doveva per forza essere gentile, ero una cliente. Forse il principio non vale più, adesso che sono una segretaria.

    I mezzi pubblici sono una rottura, soprattutto quando non arrivano.

    A questa fermata passa solo il 558, l’autobus che sto aspettando. Non ce ne sono altri e camminare fino alla più vicina stazione della metropolitana è fuori discussione, anche se probabilmente sarei già arrivata.

    Sarà dura venire qui tutti i giorni, sento che in quell’ufficio non reggerò molto. Il ricordo dell’antipatia di Alberto Giuliani e di sua moglie Elisabetta mi provoca un immediato nervosismo, che vorrei placare con una sigaretta… sfortunatamente non ne ho e anche se in fondo alla strada c’è una tabaccheria aperta non posso allontanarmi da qui.

    Per qualche misteriosa legge della natura, gli autobus che fanno aspettare una vita scelgono proprio l’attimo in cui ci si allontana per arrivare e passare oltre. Non me la sento di correre il rischio per delle sigarette. Aspetterò di essere sulla Tuscolana, ammesso di riuscire ad arrivarci.

    Il 558 arriva dalla parte opposta e per un attimo sono tentata di prenderlo e farmi tutto il giro fino al capolinea. Dovrà pur ripartire, no?

    Vado, non vado?

    Mi distraggo alla vista di uno splendido ragazzo che è appena sceso. Si dirige da questa parte e più si avvicina più mi sento mancare il fiato. È alto, bruno e bello, in totale contrasto con la bruttezza e lo squallore generale dei dintorni.

    L’essermi attardata a guardarlo mi ha fatto perdere l’attimo, l’autobus è ripartito. Che sfortuna! O forse no, vai a sapere quanto sia distante da qui il capolinea.

    2

    LUI

    «Finalmente!» sospiro di sollievo, scendendo dal 558 a quest’ora strapieno. Se fossi un altro il ritardo comporterebbe il licenziamento su due piedi, la coppia di imprenditori che possiede tutto ciò che si trova al di là del cancello che ho appena varcato non tollera i perdigiorno.

    Ne sanno qualcosa i miei poveri colleghi, che spesso vengono maltrattati anche senza motivo. Solo con me Alberto ed Elisabetta Giuliani non hanno mai osato farlo. Anzi, mi è concesso un privilegio che nessun altro può vantare, il permesso di arrivare al lavoro in ritardo se il pomeriggio ho lezione all’università.

    Cammino spedito senza fermarmi per un fare saluto né a Kabir, il tuttofare della concessionaria, né alla pasticcera della cornetteria. Non serve che mi fermi in ufficio, le chiavi le avranno già prese i miei colleghi.

    L’ufficio è una costruzione rosa a un piano rialzato, scenario di un tumultuoso viavai di segretarie che si licenziano per disperazione dopo un paio di mesi al massimo, stufe di essere trattate sgarbatamente o di venire considerate alla stregua di un oggetto.

    Ovviamente i Giuliani questo non lo dicono. Per il resto del mondo (leggere: gli amici) sono sempre loro a licenziarle perché svogliate, stupide, o incapaci. Oppure, a volte, tutte e tre le cose.

    Oggi scopro che ne hanno appena assunta un’altra, sento due mie colleghe confabulare a proposito di cosa, la poverina, non sa che l’aspetta. Ma appena mi vedono passare, si zittiscono di colpo.

    Non so come né perché, ma tutti si son messi in testa che io sia la spia dei Giuliani. E solo per non essere stato licenziato quando, sei mesi fa, hanno rilevato la pizzeria e il pub di cui erano già proprietari delle mura.

    A dire la verità il signor Alberto voleva mandarmi via, ma sua moglie ha insistito affinché non lo facesse.

    «Il precedente proprietario mi ha parlato così bene di lui!» l’ho sentita dire.

    Secondo me il precedente proprietario era gay e gli piacevo, ma va bene.

    «Vorresti tenerlo a lavorare qui, Elisabetta? Sul serio? È uno studente di Medicina. Se il pomeriggio avrà lezione arriverà in ritardo, non ci hai pensato?»

    Alla fine la signora Elisabetta l’ha spuntata, sebbene il marito fosse convinto che glielo avesse chiesto solo per il mio bel faccino. Non ho mai capito se sia pentito di avermi tenuto, so di non essergli simpatico e non perché la moglie ha insistito affinché mi facesse restare. Semplicemente non sopporta le persone più intelligenti di lui.

    Le cose sono andate così, ma purtroppo i miei colleghi pensano che faccia la spia ai Giuliani e niente glielo toglie dalla testa. Forse a istigarli è stato il pizzaiolo calabrese, un altro della vecchia gestione che non è stato mandato via. Siccome mi odia a morte, dev’essere stato lui a mettere in testa agli altri che di me non ci si può fidare.

    Il privilegio di poter arrivare in ritardo se il pomeriggio ho lezione non mi rende popolare né tantomeno amato, ma nessuno mi ha mai detto niente di offensivo o fatto qualche screzio. Tranne il pizzaiolo, ovviamente, ma ai suoi modi da bullo dell’Aspromonte sono abituato. Credo che gli altri siano troppo impegnati a mantenere il controllo quando i Giuliani se la prendono con i dipendenti.

    Il loro nervosismo è dato dalla difficoltà che comporta il dover risollevare le sorti del Fantaghirò, ultimo disperato tentativo prima della chiusura definitiva. Chi altri lo avrebbe preso in gestione a quel prezzo? Praticamente, il vecchio proprietario lavorava per pagare l’affitto. Tolto quello, le bollette, i fornitori e gli stipendi ai camerieri, non gli restava nulla in tasca.

    A volte ho il sospetto che Alberto Giuliani sia uno strozzino, ma c’è una bella differenza tra il prestare soldi con tassi di interesse esagerati e gestire due locali che stavano andando in malora. Lui e la moglie ce la stanno mettendo tutta, ma non hanno nessuna esperienza nel campo della ristorazione e i loro modi bruschi non li favoriscono. Trattano male i camerieri e molti se ne sono andati dopo appena poche serate. Di questo passo, a lavorare qui non vorrà più venirci nessuno.

    Il sorriso che faccio alle mie colleghe non viene ricambiato, sono il nemico. Se sapessero che odio i Giuliani più di loro!

    3

    LEI

    Non è tardissimo, posso azzardarmi.

    Sono sulla metro A e sto meditando di fare una piccola sosta. La fermata a cui dovrei scendere è la prossima e sarà meglio che mi alzi se non voglio fare a gomitate per raggiungere le porte (e le mie gomitate sono dolorose), o litigare con qualche passeggero rompiscatole che protesta perché mi dovevo svegliare prima. E magari sosta imbalsamato davanti la porta.

    Nel quartiere Appio-San Giovanni c’è il locale in cui lavora l’uomo dei miei sogni. Anzi, di più: è il mio futuro marito, il padre dei figli che metterò al mondo. Peccato che non se ne voglia rendere conto e il più delle volte mi tratti con un’indifferenza che mi ferisce profondamente e mi fa venire voglia di ferire lui.

    Evviva, c’è! Lo vedo attraverso il vetro della porta del locale. Mi apposto nelle vicinanze, aspettando l’occasione propizia per avvicinarlo. Gli voglio assolutamente raccontare del colloquio di oggi pomeriggio.

    La mia pazienza (o forse dovrei dire ostinazione?) viene premiata quando finalmente esce a fare una commissione per suo fratello.

    Affretto il passo e lo raggiungo, salutandolo con il mio solito entusiasmo. «Ciao!»

    Trasale, colto in fallo. «Genni!», esclama. «Cosa fai qui?!»

    «Ti aspettavo.»

    «Lo so, è chiaro che aspettavi me. Ma se Fabrizio ti vedesse…» Scrolla il capo e guarda nervosamente all’interno del locale.

    Chi se ne frega di Fabrizio?! Non vedo perché non posso venire qui ogni volta che voglio. C’è forse qualche legge che lo vieta?

    «Genni» ripete stancamente «tu lo sai che non gradisce. Te l’ho già detto più di una volta, non devi venire qui.»

    Io vengo dove mi pare!

    Mi mordo la lingua e gli dico di aver trovato un lavoro in un ufficio sulla Casilina, pregustando le risposte che gli darò quando mi chiederà di cosa si tratta. Non vedo l’ora di fare l’imitazione di Alberto Giuliani e della moglie!

    Ma lui non mi chiede nulla, anzi, si incammina con le mani nelle tasche.

    «Lo sai che i miei nuovi datori di lavoro sono molto antipatici?», cerco disperatamente di fare conversazione.

    «Ah-ah?» bofonchia, continuando a camminare senza guardarmi.

    «Io le persone le inquadro subito. Giuro, sono due…»

    «Ti prego.» Il suo tono diviene improvvisamente supplichevole. «Vai via! Me lo racconterai un’altra volta, quando avremo tempo di parlare. Ti prego

    Lo guardo, indispettita, desiderando gridargli che non avremo più tempo di parlare. Ha sentito quello che gli ho appena detto?! Ho trovato un lavoro, sarò impegnata tutta la settimana.

    Come diavolo riuscirò a trovare il tempo di parlare con lui, soprattutto perché mio padre non vuole che lo veda?

    Mando giù un fiotto di bile. «Va bene» dico, sostenuta. «Me ne vado. Però tu non mi cercare quando avrai bisogno di qualcosa!»

    «Non te la prendere con me, la colpa è di Fabrizio! Lui non vuole che qui abbia distrazioni, che ci posso fare?»

    Ma io mi sono già allontanata e posso benissimo non aver sentito. Né mi corre dietro, figuriamoci. Eppure mi piacerebbe che lo facesse…

    ‘Fanculo! Scuoto la testa.

    Non mi ha voluto ascoltare perché era troppo preoccupato che quel campione olimpionico di stronzaggine del fratello ci vedesse chiacchierare e gli facesse una ramanzina!

    A volte ho la sensazione di stare perdendo tempo. Vale la pena di stargli ancora dietro? Il punto è che sono innamorata al punto da averlo aspettato persino quando era andato a vivere a Londra, sperando con tutta me stessa che non si trasferisse lì in pianta stabile.

    Mi sarebbe piaciuto partire anche io, magari per una vacanza studio estiva. Sarei andata a trovarlo, anche se non avevo la minima idea di dove accidenti si trovasse il ristorante italiano dove lavorava. Ma ero decisissima a trovarlo, anche a costo di dover girare tutta Londra.

    Naturalmente non sono mai andata. I miei non hanno voluto.

    «Tanto lo sappiamo che vuoi solo vedere quello lì!»

    Sì, volevo vederlo. E allora? Loro non hanno mai inseguito un sogno, da giovani? Figuriamoci…! Erano concreti, mica come me. Anzi, speravano che non tornasse mai più.

    «Così ti passa una volta per tutte e la finisci di sognare inutilmente!»

    Ero una ragazzina. Avrò avuto pure il diritto di sognare, no?

    4

    LUI

    Vedo per la prima volta la nuova segretaria poco tempo dopo, un pomeriggio in cui riesco ad arrivare in orario e mi presento in ufficio per farmi dare le chiavi. Ai miei colleghi quasi non sembrava vero, nessuno di loro aveva il coraggio di suonare: ieri notte i sacchi della spazzatura non sono stati buttati e gli zingari (entrati chissà come) ci hanno frugato dentro, spargendo rifiuti ovunque.

    Al mio arrivo stavano discutendo su chi dovesse chiedere le chiavi e non riuscivano a mettersi d’accordo. Presentarsi lì dentro significava diventare immediatamente il bersaglio dei Giuliani ed essere l’unica persona a subire una tremenda sfuriata per una colpa collettiva. Ovvio che ognuno cercasse di scaricare l’incombenza su qualcun altro.

    Stavano per tirare a sorte, quando sono arrivato io. Mi hanno accolto con un insolito entusiasmo fatto di frasi amichevoli, sorrisi a trentadue denti e pacche sulle spalle, e nominato ufficialmente volontario.

    «Vacci tu, a te non oseranno rimproverarti», mi è stato detto.

    A essere onesti, ne dubito. Ma cosa altro devo fare? Mi stanno guardando tutti. Maledicendoli, salgo la rampa di scale e mi avvicino alla porta.

    All’interno, qualcuno urla. Riconosco la voce della signora Elisabetta, sta facendo alla segretaria una ramanzina con i fiocchi. Chissà cosa ha combinato, poverina?

    Mi viene aperto e la signora mi rivolge un saluto distratto, tornando subito a parlare con la ragazza, incurante della mia presenza.

    «Credi che ti abbiamo assunta per farti star seduta qui a oziare, o per fare un favore a tuo padre?» la apostrofa con durezza.

    Lei rimane zitta, la mascella contratta per l’ira. È livida, si capisce lontano un chilometro che vorrebbe risponderle per le rime.

    Scrollo impercettibilmente la testa ed è allora che alza gli occhi su di me, fissandomi con evidente sbalordimento. Il suo viso ha l’espressione tipica di qualsiasi donna che mi vede per la prima volta. Non ritengo di peccare di superbia nel dire di essere bello. In risposta le indirizzo un sorriso smagliante, facendola diventare rossa come un pomodoro maturo.

    Purtroppo la signora Elisabetta se ne accorge e diventa ancora più aspra nei suoi confronti. «Ti sei incantata?! Quando ti faccio una domanda, esigo una risposta! Sei deficiente, che non ci arrivi?!»

    Mi aspetto che i suoi occhi si riempiano di lacrime, come succedeva alle segretarie che l’hanno preceduta quando venivano maltrattate. Ma lei non batte ciglio e appena la signora Giuliani le volta le spalle per andare a prendere le chiavi della pizzeria, alza sfrontatamente il dito medio della mano destra in un gesto inequivocabile.

    «Brutta strega» sibila «ti odio!»

    Sembra una tipa tosta, speriamo che non si pieghi troppo presto! Voglio evitarle ulteriori rimbrotti ingiusti, faccio finta di niente e me ne vado con le chiavi. «Ciao!», la saluto prima di uscire dall’ufficio.

    Sfortunatamente non ottengo risposta, se non un cenno del capo.

    5

    LEI

    Quando arrivano le 18 e ho il permesso di andarmene, non posso che sospirare di sollievo. Per fortuna è giovedì, mi resta domani e poi avrò due giorni di libertà e di riposo. Soprattutto, due giorni senza vedere loro.

    Spalanco la porta, faccio qualche passo e respiro a fondo. In quell’ufficio c’è aria viziata. Odora di polvere, di muffa, di prodotti per lucidare il legno e di non so che altro. Probabilmente di zolfo, l’odore del diavolo.

    Quei due sono talmente stronzi e cattivi che quando esco provo la stessa sensazione dei detenuti nelle carceri durante l’ora d’aria. Ed ecco che trovo la parola giusta: oppressione.

    Finora l’unica cosa bella è aver rivisto il ragazzo del 558. Scoprire che lavora qui è stata una sorpresa molto piacevole, diciamo che segna un punto a favore di questo postaccio. Peccato sia entrato proprio mentre la stronza mi stava sgridando… che figura!

    Brutta arpia, quanto la odio. Stavo lì a copiare sui libri societari i vecchi verbali delle assemblee passate, compito che le altre segretarie prima di me hanno svolto a rilento e molto malvolentieri, mi faceva male la mano ed ho avuto bisogno di prendermi una pausa. Che colpa ho se la befana ha scelto proprio quel momento per uscire dal suo ufficio e mi ha beccata a non fare niente, tanto per usare una sua espressione?

    Le mie giustificazioni non sono valse a nulla, evidentemente le pause non sono ammesse. Sono così arrabbiata che non so se mettermi a piangere oppure a gridare.

    Mi lascio cadere sulla panchina accanto alla fermata del 558 e mi piego su me stessa, avvolgendomi le braccia attorno al corpo. Resto così per un po’, a occhi chiusi, pensando al da farsi.

    Mio padre mi ha raccomandato fino alla nausea di comportarmi educatamente e di non rispondere mai male, neppure se la ragione fosse dalla mia parte. I datori di lavoro hanno sempre il coltello dalla parte del manico e se mi faccio licenziare perché polemizzo o creo problemi, farò meglio a trovare un altro posto dove andare a vivere perché mi caccia di casa.

    Non vuole fare brutte figure per colpa del mio caratteraccio, dice.

    Il mio caratteraccio!

    E intanto, sotto la minaccia di essere cacciata di casa, mi tocca inghiottire un boccone amaro dietro l’altro…

    Non è giusto. Non ho fatto nulla di male, ho voluto solo riposarmi un po’ la mano. I lavoratori hanno diritto a prendersi delle pause, ogni tanto!

    Come reagirebbe, mio padre, se gli raccontassi quello che è successo oggi? Dopo una breve riflessione, decido che preferisco non saperlo. Farò meglio a non dire nulla, conosco i miei genitori e immagino già cosa mi direbbero: faccio sempre la vittima, gli altri con me sono tutti cattivi.

    6

    LUI

    Mentre aiuto Andrea a scaricare la spesa sul furgoncino, la segretaria esce dall’ufficio e si dirige verso il cancello secondario, quello che dà sulla strada dove passa il 558.

    Mi colpisce il modo in cui si muove, ha il passo nervoso e scattante di una persona che vorrebbe sfogarsi in qualche modo. Scommetto che lo farà non appena sarà sufficientemente lontana da qui. Come darle torto? La signora Elisabetta l’ha trattata malissimo.

    Non so cosa abbia fatto lei, ma un simile comportamento è indecente. Insomma, mica ha ucciso qualcuno! I Giuliani credono di essere i padroni del mondo, le segretarie che hanno preceduto la nuova ragazza li odiavano e i miei colleghi non sono da meno.

    Con la scusa di andare a buttare i cartoni, esco in strada e la vedo seduta sulla panchina in attesa dell’autobus. Anzi, più che seduta è raggomitolata su se stessa, sembra una persona con il mal di pancia.

    Resto a osservarla per un tempo indefinibile, studiando i suoi movimenti. All’improvviso cambia posizione, poggia i gomiti sulle gambe e si tiene la testa tra le mani. Mi volta le spalle e non riesco a capire se stia piangendo o no, ma a prima vista non sembra. Non ha le spalle scosse dai singhiozzi.

    Se piange, lo fa in maniera molto dignitosa.

    Oppure non piange affatto, potrebbe essere dura e forte.

    «Giovanni! Vieni!», mi sento chiamare.

    A malincuore mi avvio verso la pizzeria.

    Le lacrime non sono rare, dove lavoriamo noi. È successo più di una volta che qualche cameriera piangesse perché era stata strapazzata dai padroni. I Giuliani fanno il bello e il brutto tempo, sfogano il nervosismo sui dipendenti come se non fossero delle persone come loro ma oggetti da maltrattare a loro piacimento.

    Chi ha potuto, è andato via. Gli altri, quelli che sono rimasti, hanno bisogno di lavorare o non sono riusciti a trovare di meglio. Una mia collega di nome Simona qualche tempo prima ha fatto un colloquio in un altro locale, ma anche lì il proprietario era uno stronzo col botto. Antipatico e snob, è il modo in cui lo ha definito.

    Alla fine è rimasta. Mica lasciava questo locale per farsi trattare come una stupida da un’altra parte, ha detto. «Peccato, perché dall’altra parte ci stava un tizio niente male!»

    Se i Giuliani sapessero di quel colloquio, la licenzierebbero su due piedi. Ma per sua fortuna nessuno ha parlato, sebbene si aspettino che io faccia la spia da un giorno all’altro.

    Sono o non sono il cocchino della signora Elisabetta?

    7

    LEI

    Sono in viaggio verso casa e alla solita fermata mi viene la voglia improvvisa di scendere e passare a fare un saluto al mio Amato, nella speranza che stavolta mi accolga meglio e soprattutto che abbia tempo di ascoltarmi.

    Gli voglio raccontare del rimprovero ingiusto che ho subito oggi solo per essermi presa una piccola pausa, non riesco più a tenermi dentro la rabbia e se non lo dico a qualcuno temo che finirò per sfogarmi a casa, con disastrose conseguenze per il mio umore già nero e per la pace familiare.

    Da quando ho iniziato a lavorare non ho più avuto modo di incontrarlo e le poche volte in cui sono uscita abbastanza presto da poter passare a dare un’occhiata al locale ho sempre trovato le porte sprangate.

    Chissà se oggi…

    In fondo non è colpa sua se ha un fratello stronzo e rompiscatole, è chiaro che gli scocci di essere rimproverato. Forse l’ultima volta mi sono arrabbiata ingiustamente.

    Anche oggi trovo le porte chiuse. Sbircio attraverso il vetro e lo vedo discutere animatamente con Fabrizio. Lo odio, quello!

    Delusa, sospiro e decido di andar via. Inutile aspettare che esca, ammesso che esca, con il rischio di arrivare a casa tardi o che venga fuori lo stronzo a cacciarmi.

    Pazienza, tornerò sabato. Inventerò di avere un impegno con un’amica e starò qui fuori anche tutto il pomeriggio, non riesco a resistere senza vederlo. Mi basterebbero anche dieci minuti.

    Voglio assolutamente raccontargli del mio lavoro e di come sono i miei capi. Ho bisogno di parlare con qualcuno che mi capisca.

    Qualcuno che ti capisca!, ripete nella mia testa una vocina sarcastica e beffarda che mi sforzo di ignorare. Ma se quando gli parli neppure ti ascolta! Anzi, sembra che non gliene freghi assolutamente nulla! Con quello non c’è dialogo, tranne che non si tratti di un argomento di suo interesse!

    In effetti neanche l’altra volta mi è stato a sentire, forse aveva fretta e non ha potuto trattenersi… ma non c’è proprio modo di far tacere quella stupida e noiosa vocina che mi ripete insistentemente cose che non voglio sentire.

    Però si sta facendo una certa e devo assolutamente tornare a casa. O come giustifico il motivo per cui ho tardato? Non vorrei che si insospettissero.

    «Ehi, ragazza!» mi sento chiamare mentre cammino a passo svelto verso la fermata della metropolitana.

    Ho appena oltrepassato una strana signora seduta a un tavolino pieghevole. Indossa abiti molto bizzarri e mi guarda fisso.

    «Sento qualcosa che ti tiene la mente occupata giorno e notte! Un amore non corrisposto?»

    Sente qualcosa? Scommetto che ha tirato ad indovinare. La voglia di risponderle per le rime si fa sentire prepotentemente, ma per non

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