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Le ceneri della Fenice
Le ceneri della Fenice
Le ceneri della Fenice
E-book427 pagine6 ore

Le ceneri della Fenice

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Info su questo ebook

1836. Due giovani amanti corrono per le calli di Venezia avvolti di freddo e nebbia. Quella notte vedono qualcosa che non avrebbero mai dovuto vedere, e che cambierà per sempre le loro vite. Andando contro i funzionari austriaci, che ipotizzavano un atto ai danni dell'Impero, per l'indipendenza, Draco segue le sue idee, che lo condurranno, seguendo una lunga scia di sangue, alla verità. Anni dopo, nel 1843, il vicecommissario di Venezia Alessio Draco è a capo di un'indagine partita da un omicidio commesso in pubblico, sul palco del Burgtheater di Vienna, da un assassino che fugge via lasciando sulla vittima un biglietto che recita: "Per voi risorgo dalle ceneri della Fenice". L'aiuto del suo migliore amico Henry Duval, e l'amore per Lady Eva Barker saranno le leve che lo aiuteranno a riportare alla luce la storia dei due amanti che correvano nel buio e nella nebbia anni prima. Una storia sepolta sotto la cenere, ma che il protagonista fa risorgere, come risorge una fenice.
LinguaItaliano
Data di uscita23 nov 2016
ISBN9788893690263
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    Anteprima del libro

    Le ceneri della Fenice - Fabio Capirchio

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    Collana Rosso e Nero

    Le ceneri della Fenice

    di Fabio Capirchio

    Proprietà letteraria riservata

    ©2016 Edizioni DrawUp

    Latina, Italia

    Progetto editoriale: Edizioni DrawUp

    Direttore editoriale: Alessandro Vizzino

    Grafica di copertina: AGV per Edizioni DrawUp

    I diritti di riproduzione e traduzione sono riservati.

    Nessuna parte di questo eBook può essere utilizzata, riprodotta o diffusa, con qualsiasi mezzo, senza alcuna autorizzazione scritta.

    I nomi delle persone e le vicende narrate non hanno alcun riferimento con la realtà.

    ISBN 978-88-9369-026-3

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    Prologo

    Venezia, dicembre 1836

    Notte muta su Venezia. Non un rumore. Il cielo ha spento la luna per concedere alla Serenissima un meritato riposo. Le stelle guardano le sue forme di chiese, campanili, canali, viottoli e ponti, stese su un letto di mare e coperte da un fitto velo di bruma. La bella dama dorme un sonno profondo, il sonno di chi è allo stremo delle forze. Di chi in pochi anni si è vista violata da Napoleone e poi girata all’Austria come si passa una volgare prostituta a un amico. Ingannata da Vienna che le promise libertà dopo la morte di Napoleone ma poi la chiamò repubblica, quasi fosse un sinonimo di libera, e la diede in sposa a Milano in un matrimonio che avrebbe controllato dall’alto e che adesso ancora controlla. Così intanto la dama dorme e sogna. Sogna la libertà.

    Nei suoi bui canali, tra le sue calli rese tetre dalla nebbia il silenzio tombale dura a lungo, finché da qualche parte nell’acqua nera che sembra pece, ad ascoltare bene si avverte lo scroscio sommesso e ritmico di una voga lenta, prudente.

    La tempesta si avvicina sulle ali del vento dell’est e getta lampi a illuminare quel mare di caligine, ma ancora lontana per il ruggito dei suoi tuoni. Le due figure avanzano caute, guardinghe. Una alla voga, l’altra china nella gondola. Ammantate di nero, i volti ben incassati nelle spalle, nascosti nei colli dei mantelli.

    Attraccano. Scende il vogatore, porge la mano al passeggero e lo issa sul piccolo molo che dà in una buia calle. Si guardano intorno con circospezione per qualche istante e scompaiono nel vicolo. Qui la nebbia è più rada e permette di vedersi in volto. Il gondoliere tira indietro lo zendale del passeggero scoprendo un incantevole viso femminile, ovale, appena allungato e pallido. Risalta nel buio. Uno spettro in quel contesto, dall’espressione ansiosa e impaurita.

    Lei gli alza il tricorno e gli apre il mantello per guardarlo nella speranza di trarre conforto dal suo viso, ma sotto l’incanto, negli occhi legge riflesse le sue stesse paure.

    Le carezza i capelli. «Non temere. Ci siamo quasi.» La dama chiude gli occhi e cerca il calore della sua mano con le guance ma la voga l’aveva infreddolita.

    «Andiamo, non c’è tempo.»

    E si avviano per i vicoli della città, cauti e lesti. Il gondoliere conduce per mano la dama, con l’altra tasta i muri. Conosce bene i labirinti di Venezia, ma la nebbia e il buio non gli facilitano il compito e ne rallentano il passo.

    La tempesta avanza ancora veloce, la coppia arriva in una piazzetta rettangolare contornata di palazzi signorili. Nei vicoli stretti e bui si sentivano al sicuro. Ma all’aperto la sensazione di essere spiati li assale e sostano nascosti per un po’ a trovare coraggio.

    Un lampo irrompe nella piazza e il tuono rimbomba tra i palazzi. Trasaliscono e cercano di deglutire per rimandare giù i cuori saliti in gola. Notano però in quello sprazzo di luce che la zona è deserta. Si fanno coraggio, quindi scivolano lungo il muro, sotto un porticato ad archi che costeggia la piazza. Poi di nuovo al riparo nel buio dei vicoli. E ancora labirinti e calli e ponti.

    Sempre più vicino Zeus infuriato continua a scagliare fulmini. Nubi più leggere lo precedono; portano i suoi araldi a prepararne l’avvento lavando la città con la pioggia.

    «Ci siamo persi?» chiede la dama.

    «Probabile...» Silenzio. «Eppure dovremmo essere vicini. Ci mancava solo la pioggia per Dio!»

    Il vogatore prende un buffetto di rimprovero dalla sua dama, poi s’incamminano di nuovo. Riescono a fatica a ritrovare la strada e a raggiungere la loro meta molto tempo dopo.

    «San Geremia! Ci siamo.» Le cinge le spalle con il braccio. «Vieni, il portone è dall’altra parte della piazza.»

    Un lampo che squarcia il cielo e un tuono che squarcia gli animi. La pioggia si fa fitta. Bussano una volta... due... tre. Niente. Sono zuppi e infreddoliti. La dama trema come un fuscello e forse è anche più fragile.

    Lui la guarda attraverso la pioggia battere i denti.

    «Vieni torniamo al riparo» le dice. Raggiungono di corsa un portico, lui si sfila il mantello e la avvolge con cura.

    «Cosa facciamo ora?»

    La voce è un brivido di ansia e freddo. Il vogatore si guarda intorno.

    «Tu stai qui, io cercherò di arrampicarmi fino alla sua finestra. Dovrebbe essere quella. Non ci metterò molto, gli dirò di aprirci. E una volta dentro spiegheremo che non potevamo attendere oltre. Vedrai, andrà tutto bene...»

    Più speranze che certezze nelle sue parole. Un sorriso di circostanza e un dito pronto a serrare le labbra di lei per evitare le imminenti proteste. Poi un rapido bacio e di nuovo immerso in quell’insolito mare misto di nebbia e pioggia.

    La bella dama lo segue con lo sguardo e quando lo perde di vista comincia a guardarsi intorno. È sola. Ma nelle azioni rischiose, si sa, chi non brilla in coraggio non è mai solo, ma sempre male accompagnato. Da tutti i fantasmi e gli spauracchi della propria immaginazione. Da un conoscente o da una guardia di ronda che stavano sempre per girare l’angolo e guardarla sbalorditi, per poi prenderla di forza e portarla via, mentre lui non c’era e non poteva salvarla, via per sempre. In quell’acquazzone non sentirebbe neanche il rumore dei passi o delle voci di eventuali nemici, così gira e rigira di scatto la testa come un uccello affamato, da una parte all’altra della piazza.

    L’attesa è lunga ed estenuante. Un fulmine cade all’improvviso nelle vicinanze e carbonizza i suoi nervi. Non regge più. Comincia a piangere e a pregare che torni presto il gondoliere.

    Le sue preghiere sono presto esaudite. Dalla coltre di pioggia riemerge correndo il suo amante e si arresta ansimante davanti a lei. Nessuna parola di conforto e nessun bacio avrebbero potuto toglierle le lacrime dal volto quanto l’espressione degli occhi di lui. È terrorizzato e forse sta anche piangendo.

    «Cosa c’è?! Cos’è successo?! L’hai incontrato?»

    «Dobbiamo andare via di qui e subito. Non discutere e per l’amor del cielo giurami che non mi chiederai mai cosa è successo stanotte!»

    «Ma cosa...»

    «Giura!»

    Grida forte, strattonandola, e la convince. Lei giura e scappano insieme. La pioggia ha ormai cancellato la nebbia ma si vede poco ugualmente. Corrono, corrono via rapidi e incuranti di tutto. Ora sono svaniti gli occhi indiscreti, gli spioni, i fantasmi e gli spauracchi, i conoscenti e le guardie di ronda. Ora ci sono solo i loro piedi uno avanti all’altro il più in fretta possibile. E c’è la pioggia, quanta pioggia...

    Capitolo I

    Vienna, novembre 1843

    La neve cade delicata sulla città, sospinta dal vento accarezza gli edifici posandosi e sciogliendosi sui tetti, sui cornicioni, sui lampioni, sul lastricato. Dal grigio tetto delle nubi si separano fiocchi che volteggiano lenti verso il suolo, sorvolando piazze e strade affollate, sfiorando i volti della gente, posandosi sui loro giacconi e cappelli, accompagnandoli per qualche metro nel loro cammino prima di sciogliersi in gocce d’acqua.

    Un piccolo fiocco in particolare ci incontra sulla strada per il teatro di corte. Forse ha preso forma sulla Ringstraße, a sud del Burggarten. Col vento magari ha viaggiato verso nord-est attraversando il parco, i suoi vasti prati, il laghetto. Cullato dalle correnti, ha sorvolato l’Hofburg. La Heldenplatz e il complesso di edifici. Ripercorrendo in pochi secondi sei secoli di stili architettonici ora accostati ora sovrapposti e mescolati l’un l’altro in una strana mistione che è quasi una carta d’identità di Vienna, o dell’Austria stessa. Un quadro cui ogni sovrano ha contribuito a dipingere anche solo con una pennellata, secondo i dettami e i canoni del suo tempo. Si potrebbe intuire la storia, vedere il volto di Vienna e dell’Austria ammirando e studiando il palazzo reale, i suoi affreschi, le statue e la sua architettura. Come archeologi intenti a scavare tra gli strati della Terra per svelare la storia del mondo.

    Il fiocco continua la sua lenta discesa oltre l’Hofburg abbassandosi sempre più. Si lascia alle spalle il teatro di corte e sulla destra la Michaelerkirche. Ormai a pochi metri da terra, sulla strada incontra la nostra carrozza. Il mantice alzato, poco utile in quel frangente.

    Scendendo, entra sotto il telo, e va a posarsi proprio sul naso del signor Cattanei.

    «E-ccì.»

    «Salute signore.»

    Il signor Cattanei prende dalla tasca il suo fazzoletto di seta e se lo passa sotto il naso. Tira un’altra boccata dalla sua pipa.

    «Ah signor Draco, l’estate è andata via, e la mia salute è andata via anch’essa. Tanto più che qui sembra già inverno pieno.»

    «Non dovrete sopportare ancora a lungo signore» dico indicando il Burgtheater. «Siamo arrivati.»

    Il cocchiere tira le redini in Michaelerplatz e accompagna la frenata con un lungo Oooooh. Scendiamo, paghiamo il cocchiere e lo salutiamo. Questi ci rivolge un lieve inchino, si alza il cappello e scompare nella neve. Il signor Cattanei prende l’orologio dal taschino e lo osserva. Poi alza lo sguardo al cielo e lo scruta in lungo e in largo. Sa benissimo di essere in ritardo, ed è ovvio che nevica, e che non smetterà almeno per un bel po’.

    Il signor Cattanei però ha a mio avviso il bisogno, il vizio, di dover sempre cercare di controllare tutto ciò che lo circonda, che lo riguarda. Non come forma di insicurezza, ma quasi come riflesso di un controllo che a sua volta guarda a lui, alle sue azioni. Essere il direttore generale della polizia a Venezia d’altra parte vuole significare, di questi tempi, fare rapporto costante all’impero austriaco, e soprattutto tenere sotto controllo ogni mosca che batta le ali nel Veneto; la polizia è oggi lo strumento principale di dominio dell’Impero sulle province italiane. Questo forse influisce sul carattere di Cattanei, ma si potrebbe azzardare, con pochi rischi, che fosse così anche prima di ricoprire quel ruolo, e che anche e soprattutto per questo sia stato scelto per ricoprirlo.

    Io dal canto mio non sono molto entusiasta di questa situazione. Fermo, al freddo, sotto la neve, in compagnia di una persona non molto gradita, ad aspettare che questa tragga le sue ovvie conclusioni.

    «Siamo in ritardo. E per di più non smetterà di nevicare a breve» dice infine. «Sarà meglio sbrigarsi a entrare a teatro.»

    Tira l’ultima volta dalla sua pipa, poi la ripone, e s’incammina.

    Ci nascondiamo quasi nei nostri giacconi, come tartarughe nei gusci, il cilindro calato un poco sugli occhi, e a passo svelto oltrepassiamo la piazza e poi l’ingresso del teatro. Per poco non rischiamo di travolgere i due uomini che ci attendono sull’ingresso. A guardarli bene credo che se non avessi arrestato il passo probabilmente sarei stato travolto io, nonostante i due gendarmi siano immobili. Sono enormi. Ma non impressiona tanto la loro mole, quanto i volti severi, duri, impassibili. Il loro sguardo di ghiaccio.

    «Sind Sie Herr Cattanei und Herr Dal Mas?»

    La domanda è rivolta a entrambi ma risponde Cattanei poiché il mio tedesco si limita, e a stento, a frasi colloquiali. Difatti della risposta capisco poco più di entschuldigung für zur Verspätung. Dal pronunciare il mio nome e quello del commissario Erasmo Dal Mas evinco però che il direttore generale Cattanei sta spiegando ai gendarmi che essendo il vecchio commissario a letto malato, sono venuto io, il vicecommissario Alessio Draco, in sua vece. Ai due energumeni importa ben poco, ci fanno cenno di seguirli e ci conducono al balconcino dove siedono i nostri ospiti.

    Scostiamo le tende rosse e due uomini dal volto ancora più severo riconoscono il direttore generale, uno di loro dovrebbe essere Friesinger, il diretto superiore di Cattanei (solo se si parla di ordini provenienti dall’Austria, altrimenti le nostre forze di polizia fanno comunque capo a Radetzky, a Milano), l’altro il suo secondo. Ci salutano con un cenno del capo e senza parlare indicano il palco. Lo spettacolo sarebbe cominciato a momenti. Avremmo parlato dopo. I musicisti accordano già gli strumenti in quella strana piacevole melodia casuale che si crea prima delle esibizioni orchestrali, che sa di attesa, e ha un che di eccitante. Uno dei due sussurra qualcosa all’orecchio di Cattanei, poi lo spettacolo comincia.

    Va di scena il Don Giovanni, gli austriaci non ci avrebbero invitato per uno spettacolo qualunque. Certo lo scopo non era di gratificare i nostri sensi con quella magnifica opera, ma quando l’Impero ha richieste particolari sa come porle; sebbene avrebbe potuto semplicemente ordinare. Ma in questo modo la faccenda si presenta in maniera più sottile, più velata. Quindi è evidente che si tratta di qualcosa di importante, anche scomodo forse. Il direttore Cattanei probabilmente non si pone questi pensieri, forse non si sarebbe neanche goduto lo spettacolo, non è un grande appassionato d’arte, ma a lui credo basti essere lì con alti funzionari austriaci, sul loro stesso balcone, a fingere di essere di fine gusto artistico.

    Do un rapido sguardo nel teatro, scorgo nel buio il balcone dei sovrani, vuoto. Ma in quelli adiacenti brulica di nobili, di politici, di alte cariche dello Stato. L’Overture ha inizio, note lunghe, di forte impatto emotivo, poi dinamiche più lievi alternate a momenti di tensione con veloci sedicesimi.

    Tutto mantiene un tono drammatico e imponente, finché la tensione non si spezza, ma non bruscamente. Legata come solo un genio poteva legarla, ha inizio una melodia più spensierata, più frivola, mai banale, sempre elegante, e sempre piena d’energia. Come se Mozart dicesse: Vi presento un dramma come non ne avete mai visti, e forse come non ne vedrete mai. Ma questo dramma inizia così... Ancora una variazione del tema ed entra in scena Leporello che inizia a lamentare la sua situazione triste di servo affamato e infreddolito che vorrebbe essere un gran signore e invece deve fare da sentinella al suo padrone. Poi, all’appressarsi di don Giovanni e di Donna Anna fugge a nascondersi e inizia il duetto degli amanti.

    Noto uno strano particolare e più di qualcuno sembra notarlo con me. Mentre la voce di Donna Anna è limpida e squillante, un soprano maestoso, quella di don Giovanni è più opaca. Sembra più distante, come se non provenisse dall’attore che tutti guardavamo. Riusciva comunque a riempire il teatro, ma sembrava provenire da lontano.

    La scena va avanti ancora ed entra il commendatore, basso possente, che rimarca ancora di più quanto la voce di don Giovanni sembri ovattata. I due discutono cantando, il commendatore sfida don Giovanni e comincia il duello. Pochi colpi di spada, poi l’affondo di don Giovanni. Tutti si aspettavano una morte ad ogni modo elegante, come la situazione imponeva. Il commendatore invece lancia un urlo straziante che ha ben poco di intonato. Sgraziato e in preda quasi a un delirio cade a terra e anziché cantare Soccorso, Soccorso! come avrebbe dovuto grida Hilfe, Hilfe! Si accascia poi tossendo e quasi soffocando e sembra morire davvero.

    L’orchestra sfuma in un coro di stonature e ragli. Pochi secondi perché la gente realizzi che l’attore sta davvero morendo, giusto il tempo che venga circondato da un lago di sangue, e cominciano grida di terrore dappertutto. Il pubblico allarmato inizia a correre verso le uscite. Noi in piedi affacciati al balcone guardiamo inorriditi la scena. I balconcini sono già tutti vuoti, le persone in platea si urtano e si ammassano come una mandria impaurita. Qualcuno di sangue più freddo si appressa al palco. Gli attori sono per lo più fuggiti dalla scena. Solo il commendatore ancora a terra e in piedi, ritto vicino a lui immobile come una statua, il Don Giovanni. Guarda la scena impassibile per qualche secondo, poi guarda verso di noi, proprio sul nostro balcone. Mi accorgo che indossa una maschera da bauta veneziana. In effetti è vestito da bauta, o larva. Ha in mano un foglio, forse una busta di carta. La getta sul cadavere e fugge via dietro le quinte.

    Tutto è accaduto così rapidamente che rimango imbambolato, incredulo di fronte alla scena, e non mi rendo subito conto di essere rimasto solo sul balcone. Cattanei e gli austriaci si erano già precipitati giù. Ultimo rapido sguardo al palco poi corro dietro le balconate verso le scale; le scendo a balzi e mi ritrovo davanti a un ingorgo di corpi, una fiumana che irrompe verso le uscite. Cattanei si volta:

    «Draco. Che fine avevate fatto? Santo Iddio, muovetevi!»

    Quella frase non ha senso ma inutile protestare. Muovetevi a far cosa? Di lì non si passa. Tuttavia gli austriaci e Cattanei si fanno largo come meglio possono tra la folla, a gomitate se serve, e si dirigono verso il palco. Non una gran scelta. Il commendatore oramai sarà morto, e nel migliore dei casi, se è vivo, qualcuno di sicuro avrà pensato a dargli soccorso. Se si vuole prendere l’assassino non si deve certo ipotizzare che rimanga nel teatro. Mi faccio largo tra la folla verso l’uscita. Pistola alla mano, qualche grido Polizei, un paio di spinte e sono fuori. La neve cade ancora e molto più fitta di prima. Il vento la sputa in faccia. Ora non carezza più, graffia. Cerco di fare il giro della struttura ma non è facile. Presa singolarmente non è estesa, ma aumenta di volume essendo fusa al complesso dell’Hofsburg. Passo da nord aggirando l’edificio e mi ritrovo nella Heldenplatz. Le urla si fanno sempre più distanti man mano che avanzo, e vengono coperte dal rumore del vento nelle orecchie. Getto sguardi rapidi ovunque ma non vedo granché lontano, la neve e il buio non me lo consentono. Mi avventuro nella piazza costeggiandola sotto l’ala Leopoldina. Faccio molti passi a fatica. Lentamente. Avanzo guardingo, sempre prima la mia pistola, poi io, cercando di restare nascosto e silenzioso.

    In lontananza un rumore indistinto. Un verso, forse un urlo, forse il nitrito di un cavallo, davanti a me sulla strada, ma non vedo nulla. Affretto il passo, sono scosso, quasi impaurito, di sicuro teso e poco lucido. Sento la mia tachicardia nelle tempie. Mi pervade la sensazione che l’assassino mi veda nel buio e sia pronto a colpirmi. Striscio lungo il muro tastandolo con la mano libera ancora per qualche metro finché vedo una figura scura davanti a me a non più di una trentina, forse quarantina di metri. Un cavallo. Sbuffa e scuote la testa agitando la criniera per liberarsi dalla neve. Quasi sollevato da quella visione rilasso i muscoli e abbasso la pistola. Ora cerco con lo sguardo il padrone. Niente. Dovrei nascondermi e aspettare che qualcuno venga a riprenderlo, sperando sia l’assassino. Ma non ho tempo di scommettere.

    Noto poi appesa alla sella una sacca. Forse ce n’è un’altra dall’altra parte. Mi avvicino, il cavallo sbuffa ancora innervosito dalla mia presenza; tendo una mano per calmarlo e avanzo ancora, piano, cauto, piegato in due, ancora guardandomi intorno con gli occhi. Sono accanto all’animale, apro la sacca e scorgo il calcio di una pistola con molti ghirigori argentati. Un movimento brusco, rapido, qualche metro sopra di me, il tempo di alzare lo sguardo per vedere uno stivale a un palmo dalla mia faccia. Di riflesso tento di scansarlo ma è troppo tardi. Mi colpisce in piena fronte. Cado a terra parando la caduta alla meglio, la pistola vola via. Un po’ rintronato mi tiro a sedere ma la figura nera che era scesa dal muro colpendomi è già in sella.

    «Fermo!» grido.

    Mi alzo e scatto verso il muso del cavallo per afferrare le briglie ma, più rapido di me, il Don Giovanni, ancora mascherato, lo sprona al galoppo. Raccolgo rapido la pistola e lo rincorro per qualche secondo. Non posso raggiungerlo. Mi fermo e sparo quasi senza mirare. Credo di colpire l’animale perché nitrisce forte dal dolore, e come risultato ottengo solo che si mette a correre al doppio della velocità e presto scompare alla mia vista. Sento urla di uomini nella direzione dov’è fuggito l’assassino, forse guardie dell’Hofburg, poi rumore di spari. Mi affretto verso il centro della piazza. Cessano gli spari e continuano le grida. Si sente ancora lo scalpitio degli zoccoli sulla pietra, ma sempre più distante.

    Quando arrivo dove si è radunata una piccola folla di guardie queste mi si fanno incontro di corsa parlandomi un tedesco grezzo e sbrigativo e puntandomi baionette al volto. Non capisco. «Ich nicht spreche deutsch.»

    Uno di loro mi rivolge delle parole che non comprendo ma che a sentirle sembrano poco cortesi. Faccio cenno di seguirmi per portarlo di corsa verso il teatro. La guardia continua a urlarmi contro puntandomi ora una baionetta al volto. Mi rendo conto di tenere ancora la pistola in mano. Cauto gliela consegno e lo invito di nuovo. Lui mi fa cenno di camminargli davanti ma in un’altra direzione. Sono in arresto. Cerco di spiegargli che sono amico di Friesinger e Cattanei, ma non mi dà ascolto. Inizio a infuriarmi e a sbraitare e d’improvviso ricevo un colpo col calcio del fucile nello sterno. Mi piego dal dolore e stavolta faccio silenzio. Lo seguo a malincuore e con le mani in alto pensando che le altre guardie si sarebbero affaccendate a trovare un cavallo e seguire il fuggitivo. La mia parte nell’inseguimento è per ora terminata.

    Il soldato mi scorta a una porticina bassa, di legno, mi perquisisce velocemente, con negligenza, la apre e mi indica di entrare. Davanti a me una scalinata ripida in pietra; esito un momento e sento la baionetta pungermi la schiena, dico nel miglior tedesco possibile che sono amico di Friesinger e Cattanei perché non so come dirgli che sono il vicecommissario di Venezia. I miei tentativi sono vani. Vengo esortato con forza a entrare. Passo la soglia e la porticina mi si richiude alle spalle. Il soldato fa scattare la serratura e si allontana. Sono solo. Almeno ora al riparo. Mi pulisco dalla neve e cerco di orientarmi. Dal filo di luce che entra sotto la porta scorgo i primi scalini. Poggio le mani ai muri laterali e scendo piano nel buio. Conto le scale, alla dodicesima faccio un passo falso convinto di trovare la tredicesima, ma trovo solo il pavimento sullo stesso piano. Buio pesto, cammino con le mani in avanti e strusciando i piedi. Sento il muro allargarsi e lo seguo da destra.

    Cerco nel giaccone i fiammiferi, li trovo, ne accendo uno. Sembra un lampo e illumina per un po’ una specie di piccolo magazzino pieno di botti e di cibarie. Di quelli che hanno sempre un accesso alle cucine dei castelli. Il fiammifero si spegne. Ne accendo un altro, stavolta cercando qualcosa da bruciare che duri più a lungo. Sugli scaffali alcuni impacchi di carta, mi avvicino e ne prendo uno. Al suo interno della carne secca. La tolgo e brucio la carta prima che si spenga il fiammifero. Cerco con questa torcia improvvisata qualcosa di utile per accendere un fuoco che duri più a lungo. Botti di vino, birra, un sacco con dei cereali... Niente di utile. Finché non trovo in un angolo un sacco mezzo vuoto, lo apro e con somma meraviglia vi trovo segatura. La mia torcia di fortuna è quasi esaurita. Accendo un altro foglio di carta, raccatto qualche pezzo di legno spaccando alcune cassette e riesco ad accendere con la segatura un fuocherello almeno per scaldarmi. Non so quanto tempo dovrò passare qui dentro, ma mi spazientisco presto. Almeno prima avevo da accendere il fuoco, ora ho solo da riflettere.

    Che assurda storia. Un omicidio nel più importante teatro d’Austria. E sotto gli occhi di tutti i nobili dell’Impero. Sul palco, davanti persino alle più alte cariche della polizia, noi compresi. Ed è riuscito anche a scappare credo. Aveva troppo vantaggio perché le guardie potessero seguirlo e catturarlo. Con questa bufera poi. Ma perché quell’attore? E perché oggi davanti a tutti? Non poteva ucciderlo dopo l’esibizione, o prima? Cosa voglia dire poi mascherarsi da bauta veneziana a Vienna non so proprio spiegarlo. È ovvio che l’assassino abbia voluto far vedere a tutti che la vittima doveva morire. Un regolamento di conti? O pura follia esibizionistica?

    Sono immerso in questo tipo di dubbi da un’oretta rimuginando di dover interrogare un attore piuttosto che un altro, e di chiedere una cosa anziché un’altra, quando gira il chiavistello della porta sulle scale. Il legno si spalanca, appare il volto di Cattanei incredulo che sposta lo sguardo da me al fuocherello. La guardia, mia carceriera, urla qualcosa e mi affretto a spegnere le fiamme con un piede. Risalgo le scale e mi trovo davanti a Cattanei.

    «Diamine signor Draco! Che fine avevate fatto? Oh be’, non importa, la guardia mi ha già detto tutto, sbrigatevi a seguirmi piuttosto. La faccenda sembra complicarsi e riguardarci più di quanto pensassi.»

    Seguo Cattanei fin dentro il teatro ora vuoto e silenzioso. Attraversiamo la sala, verso il palco, dove i due austriaci nostri ospiti osservano un foglietto e se lo rigirano tra le mani. Con loro alcune guardie. A terra coperto da un telo in origine bianco, ora rosso di sangue, giace il corpo della vittima. Quando arrivo vicino al palco mi si fa incontro uno dei due austriaci. Alto, magro, dall’aria severa, con lunghi baffi arricciati alle estremità e basette lunghe e folte che vi si fondevano sugli zigomi. Segue l’altro più basso e rotondo, calvo e con una folta barba.

    «Il responsabile della polizia italiana in Austria, il signor Friesinger, nostro diretto superiore. Con lui il suo assistente, il signor Haas.»

    Mi presenta poi in tedesco a loro, giustificando la mia presenza lì al posto di Dal Mas.

    «Strana strana faccenda» dice Haas in un italiano marcato dalla durezza della sua lingua natale. Ci porge il biglietto. Cattanei me lo passa.

    «Io l’ho letto già. Leggete anche voi Draco.»

    Apro il foglio piegato e con sommo stupore leggo:

    Per voi risorgo dalle ceneri della Fenice

    In italiano. L’assassino ha lasciato un biglietto scritto in italiano. Non posso negare che mi folgora d’improvviso il pensiero che fosse rivolto proprio a noi. Me e Cattanei. O più probabilmente al commissario Dal Mas e Cattanei, dato che io mi sono trovato qui quasi per caso. Mi torna in mente che il Don Giovanni-Bauta ha guardato proprio il nostro balcone prima di lasciare il biglietto per poi fuggire.

    «Un colpo in pieno cuore, affondo perfetto» dice Friesinger. «Certo la vittima non era pronta a ricevere il colpo, tanto meno avrebbe saputo schivarlo pur essendo preparato, ma non escluderei che l’assassino sappia tirare di scherma.»

    Sembra ovvio, dal biglietto, che sia un italiano. Inoltre, uccidere così un attore austriaco di fama internazionale in questo luogo e di fronte a questo pubblico è un evidente segnale di rivolta. Una richiesta violenta di indipendenza. E noi non vogliamo che questa scintilla sia l’incipit di un incendio indomabile vero? La faccenda non deve avere spazio sui giornali e tantomeno sulle bocche della gente. Noi dal canto nostro faremo il possibile per non farla divampare più del dovuto. Voi farete lo stesso. Mi aspetto discrezione, intesi signor Draco?» Annuisco, sorpreso dalle conclusioni azzardate e dai modi spicci di Friesinger.

    «Vi faremo avere al più presto il resoconto delle interrogazioni e la ricostruzione dei fatti al commissariato di Venezia. Mi aspetto un’indagine tanto meticolosa quanto silenziosa e rapida.»

    «Voi parlate come se l’assassino fosse già fuggito» chiedo. «Che ne è degli uomini che lo inseguivano?»

    «Sono tornati da poco. Tutti sostenendo che si sia come dileguato. È stato ritrovato il cavallo ferito da voi, ma non il suo padrone. Neanche un’orma sulla neve. La vostra indagine non dovrà essere mirata tanto a prendere questo criminale, ma a scoprire se è stato un caso isolato o se dietro si nasconde un’organizzazione più complessa. L’assassino sarà preso qui. Questo è certo. Non potrà lasciare Vienna e rimanendoci sarà catturato. Ho già dato disposizioni in merito. Avete altre domande?»

    «Le sacche della sella sono ancora appese al loro posto?»

    «Non sono state ritrovate sacche... Siete certo di averle viste?»

    «Ne ho aperta una e vi ho scorto una pistola ornata d’argento, prima di venire assalito dal Don Giovanni.»

    «Siete stato colto di sorpresa dunque?»

    «Sì, be’, veniva giù dal muro e nel buio con la neve non...»

    «Lasciate perdere. Non importa. Non mi aspettavo certo che fosse catturato da voi. Come già detto l’assassino non lascerà la città e questo è tutto. Se non avete altre domande, vi saluto.»

    Il suo tono è freddo, distaccato, quasi non dia importanza alla questione, come fosse già risolta. E dà l’impressione di non tenere neanche noi in gran considerazione. Cattanei sembra turbato e sovreccitato anche solo a stargli davanti. Ci guardiamo, poi Cattanei risponde:

    «No signore. Obbediamo. Solo, per l’altra questione che dovevamo discut...»

    «Si sono sovrapposte questioni più importanti» lo interrompe Friesinger. «Per ora è tutto. Resteremo in contatto con i miei corrieri. Arrivederci signori e buon ritorno a Venezia.»

    Salutiamo e usciamo dal teatro. La faccenda mi convince ben poco, ma inutile farne parola a Cattanei, non si occuperà lui del caso e anche se fosse darebbe ragione a occhi chiusi a tutto quello che gli venisse detto da Vienna. Sono impaziente di tornare a casa. Sono stanco scosso e infreddolito. Per pensare aspetterò di rivedere Venezia.

    Capitolo II

    Vienna, Graz, Klagenfurt, Trieste e innumerevoli paesi e paesini nel mezzo. Non una parola da parte di Cattanei sull’accaduto. Ai miei rari tentativi di introdurre l’argomento risponde brevi frasi seccato facendo cadere il discorso. Ostenta tranquillità ma è turbato, si capisce. Credo abbia paura che questo non sia un caso isolato, e sia invece la scintilla che accende l’incendio cui si riferiva Friesinger. E che tocchi a lui spegnerlo. Non ama le responsabilità, soprattutto se rischiano di destabilizzare l’equilibrio che vige tra le parti e che lui bilancia cercando di convincere gli austriaci che i veneziani li amano e i veneziani che gli austriaci ricambiano. Non credo che gli uni o gli altri ne siano convinti ma forse lui sì.

    Ad ogni modo io mi sento se non eccitato almeno motivato da quest’evento. Il commissario Dal Mas è vecchio e spesso malato, se risolvessi questo caso forse verrà incitato a ritirarsi dalla polizia per lasciarmi il posto. Ma al di là di discorsi materiali mi affascinano la caparbietà e la teatralità della Bauta (ormai per me ha questo soprannome).

    Ci imbarchiamo a Trieste, un piccolo veliero mercantile, 'per non dare nell’occhio' secondo Cattanei. Passo il tempo in disparte, fumando distrattamente la mia pipa a prua, guardando il mare che diventa spuma al nostro passaggio, immerso nei pensieri. A causa dei quali il viaggio è ancora più breve. Vicino al porto di Venezia vengo destato come da un sogno dalla mano di Cattanei sulla mia spalla.

    «Draco, mi raccomando. Non una sillaba sull’accaduto, la notizia saprà arrivare da sé, se non ci ha addirittura preceduto. Se dovessero chiedere qualcosa voi dite solo che se ne occuperanno da Vienna e il caso sarà presto risolto.»

    Annuisco distratto.

    «Draco mi avete capito?»

    «Sissignore. Non è molto che sono in città, non vanto numerose amicizie. Pur volendo non saprei a chi parlarne.»

    «Be’ io mi riferivo alla stampa in particolare. Ma ora che me lo fate presente, non fatene parola neanche con vostri amici come quel francese, qual era il suo nome...?»

    «Monsieur Duval.»

    «Ecco sì, esatto, neanche con lui.»

    «Potete stare tranquillo direttore. Sarò discreto.»

    Henry Duval. Lo avevo quasi rimosso in questo trambusto. Sarebbe dovuto venirmi a prendere fra due giorni al porto, andrò da lui ad avvertirlo che ho anticipato il ritorno. Stare con lui alleggerisce la giornata, sempre, e ho bisogno di leggerezza ora.

    In porto, Cattanei scende lanciandomi ancora un’occhiata di intesa, che ricambio. I mercanti mi accompagneranno fino alla Giudecca, alla villa Duval. Henry Duval è uno strano personaggio, il più stravagante che abbia mai incontrato. Sempre sorridente, gioviale, spensierato, ottimista. Gran burlone e umorista. Senza problemi e tarli per la testa, generoso e disponibile oltre ogni limite. Non ha mai lavorato in vita sua, ha un patrimonio di famiglia che fa invidia ai più ricchi gentiluomini veneziani. Figlio unico, alla morte dei genitori - padre francese di nobile famiglia, sposato con una nobile veneziana - ha ereditato tutto senza dover spartire. Non ha una donna ma molte anche contemporaneamente. Amante della vita e di tutte le cose superficiali che la rendono sfiziosa. Artista a tempo pieno, sa dipingere, suonare svariati strumenti, comporre, poetare, e allo stesso tempo non eccelle in nessuna di queste arti. Un tutto fare nel generico e un principiante nello specifico. Ma a lui non importa, lo fa per svago, dice. Pensandolo mi viene da sorridere, e sorridendo attraverso il Canale della Giudecca fino all’isola.

    La villa Duval è dall’altra parte della Giudecca, arrivando da Venezia. Sormonta una bassa scogliera al centro del complesso di isole, in un punto in cui il terreno si alza di una decina di metri dal livello del mare. I mercanti mi lasciano però dalla parte della laguna, e a piedi mi incammino verso l’altro lato. Avanzo, le costruzioni si fanno più rade, sostituite da una sempre più presente vegetazione. Permane una strada battuta ma sui lati le

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