La rabbia della sera
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Anteprima del libro
La rabbia della sera - Claudio Santucci
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Capitolo 1
Piazza del Popolo offre il meglio di sé in quei pomeriggi di primavera inoltrata, soleggiati e leggermente ventilati. Non c’è ancora l’afa estiva e all’aperto si sta bene. La piazza è un gioiello di architettura e, da sempre, è il cuore sociale di questa città. Certo, un paio di coltellate alla schiena questa piazza le prende ogni volta che si montano gazebo senz’anima, bancarelle con le cose più disparate, spesso di dubbio gusto ma tant’è, le cose vanno così.
A dare un’altra mazzata allo spirito sociale di questa piazza sono i mezzi alternativi per mantenere i contatti tra uomini, come i social network. Non fanno sentire più il bisogno di vedersi di persona, perché quello è l’unico modo per sentirsi o per scambiare, semplicemente, quattro chiacchiere davanti a un caffè.
Si possono mandare messaggi e commenti senza alzarsi dalla tazza del gabinetto e si possono inventare esistenze non reali, attività che non sono vere e tutto il resto. Anche questo ha contribuito a far spopolare, almeno in parte, questo salotto d’incontri. E meno male che si chiamano social.
Ascoli ha un sapore particolare. Sa di fumo, in alcune situazioni di aria consumata, con un retrogusto di legna bruciata. Anche all’aperto. Intendiamoci, non è una brutta sensazione. L’odore è quello dei punti di ritrovo, delle osterie e di tutti quelli luoghi, dove la gente s’incontra, magari dopo il lavoro, per stare insieme, raccontare a voce alta, magari con l’aiuto di un bicchiere del tipo giusto, giocare a carte, imprecare sul governo e sulle mogli. In questi locali, una volta si poteva fumare oltre che fare le altre cose. Molte case, più in passato ovvio, utilizzavano il camino o stufe a legna per l’inverno. Ecco, anche in strada si sente quest’odore. Un’aria vagamente stagnante certo, ma provocata da momenti di vita non da assenza della stessa. Gli Ascolani dicono che l’aria in città ristagna un po’ perché si trova al centro di una conca. Sarà così. Questa piacevole cupola si ripercuote anche sulle persone. Gli abitanti sono in parte ripiegati su loro stessi, è un ambiente provinciale, incline al pettegolezzo. Nello stesso tempo, però, è pronto a scendere in strada a fare festa, in un clima da Saturnale, dove per qualche giorno al sottoposto, a chi sta sotto in genere, è consentito cantarne quattro a lor signori e avere atteggiamenti e comportamenti non convenzionali o socialmente poco ortodossi. Nonostante questa cospirazione informatica, in ogni caso, la piazza è ancora viva, zoppica ma è ancora viva. Sarà anche perché Fabrizio è particolarmente sensibile alla ricerca di contatti, di scambi sociali, d’incontri, di parole. Lo è perché è così, mamma lo ha fatto così. Lo è perché di mestiere fa l’ispettore di Polizia, e se vivesse a Boston, si chiamerebbe Detective, ma qui è un Ispettore, un termine che fa più pensare al controllo dei biglietti sul pullman. Vive, quindi, in mezzo alle storie della gente, il più delle volte pure brutte, ha bisogno di sapere, deve indagare, approfondire. Lo è perché è il padre di Vincenzo, bambino che soffre di autismo, ha dodici anni e passa gran parte delle sue giornate con la testa china a completare i cruciverba più astrusi. Lo fa con una velocità impressionante e ne divora a decine ogni giorno. L’altra cosa che lo appassiona davvero è la ripresa di video. Due anni prima gli aveva regalato, per Natale, una compatta abbastanza buona, ci ha messo un giorno a imparare a farla funzionare e da allora se la porta sempre con sé e filma qualsiasi cosa. Poi a casa, Fabrizio riversa i video sul computer e glieli classifica e Vincenzo si diverte a modificarli, tagliarli, incollarli con un programma apposito. Era pur sempre un modo di farlo interessare a quello che accadeva intorno a lui, sempre in una cornice rassicurante perché, pensava, in questo modo Vincenzo può entrare in contatto con l’esterno quando vuole senza che questo entri in contatto con lui quando non se la sente. Fabrizio sa bene cosa significa essere chiusi in se stessi senza nessun apparente contatto con il mondo esterno, con gli altri. Lo vede ogni giorno negli occhi del figlio che sembra notare il mondo solo nelle pagine delle riviste enigmistiche e nella registrazione di questi video, e pagherebbe oro per vedere, un giorno, un guizzo d’interesse, una curiosità, un moto di volontà di partecipazione a qualcosa che sta succedendo intorno a loro. Invece, di solito, il rituale è cruciverba di Bartezzaghi e the in lattina da sorseggiare alla fine di ogni riquadro. Per questo motivo Fabrizio, quando può e il clima lo permette, passa qualche ora in piazza, seduto all’aperto. Si guarda intorno, studia curioso, ma, soprattutto, prova in continuazione a stimolare Vincenzo con quello che accade lì, ogni volta una cosa diversa. Fa quello che può. Sua moglie Simona è morta da cinque anni, maledetto sia il cancro, e lui non ha sempre molto tempo da dedicare al figlio. Per carità, tantissime persone sono costrette a sacrificare parti della loro vita familiare per il lavoro, ma non tutti hanno da badare a una persona che ha le esigenze di Vincenzo, bambino che avrebbe necessità, invece, di attenzioni supplementari rispetto agli altri. Fabrizio si fa in quattro, applica in maniera scrupolosa le indicazioni che gli hanno dato gli specialisti. Ha studiato quello che poteva studiare e capire, e questo rientra nella sua natura: conoscere, approfondire. Parla a lungo con Vincenzo, gli racconta le sue giornate, le sue emozioni, lo fa partecipare quando le pochissime persone che conoscono vengono a trovarlo e se lo porta dietro quando riceve inviti da qualcuno.
Ed eccolo qui in piazza, seduto al caffè con Vincenzo, a godersi questo pomeriggio di fine Maggio. Anche per questa dimensione raccolta, in un centro abitato di piccole dimensioni, dov’è più facile spostarsi ed essere a casa in pochi minuti o essere pronto a correre da Vincenzo in caso di bisogno, si è proposto per il trasferimento dalla Basilicata, sua regione di origine. Da poco più di un mese vive in questa città e tra scatoloni da sistemare, accudire Vincenzo, lavorare ai vari casi che si presentano, conosce, a malapena, la strada di casa, dove sta il Commissariato e poco altro. Fare il poliziotto per un ragazzo del sud, spesso, significa avere una prospettiva di vita, la possibilità di farsi un futuro ma adesso, a trentanove anni è contento di questa decisione, è la sua vita e la vive convinto.
«Ispettore, disturbo?»
La voce delicata ma chiara arriva nei suoi pensieri come un soffio d’aria che allontana il fumo e fa chiaro.
«Roberta vieni, siediti... smettila di chiamarmi così e prenditi qualcosa.»
«Grazie, accetto volentieri, ho una sete... Una limonata.»
Fabrizio fa cenno al cameriere e ordina. Roberta è un’assistente diplomata e specializzata nell’accudire persone con i problemi di Vincenzo. Lo segue da quando i due si sono trasferiti ad Ascoli. Accudisce Vincenzo come una sorella e spesso si ferma in casa per tenergli compagnia quando Fabrizio fa tardi o ha qualche imprevisto, ma lei ha sempre detto che lo fa volentieri, per passione e perché vuole bene a entrambi. Un’amica, quindi, e a lui non dispiace. Roberta porta sempre con sé una ventata di profumo di agrumi delicato e molto piacevole. Ha un sorriso bello e buono ed è sempre in movimento, frizzante, mai monotona. Insomma, chi si troverebbe male in una situazione simile? Si rivolge a Vincenzo con il solito sorriso fresco.
«Ciao Vincenzo. Quanti ne hai risolti oggi pomeriggio?»
Vincenzo si ferma un attimo, la guarda di sfuggita, prende il bicchiere di the e tira su con la cannuccia. È il suo saluto, poi si rituffa nella rivista. Fabrizio e Roberta ridono all’unisono.
«Roby, stavamo per andare a casa, così mi metto a preparare la cena e ci guardiamo un po’ di tv. Ovviamente ci fa piacere se ci sei tu. No, non fare la smorfia sarcastica, non te lo dico perché ho bisogno che cucini per noi, lo dico perché ci piace la cosa, lo sai.»
Adesso tocca a Roberta prendere il bicchiere di bibita e tirare su con la cannuccia in maniera rumorosa.
«Lo so. E dai, fatti prendere in giro... e poi a me piace cucinare.»
Vincenzo, a sua volta, riprende il bicchiere rumoreggia con la cannuccia per risposta a Roberta. È la sua approvazione alla proposta del padre. Fabrizio fruga nelle tasche, prende la sua scatola di mezzi toscani e ne estrae uno.
«Bene, ancora una mezz’oretta... aspettiamo che il sole sparisca del tutto via e andiamo.»
Accende tirando di gusto, scivolando sulla sedia in una posa più rilassata. Roberta lo imita bofonchiando.
«Sta puzza.»
Bel discorso, davvero un bel discorso. C’è da riflettere, da prendere spunto. Basta con queste cose, ma non basta dirlo, bisogna fare qualcosa. Una doccia e poi giù, nel fondaco, a preparare l’occorrente. Sì! Un bel lavoretto. Ok! Le chiavi dello scooter sono qui, le preparo.
Capitolo 2
Il tragitto dalla piazza a casa è abbastanza corto, ma, del resto, qui è tutto a portata di mano. Si passa davanti a una chiesa del medioevo che affaccia, quasi a strapiombo, sul corso del fiume Tronto. Davanti all’ingresso della chiesa ci sono tre ragazzi muniti di bellissime macchine fotografiche, con l’obiettivo quasi attaccato alle pareti. Fabrizio con il mezzo toscano penzoloni dalla bocca, le guarda stupito. Poi guarda Roberta allo stesso modo.
«Che fanno, fotografano le crepe?»
«Sei proprio uno sbirro! Probabilmente sono studenti o di architettura o qualche corso simile che fanno pratica con le macro, forse per qualche progetto o... complotto contro lo Stato.»
Continuando a ridere, gli prende la mano per qualche secondo. Fabrizio prova un leggero brivido, è meglio pensare che sia il freddo. Quando si rende conto, tira la mano indietro, evitando movimenti bruschi per non offendere. Roberta si fa seria all’improvviso, lo guarda senza dire nulla e Fabrizio abbassa gli occhi.
«Scusami... non sono più abituato.»
Roberta annuisce e porta l’indice sulle labbra nel segno del silenzio. Vincenzo guarda fisso l’alone del sole che sta tramontando dietro il rilievo del Monte dell’Ascensione. In effetti, quando il sole cala e sparisce dietro le colline, l’aria si fa rapidamente frizzante, fresca, ancora non è tempo di alleggerirsi più di tanto. In quel momento, viene in mente a Fabrizio un detto che sua nonna ripeteva spesso, in queste circostanze Maggio vacci adagio. Nonna Amelia. Una donnina alta come un barattolo, con la voce di un cardellino e lo spirito e l’energia di un soldato prussiano, i capelli raccolti con una crocchia tenuta insieme da grosse forcine, quei capelli che tutte le sere spazzolava con il borotalco, mentre raccontava storie a Fabrizio che se ne stava rannicchiato su uno sgabello a bocca aperta, rapito nell’immaginazione. Mentre è assorto in questi pensieri, in automatico porta una mano sulla testa di Vincenzo e lo carezza come per dire: Ecco, Vincenzì, ti ci vorrebbe una nonna Amelia. Si gira verso Roberta.
«Ti ho mai parlato di mia nonna Amelia e del suo fantastico baccalà al forno?»
Roberta cerca velocemente nel cassetto dei propri ricordi.
«No, cavolo, e che aspetti?»
I tre sono a metà di un ponte stretto, anche questo molto antico, che porta alla strada in leggera salita, dove abitano Fabrizio e Vincenzo.
«Benissimo... Allora comincio dalle sue qualità canore e dalla sua attività d’infermiera del vicinato sempre in giro a fare iniezioni.»
Parte il racconto che esce, davvero, dal cuore di Fabrizio e i tre istintivamente si fanno più vicini tra loro, a spalla a spalla e hanno, pure, sincronizzato il passo.
La cena è leggera ma sfiziosa, come piace a Vincenzo: insalatona con il tonno, pane fresco e prosciutto.
«Roby se vuoi fermarti per una fantasmagorica serata televisiva a noi fa piacere... però se hai qualcosa di più divertente da fare siamo contenti lo stesso.»
Roberta è una discreta forchetta, nonostante la silhouette. Gli altri hanno già finito e lei ancora è alle prese con il prosciutto che ha messo in fette molto ordinate, sul pane.
«Lo volete capire» Esclama guardando negli occhi i due, «che io sto bene con voi? Mai annoiata, lo giuro e stare a casa è una cosa bella mica un ripiego.» Parla con la bocca mezza piena. «Certo che era forte tua nonna! Mi parlerai ancora di lei in un’altra occasione? Intanto decidiamo che vogliamo vedere in tv.»
Fabrizio comincia apre la sua applicazione sul telefonino e legge a voce alta.
«Allora, su Top Crime fanno Criminal Intent ma il lavoro a casa non me lo vorrei portare, cavolo, mi piacerebbe guardare una di quelle trasmissioni giornalistiche, sai di quelle che denunciano cose che non vanno, truffe, malaffare.»
«Ce ne stanno a bizzeffe, tutti che strillano, si parlano sopra, non si capisce niente.»
«È vero, ma non sono tutte uguali e poi, le cose bisogna saperle.»
Roberta sorseggia un po’ di birra e lo guarda dubbiosa.
«Sarà come dici, sta di fatto che i giornali sono pieni di queste cosiddette denunce, la tv, in pratica ogni giorno ha la sua tele verità con tanto di nomi e cognomi, eppure il mondo continua a essere pieno di birboni lo stesso.»
Fabrizio si gira e li guarda trionfante.
«Oggi è giovedì! Ci possiamo vedere la storia dell’Universo su Focus... che ne dite?»
Roberta annuisce convinta. Vincenzo sta mettendo in bell’ordine tutti i chicchi di mais dell’insalata. È un’operazione che ripete spesso prima di mangiarli di gusto. Il fatto che questa proposta non provoca, in lui, reazioni di nervosismo è segno che la scelta è condivisa appieno.
«Bene! E storia dell’Universo sia.»
Prende la copertina di pile e accende la luce dietro il divano. Mette in posizione gli sgabelli per i piedi, si toglie le scarpe, imitato dagli altri due. Tutti si tuffano sotto la coperta e Fabrizio, con il telecomando si sintonizza sul canale prescelto. Come da copione, dopo circa mezz’ora inizia la pennichella di gruppo. Vincenzo si è sdraiato e poggia la testa sulle gambe di Roberta, Fabrizio, in sostanza imbalsamato, poggia la testa sulla spalla di Roberta, la tv continua a raccontare dei laghi di metano in un satellite di Giove, ma, almeno per questa sera, nessuno in questa casa ne saprà nulla. Il telefono cellulare non è mai scarico quando dovrebbe evitare di trillare ed è sempre scarico quando si sta aspettando una notizia con ansia e interesse. Non è la Legge di Murphy, che tra l’altro è citata a sproposito come il teorema della sfiga e non è cosi, è una constatazione che parte in automatico, fuori da qualsiasi mediazione, come l’arco riflesso che si crea tra una martellata su un dito e una parolaccia che sgorga dalla bocca, indipendentemente dalla situazione.
«E porca puttana, perché non l’ho spento?»
Sul tavolino, ancora ingombrato da briciole di pane e piatti con gli avanzi della cena, il cellulare di Fabrizio esegue, per la vibrazione, i passi della danza della rottura di palle. Fabrizio si alza, provocando il mugugno collettivo del resto della Setta dei Dormienti, e, scalzo, si avvia verso il telefono. Lo prende e guarda il display con lo spirito di chi pensa appena saprò chi sei e t’incontro, ti prendo a sberle. Solleva e guarda il display illuminato. C’è scritto: Capriotti.
«Cavolo. Capriotti. E che è successo?»
Emidio Capriotti è uno dei due brigadieri, l’altro è Michele Varosi, padovano, che fa squadra con Fabrizio. Capriotti è traccagnotto, rubizzo, gran chiacchierone con