Kasamaan: L'istinto oltre la ragione
Di Mario Volpe
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Kasamaan - Mario Volpe
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Introduzione
La paura è un meccanismo di difesa naturale. Gli antropologi e i naturalisti sostengono che l’uomo ha potuto continuare la sua vita evolvendosi, fino all’homo sapiens, anche grazie a essa.
Questa profonda e fortissima sensazione sollecita gli istinti di sopravvivenza preparando l’essere umano alla fuga, all’attacco o alla difesa, a seconda delle circostanze.
Tutti abbiamo provato paura: quel nodo alla laringe, una strozzatura nell’esofago che impedisce di ingoiare la pietra che, magicamente, il terrore ci ha bloccato in gola. Più ci sforziamo di mandarla giù e più il cuore inizia a battere pompando il sangue verso il cervello, drogandolo con un incremento di ossigeno dovuto all’aumento progressivo dei cicli respiratori. Al di là dalle risposte del corpo allo stimolo della paura, cos’è essa per il nostro essere se non un’emozione? Una sensazione innata in ogni essere vivente con l’intento di scuotere la consapevolezza di dover proteggere la propria esistenza. Essa, in alcuni casi, è tanto forte da bloccare ogni funzione motoria o da indurre perfino alla morte. Il terrore profondo non sempre agisce innescando l’istinto di fuga o difesa, ma talvolta irrigidisce l’apparato muscolare paralizzando le capacità di movimento e decisione. Una spiacevole sensazione che l’uomo ama provare, se non altro per la forte scarica d’adrenalina che esplode come una mina el suo organismo; come un salto nel vuoto; come un urlo improvviso tuonato nel buio. Ma oggi è possibile fruire di una paura senza rischi cullandosi in una rilassante poltrona, protetti da un tetto e solide mura.
Amiamo vivere una paura artificiale, creata da storie capaci di far rivivere dentro di noi quelle fortissime sensazioni che solo un profondo e personale terrore riesce ad alimentare, senza il rischio di correre pericoli veri. Ma cos’è che realmente ci fa paura? I fantasmi, mostri deformi che appaiono all’improvviso dal nulla, il sangue, gli ambienti sconosciuti o la morte? Probabilmente ognuna di queste cose, almeno per le prime volte, può farci sussultare, ma certamente la paura più profonda è la consapevolezza dell’uomo di essere capace di commettere atti indicibili, abomini di ogni sorta quando l’istinto polverizza la ragione.
Gelido soffio
Vieni:
aspetto il tuo gelido soffio
seppur gonfio di terrore,
e il desiderio di allontanarmi
da te si placa ad ogni ora.
Vieni nella mia anima sofferta
e nel mio corpo martoriato,
nel mio essere ormai spogliato
da ogni umana voglia.
Vieni e prendimi con un ultimo respiro
e donami la libera essenza
dell’anima eterna.
Se guarderai l’occhio dell’abisso,
prima o poi l’occhio guarderà te.
Edgar Allan Poe
I. L’ultima cena
Taluni luoghi o accadimenti possano prendere vita solo grazie alla fervente immaginazione di fantasiosi romanzieri. Allora prestate attenzione a questa storia, credere che possa essere realmente accaduta sarà possibile solo grazie alla predisposizione del proprio animo ad accettare ciò che può andare al di là d’ogni umana comprensione.
Il tutto è iniziato per la semplice voglia di evadere da una pesante e monotona routine quotidiana. Il desiderio di staccare la spina, lasciare l’ufficio, affari, clienti e problemi al loro destino per qualche giorno, immergendosi nella natura della nostra splendida terra.
Avrei lasciato me stesso con le sue fisse e le sue ansie nella metropoli dove vivo e lavoro, per ritrovarmi in altri luoghi. Avrei respirato altra aria e parlato con i compagni di viaggio dei temi più disparati: bevuto birra, mangiato senza leggere le direttive del nutrizionista, e avrei fatto e raccontato sogni da bambino senza vergogna di dover essere giudicato tale, pur essendo un uomo. Sarei tornato rinvigorito e pronto a nuove battaglie, ma crederlo è stato un terribile errore che ha profondamente segnato il mio essere. Oggi vivo solo per ricordare quell’avvenimento, il trascorso di quel week-end gira nella mia testa come una moviola senza fine, un moto perpetuo, un ciclo infinito. Giorno dopo giorno la mia ragione, con voce muta, chiede la sua fine, invocando la morte, affinché possa darmi la tanto desiderata pace soffocando le voci che ancora mi rimbombano nella testa.
Voci fatte da parole per articolare ingenui dialoghi, oggi non altro che la condanna a rivivere quei momenti agghiaccianti.
Pronto!, risposi, come il solito, al terzo squillo del telefono.
E sì, pronto per partire? Sono Tommaso, novità?, domandò con euforia il mio amico e collega.
Ciao Tommy. Scusa, novità in merito a cosa?, chiesi distrattamente.
Cavolo, Giovanni, sei proprio fuori. Hai rotto i coglioni per settimane con la storia dello stress e che dovevi staccare la spina.
Scusami, hai ragione. No, nessuna novità di rilievo, balbettai quasi mortificato.
Allora non se ne fa niente?
Certo che sì! Ho dato un’occhiata su internet, ho qualche appunto..., replicai. A giudicare dal suo profondo sospiro, non fu difficile capire che non credeva alla mia affermazione.
Allora, come al solito, chiacchiere?, mi rispose dall’altro capo del telefono, accennando una breve risata, chiaramente non spontanea.
Sì... Scusa, no, volevo dire che ho trovato un fine settimana al lago, hotel con piscina, tennis, escursione a cavallo. Dai, ti mando il link sulla tua e-mail. Credo si possa fare, non costa neanche tanto. Pensione completa, sono... Non terminai di elencare l’offerta del pacchetto vacanza che Tommaso m’interruppe, alzando il tono di voce e sovrapponendola alla mia, per essere certo di zittirmi.
Lascia stare. Disse solo due incisive parole. Eccitato come un bambino, continuò a parlare: Reggiti forte, grande riposo. Pietro ha trovato un week-end da sballo.
Tommaso era entusiasta dalla notizia che m’aveva appena dato, al punto da ricordarmi quando, in un lontano passato, io, lui e Pietro saltavamo la scuola per cazzeggiare in città. Focalizzai l’attenzione su quella parola, che Tommaso aveva pronunciato con fervente eccitazione: sballo. Mi ritornarono alla mente i giri di spinello la sera nel parco, allorché, con falso stupore, chiesi: In che senso?
Nel senso che è questo ciò che ti serve, disse Tommaso. Dai, chiudi bottega e preparati. Pietro passa a prenderci alle sette. Senza ulteriori dettagli mi lanciò quell’ordine: aveva capito che il mio bisogno di evadere, anche se per poco, era così forte che non mi sarei sicuramente opposto.
Era fatta. Abbigliamento informale, jeans, scarpe da ginnastica, t-shirt bianca e maglione sulle spalle. Con la testa tra le nuvole, sistemai il tutto in un trolley che mi tiravo dietro come un cane al guinzaglio, considerandolo un fidato compagno di viaggio. Scesi le due rampe di scale che portavano al portone d’ingresso e lì attesi Pietro e Tommy, che sarebbero venuti a prendermi con quella mastodontica vettura. Come odiavo i SUV, li ho sempre considerati autocarri da passeggio, niente a che vedere con le berline: le vere automobili. Le eleganti berline con gli interni rivestiti in pelle, con la carrozzeria bassa sulla strada che quando le guidi ti sembra di essere schiacciato sull’asfalto. Nel fantasticare e nel pensare ad auto immaginarie, lo strombazzare di quel dannato carro a motore mi risvegliò.
Tommy aprì il finestrino e con la mano mi fece cenno di salire. Mi avvicinai alla portiera e, attraverso i vetri scuri, in una nuvola di fumo, notai una terza persona. Ci misi un po’ a focalizzarne la sagoma. Non potevo crederci, si erano portati dietro il greco: Laudas.
Quel rompicoglioni buono a nulla, traditore e spinellomane di un greco, che per una striscia di polvere si sarebbe venduto la madre. Aveva tirato brutti scherzi a mezzo mondo, compresi i due rinnegati nel SUV; aveva debiti con ogni essere in grado di respirare e se lo portavano dietro come un pascià. Ma no, che andavo a pensare, di certo lo avevano incontrato strada facendo e volevano portarlo fuori città per dargli una bella strizzata.
Ragazzi, avete caricato una merda? Che cazzo ci fa questo stronzo dietro?, chiesi a Tommaso, che aveva appena abbassato il finestrino per salutarmi.
Calma, Giovanni, Laudas è dei nostri ormai, Pietro lo ha assunto allo studio come aiutante portacarte, disse Tommaso, voltandosi verso di me e accennando un sorriso a denti stretti.
Dei nostri? Spero almeno che lo paghiate in modo decente. Non è un mistero che da voi gli stipendi sono così piccoli che per essere visti occorre il microscopio, azzardai con una battuta.
Tranquillo, vedrai che con il suo stipendio Laudas potrà ripagare tutti i suoi debiti, incluso ciò che deve a te. Non è vero, Laudas?, replicò ancora Tommaso.
Certo che ti ripagherà, magari inizierà con il montarti la tenda, rispose compiaciuto Pietro, mentre le sue dita giocherellavano sulla pelle del volante.
Anche la mia... Vero, Laudas, che monterai anche la mia tenda?, scherzò Tommaso, cercando di dare qualche pacca sulle cosce dell’amico greco, che frattanto aveva tirato giù il finestrino e fatto volar via, con un colpo d’indice, il mozzicone della canna.
Tenda? Non mi dite che facciamo campeggio?, chiesi, sperando di non aver intuito le loro intenzioni.
Basta, sali!, con un ordine categorico Tommaso interruppe la conversazione, e io, senza controbattere, presi posto sul sedile posteriore di fianco al greco.
Ciao Lau, salutai con lo stesso nomignolo che gli avevamo affibbiato al liceo, senza nascondere il poco entusiasmo per il terzo compagno di viaggio, mentre il SUV riprendeva la marcia.
In effetti non avevo mai legato con Laudas; a dire il vero, mi era stato sempre antipatico fin dai tempi della scuola. Era un’opportunista e non si creava problemi a fregarti la ragazza o scroccarti la pizza del sabato sera, ma non so per qualche strambo scherzo del destino era sempre tra i piedi ogni volta che c’era da organizzare baldoria. In ogni cosa che si organizzava mancava sempre qualcuno per fare numero e, puntualmente, quel qualcuno che tappava il buco era lui. Mai un segno di gioia o di rabbia, talvolta sembrava un’ombra, un uomo che non piangeva e non rideva quasi mai. Al liceo lo soprannominammo l’uomo di carta, per via del suo bianchissimo colorito, o il mezzo greco, per le sue origini: madre ellenica e padre italiano, due onesti e instancabili lavoratori che niente avevano trasmesso al figlio se non i propri caratteri genetici. Laudas odiava ogni genere di lavoro, non riusciva a mantenere i suoi impegni per più di qualche giorno, ma aveva un’abilità fuori del comune nel contrarre debiti con tutti, ripetutamente, senza mai restituire un centesimo di quello che prendeva. Anch’io avevo ceduto alle sue richieste, malgrado mi fossi ripromesso di non dargli altro denaro, ma Lau riusciva sempre a intessere nuove prospettive con le quali avrebbe utilizzato quell’ultimo prestito per mettere su delle imprese che gli avrebbero consentito di ripagare ogni arretrato. Tutto ciò non si era mai verificato, la sola cosa certa era la somma che si era accumulata e che non mi avrebbe mai più restituito. Me ne resi conto quando scoprii che quei soldi finivano nelle slot dei bar e alle bische. Laudas era malato: sì, malato per il gioco d’azzardo; la sua patologia non gli avrebbe permesso di fare grande strada nella vita, al contrario di Pietro, uno stimato avvocato con una spiccata tendenza da leader e una passione per le automobili. Lui e Tommaso avevano aperto uno studio legale, che causa dopo causa si era conquistato la fama del migliore su piazza. Se avevi una grana potevi andare da loro, ti avrebbero tolto le castagne dal fuoco. Non importava se avevi torto o ragione, tanto ai loro occhi saresti stato sempre innocente e l’unica cosa che importava era quella di proclamare quest’innocenza a gran voce.
Pietro era una guida autorevole per lo studio, come lo era quella mattina per il SUV, che teneva ben assestato sulla strada malgrado spingesse il motore su di giri. Riusciva, con consumata abilità, a non farti sentire il mal d’auto. La pelle dei sedili, però, quella no: nessuno poteva fermare l’odore nauseabondo del trattamento chimico del pellame, che mischiato al fumo dolciastro proveniente dalla canne che Laudas aspirava, senza mai smettere, contribuiva a tartassare il mio povero stomaco. La nausea non tardò ad arrivare e per farmela passare aprii il finestrino, giusto il necessario per un ricambio d’aria. Un rumore sordo invase l’abitacolo e l’autista notò immediatamente la differenza di stabilità della vettura. La cosa infastidì Pietro che gridò: Giò! Chiudi, per favore!
Che palle, pensai tra me e me, dovrò morire asfissiato. Non credo resisterò fino alla meta.
Ok, ok. Chiudo. Scusa, ma manca ancora tanto?, domandai, come se la faccenda del finestrino non fosse mai avvenuta.
Una trentina di minuti, chiarì Tommaso, mentre smanettava sul navigatore incastonato sull’ampio