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Ho visto: (j'ai vu)
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E-book171 pagine2 ore

Ho visto: (j'ai vu)

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Info su questo ebook

E se fosse un albero a raccontare le vite che gli passano davanti in una Parigi che non potrai non amare? E queste vite, queste esistenze, cosa lasciano nel ricordo di un essere così longevo da poterne raccogliere ogni sfumatura?   

Vite diverse che scorrono sotto gli occhi di un ciliegio, il cui germoglio sbuca sulla Butte di Montmartre nel 1885 e che nulla può fare se non registrare quanto accade.

*** Un romanzo che ti sorprenderà. Perché Mauro Acquaroni le storie te le sa raccontare con un piglio originalissimo.  ***
LinguaItaliano
Data di uscita20 dic 2021
ISBN9788868674229
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    Anteprima del libro

    Ho visto - Mauro Acquaroni

    1885 – Un piccolo ciliegio spunta dal suolo. Storia breve del giovane Olivier Ho visto

    Ho visto niente; appena uscito dal buio, nient’altro che bianco, se il bianco è niente; intorno il mondo si muoveva, lo percepivo, ma non potevo vederlo.

    Il mondo.

    Niente.

    Il giorno in cui sono nato ancora non lo sapevo che quella era neve; dicono che sia fredda, umida, fastidiosa, ma per me era calda, avvolgente, protettiva. In lei sono rimasto immerso, finché ho potuto, ma la primavera è arrivata, come dubitarne, e come sempre la neve si è sciolta, evaporata, assorbita dal buio del terreno da cui io ero emerso.

    E allora, solo allora, ho potuto liberare la vista, ma non molto oltre due passi; l’erba mi circondava e mi nascondeva al mondo, nemmeno potevo immaginarlo l’orizzonte, così lontano, così impossibile.

    Ho visto formiche frenetiche e devote al lavoro, per il quale erano nate, correre senza inciampare nei dubbi, su binari immaginari, inarrestabili, insensibili al caldo, al freddo, alla paura, a qualsiasi cosa che non fosse la loro missione.

    Ho temuto insetti e animali di ogni specie che si avvicinavano a me, aspiravano le mie essenze e poi si allontanavano dirigendosi verso altri profumi.

    Ho sentito tremare il terreno sotto passi pesanti che mi sfioravano senza affondarmi. Sono affogato nelle gocce di pioggia che di tanto in tanto cadevano da un cielo grigio che subito dopo tornava azzurro e mi scaldava con il suo sole. Talvolta sono stato schiacciato ma ho sempre trovato l’energia per rialzarmi. Ho ondeggiato sotto forti venti che mi sfioravano e proseguivano la loro corsa quasi ignorandomi nei primi tempi e ai quali, via via crescendo, ho imparato a oppormi sempre con maggior forza.

    La brezza leggera che talvolta sfiorava la Butte, la collina dolce sulla quale le circostanze mi avevano permesso di crescere, mi portava le polveri bianche delle pietre della grande chiesa alla quale tutti lavoravano ma che nessuno riusciva a finire; quella chiesa che tanti anni prima avevano deciso di costruire per ritrovare un po’ di coraggio dopo l’ingloriosa sconfitta nella guerra coi nemici prussiani che aveva lasciato profonde cicatrici nell’orgoglio gallico.

    Del resto era da Napoleone in poi che alla nostra grande armée non ne andava dritta una.

    Quella chiesa non la potevo vedere, non ancora, ma lo sapevo che stava per nascere, era lì, a poca distanza da me.

    Sapevo che doveva essere bianca, così bianca che nemmeno il fumo più denso avrebbe potuto ingrigirla.

    Immaginavo che saremmo stati destinati a crescere insieme.

    Ho visto uomini con i loro grandi carri trascinati dai buoi, trasportare tronchi e pietre e fermarsi di fronte a me, e con quei tronchi dare forma a una casa, e poi ancora a un’altra e a un’altra ancora, e ho visto quelle case animarsi di uomini, donne, bambini, animali di ogni specie e taglia.

    Ho imparato a riconoscerne i tratti e le voci e a tutti loro mi sono affezionato. Provavo gioia ai vagiti di ogni bimbo che, dopo di me, era uscito dal buio del non essere, e soffrivo ogni volta che percepivo le ultime esalazioni di vecchi dal volto amico che a quel buio tornavano; vecchi che non avrei mai più rivisto, perché se c’è una cosa che rende triste, è l’idea di avere irrimediabilmente perso qualcosa.

    Ho temuto mille volte di essere calpestato e mille volte mi sono salvato e così ho potuto crescere e avvicinarmi sempre di più al cielo, perché questa, alla fine, è la metafora della vita: sollevarsi da terra per raggiungere il cielo.

    Ho visto un giovane uomo che, come quasi tutti gli uomini, ma anche qualche donna, al tempo, si nascondeva dietro un paio di baffi rigogliosi come un arbusto in estate. Quell’uomo, dopo essersi liberato della polvere bianca della grande chiesa, alla cui crescita contribuiva anche lui, sul finire del giorno ripuliva lo spazio, che si trovava a pochi passi da me, dalle erbacce senza valore che lo infestavano e che mi nascondevano la vista. L’ho visto piantare la zappa nel terreno più e più volte e bagnare le zolle con secchi d’acqua e sudore. Faticava, sorrideva, cantava, ma questo non gli impediva di fare la corte a tutte le ragazze che con lui lavoravano. Dopo aver preparato il terreno, quell’uomo, vi aveva innestato tralci di vite e presto su quei tralci erano comparsi tanti grappoli d’uva, che ogni anno venivano raccolti in grandi ceste di vimini.

    E durante la raccolta, quel giovane uomo, che era alto, bello, spiritoso e che rispondeva quando qualcuno lo chiamava al nome di Olivier, trovava mille modi per scherzare con quelle ragazze slanciate, graziose e assetate di vita, che non ne disdegnavano le attenzioni.

    Ho visto, da lontano, a fatica, dalla collina su cui crescevo, un brulicare di uomini simili a formiche che frustavano cavalli, trascinavano carri nel fango, accendevano roghi, scavavano, urlavano, e intanto innalzavano uno scheletro di ferro e bulloni che partiva da quattro enormi piedi di cemento e si dirigeva verso il cielo con la chiara intenzione di volerlo pungere; e ho udito le grida di lavoratori che rivendicavano diritti e le imprecazioni per i costi che aumentavano e i tempi che si dilatavano, gli sberleffi di chi riteneva quel progetto irrealizzabile e le proteste per chi considerava quello scheletro uno sfregio ai solidi palazzi in pietra che nobilitavano la città, senza che nulla di tutto ciò potesse arrestare in alcun modo quei lavori.

    Quell’albero artificiale, quello scheletro ottimista, quella dimostrazione di potere e di capacità, cascasse il mondo, a dispetto di pochi previdenti benpensanti bacchettoni, doveva arrivare al cielo entro il mese di marzo di quell’anno.

    Dell’Anno Domini 1889.

    L’Esposizione Universale, la gloria nazionale lo imponeva, così doveva essere e così era stato.

    L’uomo aveva realizzato la sua cima più alta.

    Scriveva un giornalista di Le Figaro, salito fra i primi su quello scheletro:

    « Il mont Valérin, Montmatre, le alture di Sannois, sembrano macchioline grigie; il bosco di Saint-Germain si dilegua nella foschia azzurrina, la Senna diventa un inoffensivo ruscelletto, attraversato da chiatte lillipuziane, e Parigi sembra un piccolo palcoscenico con strade dritte, tetti quadrati e linde facciate. I puntini neri rappresentano la folla. Ovunque tutto sembra privo di vita, tranne la massa verdeggiante del Bois: in questa immensità non vi è un movimento percepibile; nessun rumore che possa far pensare alla vita della gente là sotto. Si direbbe che, in pieno giorno, un improvviso torpore abbia reso la città inerte e silenziosa».

    Quell’albero che non regalava frutti, avrebbe dovuto essere il costoso gioco di una sola stagione, destinato inizialmente a essere abbattuto non appena lo stupore che aveva evocato sarebbe cessato.

    Poi si era deciso di tollerarne il profilo al massimo per una ventina d’anni, niente in confronto all’eternità.

    E invece…

    Ogni tanto succede che il provvisorio diventi stabile.

    E mentre quegli uomini sudavano, imprecavano e lottavano con il vento, l’equilibrio e i troppi criticanti, fra le viti che crescevano intorno a me, il giovane Olivier e le ragazze slanciate si rincorrevano, e talvolta si abbracciavano e rotolavano nell’erba fino a sfiorarmi, ma ero ormai abbastanza robusto perché si accorgessero di me, e non mi schiacciassero.

    Le mani di Olivier erano forti ma delicate e il corpo che accarezzavano era altrettanto delicato ma anch’esso forte. «Quando la metterai a posto quella testa matta eh, Olivier?» gli ripetevano spesso, ma la sua idea, al momento, era solo quella di mettere le sue mani a posto, al giusto posto, sotto la camicetta e le gonne di quel corpo delicato ma forte, che però, helas, non era sempre lo stesso.

    Ho visto il giovane Olivier asciugare con il proprio respiro le lacrime di una ragazza pallida che si accarezzava il ventre, delicatamente. «Non preoccuparti» le sussurrava «troveremo una soluzione, non sono uno che si sottrae alle sue responsabilità, si farà quel che va fatto» e sulle guance umide della ragazza tornava il colore che era scomparso.

    E ho rivisto il giorno dopo lo stesso Olivier asciugare con un fazzoletto il suo sudore e le lacrime di una ragazza pallida, un’altra, che si accarezzava il ventre, delicatamente. «Non preoccuparti» le sussurrava «troveremo una soluzione, non sono uno che si sottrae alle sue responsabilità, si farà quel che va fatto» parole cui era ormai allenato, e sulle guance umide della ragazza tornava il colore che era scomparso; ma questa volta il giovane Olivier non riusciva a trattenere le sue, di lacrime.

    Come avrebbe voluto fuggire, lontano, dalle passioni, dai pensieri, dalle promesse, dalle responsabilità, da tutto, perché lui, alla fine, non si sentiva pronto per davvero, e poi così, con due allo stesso tempo… come avrebbe potuto… fosse stata una sola… ma così…

    Non sapeva che, in fondo, non aveva nulla di che preoccuparsi.

    Il destino aveva già deciso tutto per lui. Per tutti.

    Ho visto il fumo che usciva dalle ciminiere, sempre più numerose, ai piedi della collina su cui crescevo sereno ma che non mi impedivano, non ancora, di respirare aria pura e un giorno in cui un forte vento disperdeva quei fumi e spazzava la Butte, ho udito le urla di un uomo che precipitava dalla sommità della grande chiesa bianca in costruzione e che nessuno riusciva a finire, e dopo quell’urlo tante voci sommesse.

    Ho visto un carro nero, trainato da un cavallo vecchio e stanco, che non era più buono per un lavoro pesante, ma per un funerale sì, poteva bastare. Trasportava una bara di legno povero e scuro. Su quella bara due fiori. Solo due. E dietro quel carro, in prima fila, due giovani donne che piangevano carezzandosi il ventre, delicatamente, quel ventre che custodiva l’eredità di chi in quella bara stava facendo il suo ultimo viaggio. Braccia forti, al termine della deposizione, avevano coperto quel giaciglio di terra con una pietra grigia. Sopra una semplice incisione:

    Olivier Abadie 1868 ‒ 1890.

    Nemmeno il tempo di vedere crescere l’erba attorno a quella lapide e, quasi contemporaneamente, da poco lontano, con grande gioia, ho udito vagiti liberatori uscire da due case vicine.

    Erano nati e avrebbero loro imposto i nomi di Jean e Pierre.

    ​1890 – Jean, Pierre e Odette

    E così erano passati gli anni; le case si avvicinavano sempre di più a me, ma ormai ero già abbastanza cresciuto per non dovere temere di essere investito o strappato, tutti mi rispettavano, anzi, dal modo in cui mi osservavano e carezzavano capivo che si aspettavano qualcosa da me.

    Imparavo a conoscere il mondo e dalle altezze che avevo raggiunto il mio sguardo poteva già oltrepassare molte fra le case che mi circondavano e così riuscivo a vedere la città ai miei piedi che cresceva e che affascinava e attraeva uomini dalle campagne circostanti, come il nettare dei miei fiori attirava le api in un effluvio di pura sensualità.

    Perché questa è la natura e il destino di questa città ai miei piedi: aspirare ogni energia, ogni forza, ogni ricchezza nel proprio cuore, fino alla stella d’ottone del point zero al centro dell’ Île de la Cité, lasciando deserto e rimpianti fuori dai propri confini, approfittando dei contadini normanni e dei pescatori marsigliesi, perché Parigi è madre e matrigna, gioia e dolore, orgoglio e sfruttamento. Paris ce n’est pas la France, c’est Paris.

    Ho visto due ragazzi, due amici, crescere insieme, diversi fra loro ma con una cosa in comune: non avevano un padre. Non l’avevano mai avuto.

    Di lavorare al cantiere della grande chiesa bianca non se ne parlava proprio. Tanti giovani del quartiere ci mettevano le braccia, era un lavoro faticoso ma ti pagavano bene, e ciò nonostante le loro madri, entrambe, erano state categoriche: in quel posto, su quelle impalcature… mai! Senza dare spiegazioni, era così e basta.

    E allora i due amici avevano trovato lavoro giù, ai piedi della Butte, in città, in una grande officina meccanica, e la cosa non era così spiacevole, almeno al mattino. Scendere, insieme, alle prime luci dell’alba, era un piacere.

    Li vedevo partire con il

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