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Mandela. L'uomo della libertà
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E-book304 pagine4 ore

Mandela. L'uomo della libertà

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Info su questo ebook

Il diario inedito del carceriere che lo ebbe in custodia per vent'anni

La vera storia della prigionia di Mandela nel racconto del suo carceriere

Nelson Mandela ha davvero cambiato il mondo.
Leader indiscusso della lotta all’Apartheid e premio Nobel per la pace nel 1993, nel corso della sua esistenza ha pagato duramente per le sue scelte. In un Sudafrica dominato dal razzismo e dalla discriminazione, infatti, ha dovuto trascorrere dietro le sbarre ben 27 anni proprio per la sua battaglia contro la segregazione razziale. Questo libro racconta la sua vita, in particolare gli anni di detenzione nella prigione di Robben Island, grazie a una testimonianza unica: quella di Christo Brand, il suo carceriere. Nato e cresciuto in un Paese dominato dai princìpi dell’Apartheid, fondato sulla supremazia bianca e sulla discriminazione razziale, il giovane secondino inizialmente considerava Mandela un pericoloso terrorista. Ma – con il trascorrere dei giorni, dei mesi e degli anni – Brand ha cominciato a conoscere Nelson Mandela e ad apprezzarne la straordinaria umanità e integrità morale. E così quella che era un’iniziale avversione, se non una vera e propria ostilità, si è trasformata in rispetto e fiducia reciproci, dando vita a un rapporto umano eccezionale, che è poi proseguito fuori dalle mura del carcere. Tanto che quando Mandela divenne presidente del Sudafrica nel 1994 affidò proprio al suo vecchio carceriere un incarico negli archivi del parlamento. La loro amicizia è durata fino alla morte del grande leader africano.

Era il suo carceriere. Era stato addestrato all'odio razziale ma diventò il suo migliore amico.

«Quando Christo Brand arrivò a Robben Island, nel 1978, era solo un giovane secondino bianco favorevole all’Apartheid che non si poneva troppe domande. L’amicizia con Mandela lo portò a cambiare radicalmente le proprie opinioni su quell’uomo, sull’oppressione razziale e sul Sudafrica.»
The Guardian

«Un libro sulla vita di Nelson Mandela, scritto dall’uomo che lo ha tenuto in custodia durante la sua detenzione a Robben Island.»
The Bookseller


Christo Brand
Proveniente da una famiglia di braccianti agricoli, ha trascorso l’infanzia nella fattoria amministrata dal padre, senza conoscere le terribili violenze perpetrate dal regime dell’Apartheid. Una volta cresciuto, Christo inizia a lavorare come secondino nella prigione di Robben Island, dove gli viene affidata la sorveglianza di Nelson Mandela. In carcere, però, i due diventano amici, tanto che Mandela lo chiamerà a fare l’archivista parlamentare, una volta diventato presidente del Sudafrica, nel 1994. Oggi Brand si è trasferito di nuovo a Robben Island, dove dirige una libreria all’interno dell’antico carcere, che nel frattempo è stato trasformato in un museo dedicato al compianto leader politico, scomparso nel dicembre 2013.


Barbara Jones
Corrispondente dall’Africa per il «Mail on Sunday», ha seguito per il giornale inglese tutti i principali eventi accaduti nel continente nero negli ultimi anni, compresa la rivoluzione in Libia. Tra le sue prime interviste realizzate in Africa, c’è stata proprio quella concessale nel 2000 dal leader sudafricano. Vive a Cape Town con i suoi due figli.
LinguaItaliano
Data di uscita16 dic 2013
ISBN9788854163935
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    Anteprima del libro

    Mandela. L'uomo della libertà - Christo Brand

    188

    Titolo originale: Mandela: my Prisoner, my Friend

    © by Christo Brand and Barbara Jones, 2014

    By Agreement with Pontas Literary & Film Agency

    Prima edizione ebook: gennaio 2014

    © 2014 Newton Compton editori s.r.l.

    Roma, Casella postale 6214

    ISBN 978-88-541-6393-5

    www.newtoncompton.com

    Realizzazione a cura di Librofficina

    Immagine di copertina: elaborazione da ©HollandseHoogte/Hollandse Hoogte/Contrasto

    Christo Brand

    con Barbara Jones

    Mandela

    L’uomo che ha cambiato il mondo

    La vera storia della prigionia di Mandela

    nel racconto del suo carceriere

    A nome della nostra famiglia, siamo estremamente grati di essere qui, dove uomini di tale coraggio hanno affrontato l’ingiustizia e si sono rifiutati di cedere. Il mondo ringrazia gli eroi di Robben Island, i quali ci ricordano che nessuna cella e nessuna riduzione in ceppi potrà mai eguagliare la forza dello spirito umano.

    Messaggio di Barack Obama, presidente degli Stati Uniti, sul registro dei visitatori di Robben Island, 30 giugno 2013.

    Prefazione

    Insieme a Nelson Mandela, Ahmed Kathrada venne condannato all’ergastolo nel 1964, in seguito al processo di Rivonia. È stato in carcere per venticinque anni; dopo la liberazione, ha prestato servizio come consigliere parlamentare del neo eletto Mandela e poi come presidente del consiglio museale di Robben Island. Nel 2004 è stato inserito, al 46º posto, nella lista dei cento grandi sudafricani stilata dalla South African Broadcasting Corporation 3.

    La mia impressione da sempre è che Christo Brand sia una persona molto buona. Non è un politico, solo un uomo premuroso che ha rischiato per aiutare il prossimo, e per questo avrebbe potuto cacciarsi in grossi guai.

    Questo libro verte ovviamente sul suo rapporto con Madiba mentre era in prigione, ma anch’io, quando ero incarcerato, ho potuto sperimentare l’umanità di Christo. Non ho avuto effettivamente a che fare con lui a Robben Island, quando iniziai a scontare il mio ergastolo, insieme a Madiba, il 13 giugno 1964. L’ho incontrato solo dopo il mio trasferimento sulla terraferma, nella prigione di Pollsmoor: era l’ottobre 1982; dopodiché abbiamo avuto numerosi scambi.

    Tutti avevamo capito che Christo era un individuo buono, e che avrebbe potuto aiutarci, ma Madiba ci diceva di non approfittare delle giovani guardie, perché le avremmo messe in difficoltà. Ci chiedeva di non servircene per scopi politici, per esempio inviare messaggi o cose di questo genere. Perciò, lui non ha fatto questo per noi. Ma ha fatto molte altre cose.

    Uno dei miei primi ricordi su quanto Christo fosse diverso dai secondini brutali cui eravamo abituati risale a quando mi permisero di ricevere le visite del mio avvocato, Dullah Omar. Era da un pezzo che volevo parlare con lui e ne ebbi finalmente la possibilità quando, dopo aver conseguito due diplomi di laurea presso la University of South Africa, le autorità del penitenziario vietarono la mia iscrizione al corso di specializzazione. Allora dissi che mi sarei rivolto a un tribunale e chiesi di vedere Dullah.

    In una delle prime visite, Omar portò due pacchetti di samosa: uno per le guardie e l’altro, dopo che essi l’ebbero accettato, per me, se fosse stato possibile farmelo avere. Christo ci fece il favore. In quel periodo, Farida, la moglie dell’avvocato, aveva una bancarella di frutta e verdura al mercato Salt River di Città del Capo, per cui ci accordammo affinché Christo andasse da lei a prendere della frutta per noi; lei gliene avrebbe data un po’ anche per la sua famiglia. In seguito, Dullah arrivava con la sua borsa da avvocato piena zeppa di cibo, e non ci sarebbe entrato neanche un codice. Christo lo sapeva e chiudeva un occhio.

    Ma fece perfino di meglio, dandomi una mano con alcune visite extra. Organizzava le cose in modo da farmi vedere persone che non avrei dovuto, almeno secondo le regole, per esempio la professoressa Fatima Meer, altri attivisti politici e alcuni membri della mia famiglia. Non dimenticherò mai il giorno in cui si sposò a Città del Capo una mia nipote: Christo fece sì che quasi tutto il corteo nuziale mi facesse, illegalmente, visita in prigione. Preparò al piano superiore un locale speciale in cui potei vedere tutti, bambini e adulti. Con i primi mi intrattenni un paio di minuti soltanto: essi sfilarono nella stanza portando con sé luce e sorrisi, una cosa rara e magnifica per un prigioniero. Un po’ più di tempo lo passai con ognuno degli adulti.

    Christo mi consentì di vedere pure degli attivisti politici detenuti a Pollsmoor: un gesto molto più pericoloso per lui che per me, in un certo senso. Negli anni Ottanta vigeva lo stato di emergenza e migliaia di attivisti antiapartheid erano stati rinchiusi a Pollsmoor. Le loro famiglie non sapevano nemmeno dove fossero o se stessero bene, ma Christo mi permise di vederli. Un giorno mi portò da Trevor Manuel, a cui era assolutamente proibita qualsiasi visita. Trevor, che sarebbe poi diventato ministro delle Finanze sotto Madiba e altri presidenti, era in isolamento da due anni quando Christo mi accompagnò nella sua cella.

    Per lui, era un regalo enorme poter parlare con me: la prigione ci aveva isolato dal mondo per due decenni. Erano disponibili solo le nostre vecchie fotografie, di quando eravamo molto più giovani, sebbene fosse un reato possederle. Potete immaginare l’effetto che fece su Trevor la nostra visita, oltre a darmi l’occasione di portargli i saluti di Madiba e Walter Sisulu, fra gli altri. Questo lo rincuorò enormemente. A un certo punto, Christo mi permise di donargli una poesia per spronarlo. Un’altra volta, mi portò da Matthew Goniwe, un attivista della provincia del Capo orientale che, dopo la sua liberazione, è stato ucciso dal servizio di sicurezza.

    Siccome eravamo del tutto isolati, non sapevamo nulla dell’

    AIDS

    e, una volta, Christo ci raccontò che erano stati catturati in Angola, e rimpatriati, sette guerriglieri dell’

    ANC

    positivi all’

    HIV

    . Un giorno, mentre eravamo all’aperto, questi ci corsero incontro per abbracciarci. Noi tememmo di esser stati contagiati dal loro affetto. Ma quella stessa sera, dopo che ci rinchiusero di nuovo in cella, ci capitò di vedere Christo che camminava sottobraccio con queste persone nel cortile. La sua immagine con i guerriglieri sieropositivi – e quella della principessa Diana, che vedemmo in televisione mentre coccolava un bambino che aveva contratto il virus – fugò i nostri sospetti; soprattutto perché lui non era affatto a disagio con quei prigionieri.

    A causa delle difficoltà di comunicazione con gli altri attivisti imprigionati, ci piazzavamo sotto le loro celle per parlare, in modo da far sentire ciò che stavamo dicendo. Era il nostro modo di trasmettergli le informazioni. Christo era consapevole del nostro sotterfugio e, dimostrando di nuovo una buona dose di umanità, non fece niente per impedirlo. Nell’ottobre del 1989, quando ci trasferirono nel penitenziario di Johannesburg, pochi giorni prima che ci liberassero, avevo due televisioni. Ne lasciai una a Christo per i detenuti e lui gliela diede. L’altra la tenne nel suo garage e me la restituì cinque anni dopo, nel momento in cui tornai a Città del Capo come deputato.

    Una delle cose più importanti che Brand ha fatto per noi è accaduta nel 1986, qualche mese dopo che Madiba era stato messo in isolamento, per cui non avevamo idea di ciò che gli stava succedendo. Christo venne da me e mi fece: «Devo dirle una cosa, ma so che poi andrà a riferirla a Sisulu e agli altri».

    Risposi: «Allora non me la dica».

    Ma ovviamente mi passò l’informazione, raccontando che la sera precedente avevano scortato Madiba fino alla casa di Kobie Coetsee, il ministro della Giustizia. Per noi era sufficiente: in questo modo sapevamo cosa stava bollendo in pentola. Ne deducemmo che Mandela aveva cominciato i negoziati col nemico. Poco dopo, infatti, volle vederci a Pollsmoor per comunicarci che erano iniziate le trattative, su sua precisa iniziativa, per indurre il governo a scendere a patti con l’

    ANC

    . Christo ci raccontava inoltre di tutte le volte che doveva scortarlo in auto; spesso erano le uniche notizie che avevamo su di lui, e per questo erano tanto importanti.

    Nei fine settimana in cui non era in servizio il sergente James Gregory, un’altra guardia, Christo mi convocava in ufficio per farmi leggere le lettere che il suo collega aveva rifiutato di consegnarmi. Le avevano accumulate per anni, insieme a pacchi di copie di «Indicator», un settimanale antirazzista fondato da Ameen Akhalwaya, che ci spediva ogni numero in uscita. Se poteva, Christo me ne portava un bel po’.

    E poi c’era sua moglie: si era messa a prepararmi delle torte. Ogni Natale me ne regalava una, me la portava Christo stesso, e questa tradizione dura ancora oggi.

    Nella vita di un prigioniero, avere un agente di custodia come Brand fa un’enorme differenza. In precedenza avevamo avuto secondini spietati, sembravano veri criminali, anche se naturalmente non potevano toccarci. Quando arrivarono le guardie più giovani, le cose cambiarono perché non li avevano indottrinati contro di noi. Eppure, Christo spiccava per la sua cortesia e la sua umanità, si distingueva anche dai nuovi colleghi.

    Dopo che fummo liberati, il nostro rapporto è proseguito e, quando lui si è licenziato, mi sono dato da fare affinché trovasse un impiego negli uffici dell’assemblea costituente. In seguito, quand’era pronto per un altro lavoro, gli trovai il posto che occupa adesso al museo di Robben Island.

    Peraltro, è uno che lavora sodo, sempre pronto a dare una mano in qualsiasi attività, disposto a fare gli straordinari, una cosa per cui il resto del personale è riluttante. Ha gestito il nostro negozio al Nelson Mandela Gateway sull’isola, facendolo fruttare. Non solo produceva profitti, ma se la cavava bene nelle relazioni umane, perché a lui piace parlare. Per esempio, mentre si stava recando all’isola, una donna si era fermata nel negozio per comprare una bottiglia d’acqua e Christo, notando il suo accento, le chiese simpaticamente: «Lei è americana?»

    «Sì».

    Senza altre informazioni, le domandò ancora: «Conosce un uomo che si chiama Bob Vassen?» (è un mio amico, che allora insegnava alla Michigan State University).

    La donna replicò: «Certo, insegniamo nello stesso istituto».

    Era appena uscito il mio libro, A Simple Freedom, e Christo ne aveva una scatola piena; non era ancora in vendita, ma lui non si preoccupò di chiedermi il permesso, per cui le propose: «Le piacerebbe acquistare questo volume?»

    «Certo che mi piacerebbe».

    «Vorrebbe anche l’autografo dell’autore?».

    Così incontrai questa donna, che si rivelò essere la professoressa Marcie Williams. Da una bottiglia d’acqua è quindi nata una forte amicizia che dura tuttora. Anzi, mi hanno perfino conferito un dottorato presso l’University of Massachusetts, il tutto grazie a quella bottiglia.

    Spero sinceramente che questo libro di Christo riceva le attenzioni e la considerazione che merita, poiché si tratta di uno strumento in più tra i volumi che raccontano la nostra prigionia nell’epoca dell’apartheid. E poi è stato scritto da un uomo di valore. È una testimonianza unica, perché è il resoconto più onesto che abbia mai letto da parte di un secondino riguardo al suo rapporto con Nelson Mandela, e solo per questo meriterebbe rispetto. Auguro a Christo tutto il successo del mondo.

    Ahmed Kathrada

    ottobre 2013

    Prologo

    Nelson Mandela trascorse l’infanzia nella provincia del Capo orientale, in Sudafrica. Lì passava le giornate a scorrazzare con gli amici tra le verdi e dorate colline intorno al villaggio di Qunu. È stato lui stesso a parlare di quegli anni come dei più felici della sua vita: i passatempi preferiti erano mirare agli uccelli con la fionda, raccogliere frutta dagli alberi, pescare e bere il latte tiepido direttamente dalle mucche.

    Proprio come me, di tanto in tanto badava alle pecore, poi, dopo aver giocato fino al tramonto, faceva ritorno nella piccola dimora in cui viveva con la famiglia per cenare e ascoltare le storie che sua madre raccontava intorno al fuoco.

    Da bambino, non sperimentò l’apartheid. Al sicuro, nel suo piccolo mondo, non c’erano minacce immediate e la sua fu un’infanzia protetta all’interno della comunità rurale degli Xhosa, cui apparteneva.

    Anch’io crebbi ignorando le crudeli barriere razziali che esistevano nel nostro Paese. Mio padre era capo dei braccianti in una fattoria situata in una zona fertile della provincia del Capo occidentale. Per tutta l’infanzia giocai con i bambini neri e meticci che vivevano con noi lì a Stanford, a molti chilometri dalla città.

    A posteriori si può affermare che sia io sia Mandela godemmo di un’infanzia piena di innocenza e meraviglia, anche se a diversi anni di distanza l’uno dall’altro. Entrambi siamo stati cresciuti nella tradizione cristiana, da genitori severi ma amorevoli, che ci hanno insegnato a distinguere tra giusto e sbagliato. La casa e la famiglia erano le uniche cose importanti, si veniva premiati quando ci si comportava bene e puniti se si agiva in maniera scorretta.

    Entrambi, in mondi contrapposti e secondo differenti modalità, imparammo a conoscere tutta la crudeltà delle leggi dell’apartheid, finché molti anni dopo questi due mondi entrarono in collisione a Robben Island, la tetra prigione di massima sicurezza in cui lui scontava l’ergastolo e io ero il suo carceriere.

    Avevo diciannove anni quando mi trovai per la prima volta faccia a faccia con Nelson Mandela. Lui ne aveva sessanta. Fino a quel giorno non avevo mai sentito parlare di quell’uomo o del suo African National Congress (

    ANC

    ) o delle ragioni profonde che spingevano lui e i suoi compagni a rischiare la vita per la loro causa.

    Scoprii un uomo cortese e umile, nonostante fosse al tempo stesso il potente leader di molti altri prigionieri politici detenuti a Robben Island. Quando riuscivano a scorgerlo nei momenti d’aria, iniziavano ad acclamarlo in coro: «Amandla! Potere al popolo». Cantavano e gridavano sollevando il pugno in aria, ma lui non poteva rispondere: erano le regole. Doveva passare limitandosi appena a un cenno del capo nella loro direzione.

    Era il loro leader carismatico, la ragione per cui si trovavano sull’isola, eppure la maggior parte degli altri prigionieri non l’aveva mai incontrato. Anche queste erano le regole.

    Mandela, prigioniero modello e grandioso capopopolo allo stesso tempo, mise la mia giovane mente in subbuglio. Vedevo, da parte sua, il rispetto per il mio lavoro e la comprensione verso il regime rigido a cui ero costretto a sottoporlo se volevamo entrambi sopravvivere. Lo vidi strofinare pavimenti, svuotare il secchio dei suoi bisogni, pulire il cortile in cui trascorreva l’ora d’aria – a volte in ginocchio – e, con altri prigionieri, curare il piccolo giardino in cui coltivava peperoncini e verdura per variare il disgustoso menu della prigione.

    Anche se ero solo un ragazzo, mi chiamava Mr Brand. Io lo chiamavo Mandela. Con il tempo, superando l’opposizione dei nostri due mondi, diventammo amici capaci di scambiarsi gentilezza e considerazione.

    Dopo diciotto lunghi e difficili anni a Robben Island, Mandela fu trasferito nella prigione di Pollsmoor, sul continente, in un estremo tentativo del governo di disperdere l’alto comando dell’

    ANC

    . Io ero lì con lui e i suoi compagni.

    In seguito lo spostarono nella prigione di Victor Verster, dove ebbe un alloggio privato e continuò i tentativi di dialogo con i leader di governo che aveva avviato durante il periodo di isolamento a Pollsmoor. Stava emergendo come figura chiave dei negoziati per porre fine ai giorni bui del Sudafrica. Nel corso di molti, tortuosi anni, il processo di riconciliazione si era andato affermando poco a poco. Ancora una volta, ero con lui durante quel periodo.

    Il giorno della sua scarcerazione fu stabilito che dovesse varcare i cancelli della prigione da uomo libero, con la moglie Winnie al suo fianco e nessuna guardia alle spalle. Perciò assistetti a quel momento straordinario dalla

    TV

    di casa mia, con un groppo in gola e le lacrime agli occhi. Sembrava incredibile, mi dissi, ma il nostro viaggio insieme era finito.

    Invece Mandela mi chiamò qualche settimana dopo. Voleva mantenere i contatti. Da allora ho fatto parte della sua vita: c’ero nei momenti importanti e sono onorato di essere considerato ancora oggi un membro della famiglia.

    Scrisse del suo «lungo cammino verso la libertà», ebbene, io ho fatto un pezzo di quella strada con lui, un viaggio incredibile che oggi definisce la mia vita, così come la sua, almeno per certi versi.

    A dire il vero, la mia vita è cominciata molto tempo dopo la sua. Ragazzino afrikaans bianco cresciuto nella stessa cultura che creò Mandela il rivoluzionario, non avevo idea che quella strada mi avrebbe condotto fino a lui.

    Capitolo uno

    Sono cresciuto in una piccola fattoria appena fuori Stanford, un pittoresco villaggio sorto in una valle montana attraversata da un fiume, vicino all’oceano Atlantico, a due ore di macchina da Città del Capo, la metropoli. La nostra fattoria si chiamava Goedvertrouw, che in olandese vuol dire buonafede. Avevamo la nostra piccola scuola in una fattoria vicina, e fu lì che mi mandarono a cinque anni. Con la pioggia o con il sole, ogni mattina dovevo farmi a piedi gli otto chilometri di strada fino alla fermata dell’autobus più vicina. Ma spesso uno dei braccianti, un africano che chiamavamo Chocolate, mi accompagnava a piedi oppure, se la sua bici era in buone condizioni, mi metteva a sedere davanti e mi dava un passaggio. Non abbiamo mai saputo il vero nome di Chocolate. Era sempre lì, e basta. Non aveva parenti e ha passato l’intera esistenza a lavorare nella fattoria e ad aiutare mia madre in casa.

    La nostra famiglia versava sempre in ristrettezze, con pochi soldi e niente lussi. Ma avevamo ugualmente una vita ricca: magari non avevamo molto, ma quel poco era buono. C’erano patate arrosto e zucche gialle, zucchine e zucca ripiena di pangrattato con pisellini freschi. Quasi non conoscevo il sapore della carne, ma non importava.

    Dopo cena ci spostavamo nella stoep¹ esterna con le candele – non avevamo luce elettrica –; mio padre tirava fuori il violino, Chocolate la chitarra, e musica e allegria cominciavano a risuonare nella notte buia.

    La giornata iniziava presto e a volte proseguiva fino a mezzanotte, soprattutto quando le piogge invernali facevano scempio del raccolto o delle staccionate. A volte seguivo mio padre e Chocolate nel buio e tenevo la torcia mentre loro riparavano gli steccati sotto la pioggia battente. Nella regione del Boland² del Capo occidentale gli inverni erano spesso rigidi, il bucato si ghiacciava sulla corda e le mani diventavano blu per il freddo. Mentre le estati erano talmente torride da togliere il fiato.

    Sono stato cresciuto come un tipico afrikaner cristiano. So no stato battezzato nella Chiesa Riformista Olandese e ogni domenica assistevamo alle funzioni, seguite dal sonnellino pomeridiano. Durante le vacanze scolastiche e nel fine settimana, trascorrevo le giornate a bighellonare per la fattoria con i miei amici, i figli dei lavoranti africani e meticci.

    A scuola, però, i miei compagni erano esclusivamente bianchi. Devo confessare che all’epoca notavo appena questa divisione, ma in realtà la nostra minuscola scuola di due sole classi era riservata ai figli bianchi dei proprietari delle fattorie e dei loro amministratori e capobraccianti. I bambini mulatti e africani frequentavano un’altra scuola ai piedi della collina.

    All’andata e al ritorno, però, ci incontravamo tutti alla fermata dell’autobus, e spesso, se faceva freddo e c’era da aspettare a lungo, accendevamo un fuoco proprio lì sul terreno polveroso. Ma non parlavamo mai del perché ci fosse la segregazione a scuola. Eravamo bambini – innocenti, immagino – e lo prendevamo semplicemente come un dato di fatto.

    A casa giocavo con altri bambini bianchi solo quando le sorelle di mia madre venivano con la famiglia a farci visita da Città del Capo nei fine settimana. Mio cugino e io ci alzavamo di buon mattino, e Chocolate ci accompagnava a cacciare conigli e piccioni.

    Poi un giorno Chocolate svanì nel nulla. Ancora oggi non so cosa gli sia successo, ma probabilmente venne arrestato perché lo trovarono da qualche parte privo di lasciapassare. Le leggi riguardo i documenti di circolazione di neri e mulatti erano famigerate. Lo chiamavano dompas, stupido lasciapassare, in senso spregiativo, e governava la vita di quanti non erano bianchi.

    Mio padre cercò di scoprire che fine avesse fatto Chocolate, ma invano. Accettammo la cosa come parte della vita di un africano in quei tempi. Uomini come lui provenivano da famiglie numerose e povere, che vivevano in baracche senz’acqua né elettricità o servizi igienici. Forse Chocolate aveva perso i genitori a causa della malnutrizione o della tubercolosi e se n’era andato in cerca di lavoro. Non possedeva beni né istruzione e non era stato registrato alla nascita, quindi non aveva documenti d’identità.

    Era stato fortunato a trovare un lavoro e un ricovero quando i miei genitori lo avevano accolto.

    Chocolate era considerato un lavoratore non specializzato, nonostante la sua abilità nell’aggiustare qualsiasi cosa nella fattoria e nell’insegnare a un bambino come me a pescare e cacciare, e riparare steccati e accudire animali. Non aveva curriculum e poteva essere fagocitato dal sistema come tantissimi africani del tutto privi di valore nello stato dell’apartheid.

    Sarebbe stato costretto a portare con sé un dompas ovunque andasse ed era obbligato a mostrarlo in occasione di un qualunque controllo casuale della polizia, per dimostrare di essere autorizzato a stare dov’era. Ma Chocolate non aveva alcun dompas: ufficialmente non esisteva nemmeno.

    Se era stato fermato dalla polizia fuori dalla nostra fattoria, soprattutto di notte, si era ritrovato in una cella, dove la sua vita non valeva nulla. Molte centinaia di migliaia di sudafricani neri scomparvero in quegli anni. Non era conveniente, né sicuro, fare troppe domande. Il povero Chocolate era solo un’altra vittima dell’apartheid. Ci mancava, ma vivevamo in uno stato di polizia, in cui i nostri stessi diritti erano limitati. Mio padre avrebbe voluto chiedere informazioni alla stazione di polizia locale, ma non sarebbe stato sorpreso della loro mancanza di interesse. Per loro non era che un altro africano nomade senza nome.

    Il sistema dell’apartheid in Sudafrica è stato uno degli esempi più crudeli di razzismo legittimato del mondo. Ispirato dalla nozione di supremazia bianca portata in Sudafrica dai suoi primi conquistatori, gli olandesi, presto seguiti dagli inglesi, il Partito Nazionale di parlanti afrikaans stabilì le leggi per la segregazione razziale quando salì al potere nel 1948.

    Per decenni, i sudafricani neri sono stati schiavi, o servi, o lavoratori sottopagati al servizio degli interessi degli intrusi bianchi. Quando furono introdotte le leggi per l’apartheid, erano già stati privati del diritto di voto, e il Native Land Act del 1913, introdotto dagli inglesi, aveva tolto loro il diritto di possedere della terra. Ora venivano messi alla mercé di ulteriori restrizioni invalidanti, attraverso numerosi decreti che il parlamento aveva votato per spadroneggiare sulle loro vite e assicurarne il degrado.

    Così come le odiatissime leggi sulla circolazione, il Reservation of Separate Amenities Act del 1953 introdusse i ben noti cartelli ufficiali con la scritta

    SOLO BIANCHI,

    che iniziarono ad apparire in ogni luogo pubblico, inclusi gli aeroporti e, persino, i cimiteri. Ai neri era proibito frequentare le stesse spiagge, autobus, panchine, ospedali, scuole o bagni pubblici dei bianchi. Il Prohibition of Mixed Marriages Act e l’Immorality Act mirarono a impedire relazioni sessuali tra razze diverse. E il Bantu Education Act, forse la legge più crudele di tutte, sancì che

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