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E-book956 pagine15 ore

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Info su questo ebook

Le veglie ad una fattoria presso Dikan’ka • Mirgorod • I racconti degli Arabeschi • Il naso • Il cappotto • Il calesse • Roma

Premessa di Filippo La Porta • A cura di Leone Pacini Savoj
Edizioni integrali

Dalle immagini romantiche del folclore popolare ucraino de Le veglie ad una fattoria presso Dikan’ka agli eventi spesso minuti e insignificanti di Mirgorod, spunto per orchestrazioni narrative in cui si esplorano attentamente tutte le dinamiche della rappresentazione; dai magici Arabeschi, in cui l’arte gogoliana raggiunge vertici altissimi, spostandosi disinvoltamente dalla creazione fantastica agli spaccati di vita pietroburghese, al grottesco che caratterizza storie come Il cappotto e Il naso, i racconti di Gogol’ rappresentano i molteplici aspetti e livelli della sua straordinaria ispirazione. E ci offrono tutte le infinite possibilità della sua immaginazione comica, gli esiti imprevedibili di una smisurata fantasia figurativa, il senso profondo della sua visione surrealista del mondo, i suoi complessi e articolati percorsi psicologici, un universo vario e multiforme di personaggi gretti e meschini protagonisti di vicende al limite del nonsenso, narrate con uno stile straordinariamente originale.

«Non passava un sol attimo di un sol minuto che egli non sentisse di avere sulle spalle il cappotto nuovo, e già più di una volta gli era affiorato al labbro un sorriso di interna beatitudine. In effetti il cappotto aveva due virtù: in primo luogo era pesante, e, in secondo, elegante. Della strada non si accorse neppure e si ritrovò a un tratto in ufficio; in portineria si tolse il cappotto, lo esaminò da ogni lato e lo affidò alla sorveglianza particolare del portiere.»



Nikolaj Vasil’evič Gogol'

Nikolai Vasil’evič Gogol’ nacque a Soročincy, nel governatorato di Poltava, in Ucraina, nel 1809. Nel 1828 si trasferì a Pietroburgo, entrando presto nell’ambiente letterario. Nominato nel 1834 professore di storia all’Università, si dimise dall’incarico l’anno successivo. Nel 1836 lasciò la Russia e cominciò a peregrinare per l’Europa; fu a Parigi e a Roma. Scrisse racconti, novelle, saggi critici e drammi teatrali. Morì a Mosca nel 1852.
LinguaItaliano
Data di uscita16 dic 2013
ISBN9788854138544
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    Anteprima del libro

    Tutti i racconti - Nikolaj Vasil'evič Gogol'

    307

    Titoli originali: Večery na chutore bliz Dikan’ki, Mirgorod, traduzione di Leone Pacini Savoj,

    Arabeski, traduzione di Nice Contieri (Il ritratto) e Leone Pacini Savoj (Il corso Neva, Il diario di un pazzo);

    Nos, Šinel’, Koljaska, traduzione di Leone Pacini Savoj;

    Rim, traduzione di Nice Contieri

    Prima edizione ebook: febbraio 2012

    © 2001 Newton & Compton editori s.r.l.

    © 2008, 2012 Newton Compton editori s.r.l.

    Roma, Casella postale 6214

    ISBN 978-88-541-3854-4

    www.newtoncompton.com

    Edizione elettronica realizzata da Gag srl

    Nikolaj V. Gogol’

    Tutti i racconti

    A cura di Leone Pacini Savoj

    Premessa di Filippo La Porta

    Newton Compton editori

    Premessa

    Diciamolo subito: da Gogol’ discendono coerentemente Kafka e Paolo Villaggio (che ne è stato fedele lettore). La sua rappresentazione satirico-grottesca della burocrazia si proietta nelle pagine claustrofobiche del Castello, mentre i suoi impiegati – sfigatissimi, perdenti, frustrati – trapassano naturalmente in Fantozzi e Fracchia (oltre all’uso insistito dell’iperbole). E certamente nei suoi racconti si trattiene anche qualcosa della novella classica, della novella toscana che pur non cancellando la tragedia inclina al riso e alla beffa. Ma soprattutto l’opera di Gogol’ sembra fatta apposta per spiazzare le nostre categorie critiche. Da una parte il critico ottocentesco Belinskij, cui successivamente si ispirò il realismo socialista, lo considerava il «poeta della vita reale», un autore realista ante litteram che proprio per l’uso di una lingua spesso vernacolare, estranea a ogni squisitezza letteraria, scandalizzò i suoi contemporanei. Dall’altra lo scrittore russo può essere imparentato legittimamente con un successivo filone di realismo magico tutto novecentesco e impastato di psicanalisi, poiché ha dilatato il concetto di realtà fino a dissolverlo in una surrealtà che sconfina nel mentale e nell’onirico: basti pensare al naso che sparisce dal viso e se ne va a passeggiare per strada. Freud ci ha mostrato il carattere insondabile, insieme reale e fantasmatico, della realtà psichica, la quale non coincide necessariamente con la realtà fattuale. Ad esempio nella Introduzione alla psicoanalisi osserva che una scena infantile che non è mai avvenuta, che è stata solo immaginata può avere effetti patogeni al pari di un evento reale. Inoltre Gogol’ è stato anche oggetto di finissime analisi da parte della critica formalista. Ejchenbaum in un suo celebre commento al Cappotto, del 1919, ha sottolineato la secondarietà della trama rispetto al procedimento letterario (ruolo protagonista dell’autore stesso, prossimità di lessico e sintassi alla narrazione orale, ecc.), osservando tra l’altro che «nella memoria, rimane più di tutto l’impressione d’un certo ordine fonico, che si conclude con quell’emorroidale rimbombante e quasi, dal punto di vista logico, insensato, ma per questo insolitamente forte, per la sua espressività». Pur non conoscendo la lingua russa e non potendo dunque apprezzare appieno il ritmo e i valori fonici della prosa di Gogol’, perfino nella traduzione italiana possiamo percepirne la vivacità ed iper-espressività.

    Nel Ritratto incontriamo a un certo punto una dichiarazione involontaria di poetica in bocca al padre dell’io narrante, quel pittore che dipinse senza saperlo il diavolo stesso: non vi è soggetto troppo umile in natura. Nelle piccole cose l’artista-creatore è grande come nelle cose grandi; nelle spregevoli in lui non c’è nulla di spregevole... «poiché sono passate attraverso il filtro di quell’anima». Nei suoi racconti Gogol’ ritrae gli aspetti più spregevoli, misteriosi, inquietanti del reale, ma non ne resta prigioniero perché li trasforma in conoscenza, li filtra attraverso uno stile personalissimo, dotato di una accesa visività. Al cinema il Cappotto venne realizzato, tra gli altri, da Lattuada nel 1952 con ambientazione pavese e un memorabile Rascel, e il risultato fu un originale equilibrio tra neorealismo ormai declinante e umori surreali alla Zavattini (uno degli sceneggiatori). Ma oggi chi potrebbe portare Gogol’ sullo schermo? Forse i fratelli Coen. Va bene, l’ucraino Gogol’ in Taras Bulba dipinge gli ebrei in modo non benevolo (vendono acquavite ai polacchi) alimentando uno stereotipo razzista e dunque sembrerebbe distante dal mondo yiddish caro ai Coen. Eppure un film come A serious man, mescolando i demoni del folklore con la vita ordinaria e una ostinata interrogazione sul mistero del male, mi sembra permeato di spirito gogoliano. A loro un remake del Cappotto!

    Non sempre, naturalmente, Gogol’ è all’altezza di Gogol’. Condividendo il giudizio assai limitativo che Tommaso Landolfi, pur estimatore di Gogol’, ha dato del frammento Roma, interessante solo per certe parti saggistiche, mi piace però citarlo a proposito della irresistibile pagina satirica sui parigini (ci vuole un russo per smascherare la grandeur e vanità brillante dei francesi, come in seguito Tolstoj con Napoleone!). Sentite, sembra che stia parlando degli ultimi decenni di vita culturale parigina: «In quell’incessante ribollire di attività scorgeva una paurosa inazione, un pauroso regno di parole e non di fatti. Vedeva come ogni francese sembrava lavorare solo nella sua testa infiammata; come la lettura delle riviste e dei giornali consumasse la giornata e non lasciasse un’ora per la vita reale».

    Ma Gogol’, che riproduce perfettamente il ritmo peculiare del racconto, ha pure una attitudine all’affresco, alla sintesi di un’epoca, e in particolare troviamo in lui, qualche decennio prima di Baudelaire, una vocazione a cogliere l’essenza della metropoli moderna, il brulichio della folla solitaria e lo scintillio delle sue strade illuminate. E, se consideriamo che i suoi primi racconti – Le veglie ad una fattoria presso Dikan’ka – sono invece ambientati nei villaggi e nelle campagne, tra contadini e leggende popolari (sembrano le storie di viaggiatori incantati alla Leskov, mercanti, nomadi, cosacchi...), abbiamo una idea anche della estrema varietà tematica nell’opera gogoliana. A proposito di metropoli vorrei segnalare l’inizio del Diario di un pazzo, lì dove vediamo gli impiegati che sotto una pioggerella fitta al posto di andare al ministero si mettono a seguire le donne con il cappellino. O sul Corso Neva, nel racconto omonimo, all’ora del tramonto si incontrano «nella luce irreale e fascinosa» dei fanali una infinità di scapoli con i pastrani pesanti: «a quell’ora avverti nell’aria un certo scopo, o meglio, qualcosa che somiglia a uno scopo... i giovani archivisti ministeriali passeggiano a lungo ma i vecchi archivisti ministeriali restano a casa perché è gente ammogliata...» (chissà che la descrizione di Antonio Pascale dello struscio a Caserta, nel reportage Una città distratta, non sia stata ispirata da questa pagina?). O, come esempio di grandiosa pittura collettiva, l’arrivo di seminaristi e scolari al seminario del Monastero della Confraternita (in Mirgorod) con i quaderni sotto l’ascella al mattino presto: i grammatici che si urtano tra loro, con le tasche piene di porcherie e pasticcini morsicati, i retori più contegnosi ma con anomalie del viso («al posto delle labbra un’intera vescica...»), i filosofi intonati nella voce «un’ottava sotto» e con un fortissimo sentore di pipa... Ma è la descrizione di Pietroburgo nel Cappotto a contenere una spettacolare epopea del ceto impiegatizio: quando si fa sera «tutto il mondo degli impiegati ha ormai pranzato, e ciascuno come può, secondo il proprio stipendio e le proprie voglie, si è nutrito» e così «gli impiegati si affrettano a consacrare al piacere il tempo che ancor resta – chi, più in gamba, se ne va a teatro, chi a passeggio, dedicando quel tempo a sbirciar cappellini... chi, a una serata, a perderlo in complimenti rivolti a qualche ragazza appetitosa...», ecc. ecc.

    Si potrebbe osservare che i due grandi maestri del racconto moderno, Maupassant e Cechov, devono entrambi qualcosa a Gogol’, alla sua penetrazione psicologica, allo sguardo anti-convenzionale e sempre spiazzante sulle cose, allo smascheramento delle più sottili dinamiche nelle relazioni interpersonali e di potere. Ma vorrei fare una considerazione più generale – diciamo così teorica – che riguarda il genere del racconto, la sua specificità rispetto al romanzo. Credo che più di ogni altro scrittore Gogol’ ci mostri la natura perversa e trasgressiva di questo genere (assai più antico: discende direttamente dalla novella araba e indiana) rispetto al genere del romanzo (nato con la borghesia, nella modernità). In che senso? Secondo una critica di ispirazione freudiana la letteratura è formazione di compromesso: essa implica cioè il ritorno del rimosso (e del represso), in cui però il rimosso viene come addomesticato, imbrigliato dalla forma. Ora, la mia convinzione è che nel racconto, data la sua brevità, risulta molto più arduo addomesticare il rimosso. Non se ne ha il tempo! Mentre nella misura del romanzo, nel suo ritmo rallentato (che si dilata a contenere perfino la noia) alla fine la quotidianità tende ad assorbire i conflitti e a normalizzarli. Prendete il racconto Il ritratto. Tutto avviene in poche pagine, lasciando il lettore in uno stato di inquietudine. Il pittore alla moda Čartkov di fronte a un’opera venuta dall’Italia scoppia a piangere e comincia a dubitare del suo stesso talento, cade preda di una paranoia distruttiva e muore di febbre dopo aver fatto a pezzi tutte le migliori opere d’arte comprate nelle aste (la pazzia incombe su quasi tutti i personaggi gogoliani). E il ritratto demoniaco continua anche nella seconda parte, seminando scompiglio. Il tragico resta lì, sanguinante e senza soluzione. La forma-racconto è più disturbante, non ci consola come la forma rotonda e compiuta del romanzo. Non sarà un caso che l’unico romanzo gogoliano, Le anime morte, sia incompiuto, incapace di afferrare davvero la totalità, sempre sfuggente, della vita.

    E forse anche per questo la non temeraria editoria italiana attuale stenta a pubblicare racconti: ritiene che non si vendano, o che si vendano molto meno. Ma potrebbe trattarsi di un calcolo parziale, incapace di immaginarsi lettori più maturi e più disposti a correre dei rischi.

    FILIPPO LA PORTA

    Introduzione

    I.

    Pochi giorni prima della fine del 1828, da una diligenza in arrivo a Pietroburgo, si affacciava un naso volpigno seguito da due piccoli occhi «irrequieti come sorci che, sporto fuori dal buco il muso aguzzo, con muover di baffi annusassero l’aria» ¹.

    E l’aria «era un immenso sfolgorio: rumori, fracasso, luci. Muraglie di quattro piani si slanciavano in aria d’ambo i lati; carrozze passavano come turbini: il fragore delle ruote e degli zoccoli dei cavalli scrosciava come un tuono, assalendo da tutte le direzioni... i ponti tremavano; i cocchieri, i postiglioni sciabolavano l’aria di grida; la neve strideva sotto mille slitte sfreccianti in ogni dove; i passanti si addensavano in una calca compatta sotto i palazzi, e le loro ombre gigantesche apparivano e sparivano lungo le muraglie, radendo col capo i comignoli e i tetti» ².

    Una descrizione così suggestiva rivela una facoltà di investire le cose di un vigoroso interesse immaginativo, ma tradisce all’origine anche il candore del provinciale che per la prima volta contempla una metropoli, e scopre perfino negli aspetti più semplici sollecitazioni e pretesti per la meraviglia. Meraviglia, certo, giustificata in Nicola Gogol’, poiché se il suo naso aveva già fiutato da tempo l’esistenza di qualcosa di meglio d’una provincia, gli occhi soltanto adesso ne traevano conferma, e soltanto adesso si aprivano incantati sui grandi pascoli del mondo.

    È assai probabile che, se avesse avuto natura prudente e senso profetico, Gogol’ avrebbe guardato Pietroburgo con maggior diffidenza ³. Ma a diciannove anni la saggezza rischia d’essere un vizio; eppoi egli aveva sempre pensato a Pietroburgo come a una città favolosa: perciò gli sarebbe stato molto difficile poterla intravedere subito al di là dei suoi aspetti, e soprattutto al di qua delle proprie aspettative.

    Era nato in un borgo ucraino, a Soročincy, nel 1809, il primo aprile, e fino all’arrivo alla capitale la sua storia non aveva registrato alcunché di notevole. Il primo avvenimento importante fu appunto questo viaggio – il che può avere, forse, un certo peso in un uomo la cui vita sarà segnata da pietre miliari e fuochi di bivacco ⁴. A questo viaggio risalgono anche i primi contatti col mondo; mentre per i primi contatti col prossimo non si può davvero affermare con certezza come e quando avvenissero; seppur non v’è dubbio che con il prossimo Nicola Gogol’ fosse già in relazione fino dai tempi in cui frequentava il ginnasio di Nežin, a giudicare da come aveva ormai ottimamente imparato a considerarlo distinto da se stesso.

    Niente è più pericoloso di certe false sinonimie: occorrerà dunque spiegarci. Il mondo è un concetto piuttosto astratto: i nostri simili, o prossimo, vi hanno perduto ogni singolare sembianza, e si sono confusi entro una amabile nebbia per le cui iridescenze noi proviamo una istintiva e quasi invincibile attrazione. Il mondo lo contempliamo pensosi e ammirati, anche se non sapremmo distinguerlo mai nettamente dalla nostra persona, la quale sta indisturbata al centro di esso con tutte le sue personali sembianze. Il prossimo è, all’opposto, cosa molto concreta. Non si può dire esattamente che lo contempli: lo si ha sott’occhio – e così vicino che non c’è difetto che sfugga. L’esperienza immediata di esso genera in noi conseguenze notevoli; e di tale natura che possiamo affermare senza esitazione che distruggono e annullano in noi il concetto di mondo.

    Il contrasto fra prossimo e mondo è alla base del sistema gogoliano; e questo è il primo punto importante da stabilire, perché tutto incomincia di qui. Il prossimo parla al temperamento artistico, il mondo alla coscienza morale; e poiché Gogol’ non seppe veder mai conciliati e risolti in se medesimo i due impulsi, andò assecondando or l’uno or l’altro, sempre moralmente insoddisfatto dell’arte, e sempre artisticamente insoddisfatto della morale. Il suo dramma non ha che questa radice; ma essa è già sufficiente a spiegare il perché egli scrivesse una commedia così divertente come L’Ispettore e ideasse un libro così inconsueto come i Passi scelti dal carteggio con gli amici. La tradizionale giustificazione della follia mistica è appena una fola, ed è stata imbastita su di una vicenda che, come vedremo, ebbe assai poco di mistico e ancor meno di folle.

    È un paradosso che uno scrittore non nutra fede nell’arte, ma Gogol’ aveva troppa fede nel suo destino per aver fede in qualcosa d’altro. Si sentiva chiamato da Dio a una grande missione per il bene degli uomini, e allorché, spinto dall’estro, gli accadeva di prendere in mano la penna e raffigurare quegli uomini sotto un aspetto alquanto bizzarro, finiva col rendersi conto che le due tendenze non potevano andare d’accordo, e che soltanto la prima era seria.

    Ciò a cui si sentiva chiamato lo espresse già a diciott’anni in una lettera; e per quanto in seguito ne andasse variando la forma in altri scritti, la sostanza rimase sempre la stessa:

    Fino dai tempi più lontani, dall’età in cui non avevo ancor quasi discernimento, io ardevo di un inestinguibile zelo di rendere la mia esistenza necessaria al bene della patria, e anelavo arrecare sia pur la più piccola utilità. Il pensiero angoscioso che non potessi, che me lo impedissero, che non mi dessero modo di arrecare quella più piccola utilità mi gettava in profondo abbattimento. Un sudor gelido mi imperlava la fronte al pensiero che forse avrei dovuto perire nella polvere senza segnare il mio nome di alcuna cosa bella. Essere al mondo e non lasciare traccia della propria esistenza è terribile per me... Nella mente ho passato in rassegna tutte le mansioni, tutte le funzioni esistenti nello Stato, e mi sono fermato su di una: la giustizia. Ho veduto che qui vi è da operare assai più che non altrove, che solo io posso essere una provvidenza, che solo qui io sarò veramente utile all’umanità. La giustizia male amministrata – la peggiore piaga del mondo – ha sempre contristato più di ogni altra cosa il mio cuore. Ho giurato di non perdere un solo istante della mia breve esistenza senza operare il bene. Per due anni mi sono dedicato assiduamente allo studio del Diritto delle altre nazioni e di quello naturale; adesso mi occupo del nostro. Si compiranno questi miei alti disegni? O l’oscurità li coprirà con la sua nube caliginosa?

    Questo brano di patetica loquacità può servire a fissare i rapporti di Gogol’ col mondo, mentre i due ritratti che seguono (di due compagni di scuola), e che sono del medesimo periodo, serviranno a determinare la sua esperienza col prossimo:

    Baranov ⁶ si trova nel proprio, ben combinato e familiare dominio: cautissimamente, astutissimamente, interessantissimamente va acchiappando le mosche, le mette in un vaso che copre di un panno... lo suggella con lo stemma ereditario e familiare – e ciò contempla al lume lunare [...] Il nostro Kukol’nik ⁷ se la passeggia ora con la zucca rapata (per tema certo degli insetti carnivori); ma per sfuggire alla vergogna si è ordinato uno zucchetto rosso con cui si è caratterizzato alla perfezione... e in alterna vicenda s’imbestia: or trovandosi in stato di amoroso calore, or di ebbrezza alcolica.

    Allorché in un uomo si verificano due tendenze contrarie è inevitabile che nel momento in cui egli presta orecchio alla prima dimentichi l’altra. Amare l’umanità e farla oggetto di riso sono atteggiamenti difficilmente conciliabili. Ciò nonostante accade talvolta che fra due tendenze si determini un bilanciato equilibrio, ed una ceda un po’ verso destra mentre l’altra, a sua volta, propenda a inclinare a sinistra: per Gogol’ il concetto di mondo potrà perdere un poco di astrattezza, e la realtà del prossimo guadagnare, in compenso, del calore. Nel concorde vibrare dei discordi, in un nuovo clima dolce e ordinato, si accenderà allora la luce della poesia a rischiarare la vita risibile, e umana, di Akakij, la comica e soave fede di Pul’cherija nella morte, o la innocente fantasia di Manilov. Ma per quanto strano possa apparire, Gogol’ non si rese razionalmente mai conto delle conseguenze di quell’equilibrio, e seguitò a considerare arte e moralità come cose distinte. Avvenne perciò che allo stesso modo di come un giorno ebbe a rinnegare L’Ispettore per scrivere Le anime morte e Il cappotto, così un altro lasciò in tronco Le anime morte per scrivere i Passi. Ma questi sono problemi angolosi che han bisogno anzitutto, per essere compresi, che sia compresa la necessità di impostare la biografia gogoliana in maniera assolutamente diversa da come si è fatto sino a oggi.

    Un secondo punto importante da rilevare interessa lo stile; al quale occorre, prima ancora di entrare in un esame delle sue qualità, dare un’occhiata di orientamento, poiché anche nello stile ebbe a verificarsi un contrasto per certi aspetti non molto dissimile da quello a cui abbiamo accennato.

    Gogol’ non fu davvero un uomo avvenente; forse non sarebbe arduo sostenere il contrario, e dir che era brutto; o che, ad ogni modo, difficilmente poteva piacere. In un tempo in cui la bellezza era un culto, questo non fu certo un vantaggio; in compenso il suo amore per l’eleganza divenne famoso, e la sua arte, al pari del suo vestire, risentì una spiccata tendenza a render piacevoli anche le cose che possono meno piacere.

    Per quanto riguarda il fisico non pare che ne rimanesse eccessivamente attristato, né cercasse al pari di Lermontov di idealizzarsi almeno nei propri scritti, se teniamo presenti le fattezze con cui in questi ultimi amò raffigurare se stesso e i suoi simili. Non aveva del resto inclinazioni troppo spiccate per il gusto romantico, e continuare a sostenere il contrario significa volerlo innalzare al di sopra dei suoi meriti, e farlo discendere al di sotto della sua gloria. In fatto di romanticismo egli si comportò nella cerchia dei contemporanei come un ospite bene educato che si industria di compiacere ai padroni di casa, ma che presto dovrà risalire in carrozza. L’amore per l’eleganza non fu, invece, una seconda natura: fu la sua stessa natura; un amore così forte, che egli ebbe il bisogno di praticarlo con se medesimo, col proprio stile, e perfino di comunicarlo ai suoi personaggi.

    Uno stilista che vesta male dà sempre da pensare; ciò che dà da pensare in Gogol’ è invece il fatto che, ragionando di Pietroburgo appena qualche mese prima della partenza, mentre si preoccupa essenzialmente di chiedere «quali stoffe siano di moda per i corpetti ed i pantaloni» , sogni di sacrificarsi per il bene degli uomini; e con la stessa patetica enfasi parli della «giustizia» e di «un frac azzurro coi bottoni metallici» che vuole ordinarsi. Non vi è alcun dubbio, però, che egli fosse egualmente sincero, e in segno di una esemplare, quadrata coerenza, sta la circostanza che dopo la morte, oltre a romanzi, racconti e commedie, lasciò agli eredi un trattato morale e un frac azzurro coi bottoni metallici.

    Ma la coerenza gogoliana richiede un commento, poiché essa si mostra talvolta anche sotto un aspetto geometricamente diverso dal quadrato. Gogol’ non fu soltanto uno stilista: fu essenzialmente uno stilista. Ora, quando a uno scrittore si tributa un simile elogio, non si intende affatto definirlo per qualcuno che ci intrattenga su cose di nessuna importanza con un decoro verbale di effetto narcotico. Egli ebbe un suo mondo da esprimere, e questo mondo fu il modo con cui colorava le cose, anche quelle apparentemente senza importanza: un mondo straordinariamente accogliente e sereno, in cui tutti gli uomini vestivano un frac azzurro dai bottoni metallici. Poteva accadere, è vero, che a volte quegli uomini si facessero troppo prossimi al campo visivo, e il luccichio dei bottoni abbagliasse la vista. Essi diventavano, per così dire, degli uomini brillanti, ma il loro aspetto assumeva un che di metallico, e perciò, insieme, di sconcertante. Oppure potevano allontanarsi in gloriose migrazioni verso i metafisici regni dell’ideale, e in quella lontananza non restava di loro se non un azzurro barlume: per Gogol’ lo stile diventava in tal frangente una laboriosa esercitazione retorica, e nulla era più santificabile e più malinconico di quella sua preoccupazione di voler dire tutte le cose sul serio, e mutare perfino le meno serie in sublimi. Nell’altro frangente, invece, diventava la sua scatola di balocchi; e nulla è così ameno, ma odora anche tanto di zolfo, come il folletto che lo spingeva a rider di tutto, e a giuocare perfino con le cose sublimi.

    Queste due eccentricità hanno il loro centro nella poesia; ma rispetto a essa sono come l’equivoco periodo che precede il sorger del sole e quello non meno equivoco che segue al tramonto: due crepuscoli. Fin qui il problema può sembrare estremamente semplice; lo straordinario è in altro: è nel fatto che Gogol’, in questi due atteggiamenti nei quali si trovò egualmente distante dalla poesia, ma in direzioni affatto contrapposte, si comportò nell’identico modo. Può valere un esempio: in un suo giovanile poemetto, per palesarci il triste destino di una fanciulla che trascorre i suoi giorni in uno sperduto villaggio, abbandonata dall’uomo che ama, Gogol’ ricorre a una retorica immagine: «Come appassisce questo fiore solitario in un oscuro deserto!» ¹⁰. La banalità della metafora floreale può lasciarci assolutamente indifferenti; non però la constatazione che, alcuni anni più tardi, la medesima immagine serva egregiamente a condire una salsa di gusto molto diverso: – Voi, o signora, – declama galante Chlestakov alla procace e matura Anna Andreevna – siete «un fiore nato fra il deserto e la cattiva strada». – Ora, nonostante nell’uno e nell’altro caso ci si voglia riferire a una donna che vive in provincia, potremmo giurare che tra i versi accorati dello Hans Küchelgarten e la gioconda battuta dell’Ispettore non vi sia proprio nulla in comune. Ma a cominciare dalla tessitura concettuale scopriamo che esiste un rapporto assai stretto: il medesimo rapporto intimo e singolare che corre fra un individuo, o un oggetto, e il suo riflesso, reversa imago, nell’acqua.

    Anche qui cerchiamo di precisare. Vi è nell’opera gogoliana una città che ne è in certo senso la capitale: Mirgorod. Nominata o taciuta, essa è il costante luogo d’azione di ogni avventura, e ogni personaggio trae i suoi natali di là. Allorché Gogol’ ce la descrive nella imbrogliata favola dei due Ivan, si preoccupa soprattutto di magnificarne ciò che ne costituisce il maggior decoro: una «bellissima pozzanghera» che «ne occupa quasi tutta la piazza»: «Straordinaria pozzanghera! Unica, quale mai ne vedeste di simili!». Questa reale e metafisica pozzanghera entro cui l’universo può capovolgersi ad ogni momento ha una non trascurabile importanza nella vita e nell’opera gogoliane, dove essa attende ancora che le sia assegnato il posto dovuto. «Il fenomeno delle immagini rovesciate» ¹¹ su uno specchio lacustre cominciò a richiamare l’attenzione di Gogol’ fino dagli anni della sua adolescenza; ed egli lo notò dapprima in versi nello Hans Küchelgarten e, immediatamente dopo, nella Fiera di Soročincy. In seguito continuò a farne motivo prediletto delle descrizioni paesistiche; ma il suo maggior significato sta nel fatto che esso divenne al medesimo tempo un particolare costume di guardare le cose. Le quali, per ciò appunto, potevano essere da lui considerate coi piedi per terra o, viceversa, coi piedi al luogo del capo; con l’occhio destro a sinistra, o esattamente al suo posto e con le sue normali funzioni. Il desiderio di ben vestire e ben scrivere era una passione molto seria per Gogol’, ma bastava che essa si riflettesse nella pozzanghera mirgorodiana per diventare alcunché di estremamente divertente, e suscitare un omerico riso. Le piacevoli dissertazioni sulla eleganza dičičikov, nelle Anime morte, le complicate evoluzioni sintattiche di Ivan Fëdorovič Špon’ka e degli altri stilisti gogoliani, non rappresentano affatto una lepida saggezza dell’autore nei riguardi delle sue personali debolezze, ma un risultato di quel duplice modo di guardare le cose. E chi ne dubiti può estendere l’indagine ad altri capitoli, poiché Gogol’ poteva burlarsi anche di soggetti più gravi, dove la riflessione filosofica non sarebbe stata in grado di apportare alcun correttivo. Poteva burlarsi ad esempio della sua stessa ansia morale: e una volta parafrasare nello Hans Küchelgarten («È mai possibile che la mia anima sia destinata a perire qui» ¹², in un villaggio sperduto? «Votarmi in olocausto all’oscurità?») quanto aveva scritto nella lettera sulla «giustizia»; un’altra, darne il riflesso lacustre nei sogni dičičikov, il quale froda lo Stato per arricchirsi al fine morale di diventare un «cittadino», un uomo utile alla patria poiché lo atterrisce il pensiero di «non lasciar traccia di sé nel mondo», a testimonianza che «anch’egli ha vissuto».

    Ma il fatto maggiormente degno di rilievo è che l’espressione – lo stile – nell’un caso e nell’altro poggia su di una identica struttura retorica; la quale, tuttavia, se nell’uno, come ogni bennata retorica, tende a evocare immagini e sentimenti gravi e commossi, nell’altro, emersa dal riflesso della «straordinaria pozzanghera», si presenta totalmente capovolta e scintillante di umori faceti. Il genere capovolto non è contemplato nella retorica tradizionale, e a tutta prima esso può sembrare eteroclito; è tuttavia necessario che lo si ammetta, almeno per l’intelligenza dell’opera gogoliana, e converrà rassegnarci a chiamarlo in tal modo e per gli effetti a cui tende e per rispetto alla topografia lacustre di Mirgorod.

    La retorica capovolta rappresenta una fra le più singolari caratteristiche di Gogol’, ma anche una delle maggiori conquiste che egli compì in un periodo in cui il gusto volgeva alla retorica di genere comune. Non si ride impunemente di qualche cosa, o peggio non la si cambia in strumento di riso, senza intaccarne la virtù: con Gogol’ la retorica di genere comune abbandona la via maestra della prosa russa; anche se egli, in più d’una occasione, a cominciare dai paesaggi delle Veglie e a finire con gli ormai sin troppo famosi brani lirici delle Anime morte, non trascurò d’essere tradizionalmente retorico, pagando un tributo al gusto del tempo. Questo fatto è giustificato da cause marginali che potranno parzialmente giovare anche a intendere gli aspetti romantici dell’opera.

    Il russo Gogol’ lo aveva appreso alla scuola: non sempre lodevolmente, e non tanto da risparmiargli, anche in seguito, continue incertezze sintattiche, lessicali e perfino ortografiche. La sua lingua materna, l’ucraino, era appena un volgare, anche se un paio di buontemponi come il Kotljarevskij ¹³ e Vasilij Gogol’, padre di Gogol’, se n’erano valsi per certe lor fantasie giocose di ambiente paesano. Essa serviva egregiamente alle semplici conversazioni dei cosacchi di Dikan’ka, e non meno egregiamente ai complicati litigi delle comari di Mirgorod; ma esaurita tale funzione di stile appropriato al personaggio, di colore, cessava di essere valida. La vera lingua letteraria era il russo; e il russo agli inizi dell’Ottocento aveva ancora tutta la natura di una lingua libresca che, appena uscita dagli artifizi dello slavo ecclesiastico, si andava esercitando nelle artificiosità pseudoclassiche e l’esornato dei primi componimenti romantici. I modelli letterari eran quelli, e su quelli aveva fatto i suoi primi passi anche Gogol’; il quale, però, riuscì solo in parte a imitarli, ché le cose andavano passabilmente fintanto che si trattava di descrivere un paesaggio, o una scena d’amore, o narrare qualche leggenda, ma allorché cosacchi o comari accorrevano a frequentare la pagina, la lingua aveva la peggio e cedeva al volgare: in Gogol’ al letterato subentrava l’artista, e questi passava istintivamente a servirsi dei propri mezzi. La testologia delle Veglie rivela tutta una fatica di traduzione ¹⁴: dalla stesura iniziale al testo canonico nei dialoghi e negli episodi salienti, mentre la composizione dei pezzi di bravura è avvenuta in russo fin dall’inizio. Ora, quel volgare, se operò una grossa rivoluzione nella prosa letteraria russa (dove al convenzionale e all’aristocratico sostituì forme vive e aderenti al linguaggio parlato), fu anche causa di un certo scontento per Gogol’ che, nel consesso dei letterati contemporanei, finì col sentirsi spesso un plebeo. A formargli tale coscienza operò in gran parte anche la critica, che gli rimproverò presunte rozzezze e reali sconvenienze. E certo è che nei racconti gogoliani vi sono parole ed espressioni che sarebbe meglio non ci fossero; ma se non ci fossero non ci sarebbero neppure quei personaggi che se ne servono con tanta innocente e lieta naturalezza. Fu appunto per rimediarvi che Gogol’ nei suoi racconti cercò continue occasioni di intercalare qualche patente di nobiltà, offrendo saggi di stile, e così rispondenti al gusto comune che furon gli unici a essere assunti agli onori antologici: egli considerava il suo modo istintivo di esprimersi – come riconobbe apertamente più volte – non proprio degno di antologia, e perciò tenne a mostrarsi capace anche d’altro, di validità maggiore.

    Il terzo punto da rilevare è il rapporto con la realtà. La realtà sta all’opera di Gogol’ come il granello di senape ¹⁵ alla pianta: il seme è la piccola origine; la senape è la pianta rigogliosa che ne è sviluppata, e che trasforma le oscure linfe terrene in aerea musica di fronde. La realtà è sempre qualcosa di straordinariamente labile, mentre al di sopra risplende non caduca la verità della fantasia – che non è affatto ciò che è reale, ma ciò in cui crediamo con tutto il vigore dell’animo. La realtà non vale mai il vino di una messa; ma la verità si identifica sovente con la poesia. Per intendere il rapporto fra la realtà e la rappresentazione che ne dette Gogol’ dobbiamo ricorrere a un tropo di cui egli amò servirsi frequentemente. Parlando del proprio modo di lavorare, affermava di correggere e rifare tante volte una sua opera finché non diventasse una «perla di creazione». Ora, con «perla», egli intendeva senz’altro alludere alla cosa perfetta, armonicamente compiuta; ma nei poeti l’istinto conduce spesso oltre i limiti della ragione, e istintivamente egli aveva riaccostato l’origine delle sue opere a quella creazione dal minimo per cui sorge la perla: alla storia del grano di sabbia che si tramuta in gemma. Non sarebbe detto tutto, però, non ricordando il segreto della metamorfosi: una causa che accresce e moltiplica iperbolicamente se stessa fino a rendersi assurda – un corpuscolo che penetra dentro le valve e che irrita; che viene coperto con uno strato calcareo e, accresciuto di volume, irrita ancora di più, e perciò viene coperto ancora con un altro strato, e un terzo; e così finché in grazia di quegli strati iperbolici il granello minuscolo diventa una grossa perla. Il frammento di sabbia è virtualmente scomparso, non lo si vede più: per rintracciarlo occorrerebbe infrangere, e cioè distruggere, la perla. Ma c’è: è il cuore del nuovo mondo che gli si è andato creando attorno, e la ragione dell’esistenza di esso. Chi non ha compreso questo è inutile che legga Gogol’, poiché non capirà come un naso possa crescere fino a diventare persona e poi personaggio ¹⁶, camminare per le vie di Pietroburgo, avere un titolo, un passaporto, e occupare tutte le pagine di un lungo racconto; e avrà irrimediabilmente bisogno, per giustificare tante rinologiche stranezze, di rifarsi alle storie dello Hoffmann, o alle dissertazioni di Tristram Shandy sugli accidenti che occorrono ai nasi. E chi non lo ha compreso seguiterà a dissertare con argomenti brillanti sul come Gogol’ fosse un grande scrittore realista e con argomenti altrettanto brillanti sul come egli non fosse affatto uno scrittore realista, e osasse ideare un poema ¹⁷ panoramico sulla Russia allorché della Russia non conosceva che alcune città, e non l’aveva percorsa che per un numero assai irrilevante di verste.

    Un’ultima parola: sugli amori. Da noi non è possibile concludere il ritratto di un uomo, anche se in un abbozzo preliminare, senza una qualche allusione sia pur discreta alla vita sentimentale. Per alcune donne giovani e belle Gogol’ spese molti aggettivi, ma non fu proprio un atto di generosità poiché quegli aggettivi li saccheggiò a piene mani da fiabe e canzoni popolari, e con quegli aggettivi le trattò tutte a un modo. Furono donne della sua esperienza poetica; ed essendo che, come poeta, egli fu il loro creatore, le sue relazioni con esse ebbero carattere solamente paterno. In quanto alle donne mature (o magari vecchie, e perfino brutte), fu un altro paio di maniche: le considerò con accesa simpatia, e per loro non ebbe bisogno di cercare aggettivi da nessuna parte: gli fiorivano crepitanti dall’estro. Ma anche qui si trattò di relazioni puramente descrittive e fantastiche, ed ebbero il candore delle pagine su cui egli andò narrando le loro storie.

    Nella vita comune il genere di donne che gli piaceva fu di un altro genere; e gli piaceva per conversare su certi problemi spirituali su cui gli uomini non sarebbero stati sempre disposti ad ascoltarlo. A queste donne dedicò molte lettere; ma, benché queste donne facesser parte della sua esperienza virile, oltre le lettere non andò mai.

    Confidò un giorno di aver tentato un approccio, per curiosità; ma di esserne uscito molto deluso e senza più desiderio di riprovare. Dal che si potrebbe dedurre che, se aveva una debolezza per l’altro sesso, questa era di specie piuttosto diversa dalla consueta.

    Conseguentemente, poiché nessuna avventura sentimentale gli era mai occorsa nella giovinezza, né gliene occorse altra in altri tempi, noi consideriamo l’argomento come affatto esaurito e concluso nel modo più spiccio e più sbrigativo.

    II.

    «Costui» – pensi guardando un ritratto di Gogol’ – «ha un naso che gli fa da prolusione». Ma poi ti accorgi con Tobia Shandy che «vi è soltanto una causa per cui un naso è più lungo di un altro: ed è che a Dio piace che sia così». Infatti quella prolusione è una mera cerimonia del fisico, e non introduce a nulla di riposto, giacché nella vita Gogol’ non ebbe naso.

    Incominciò a sbagliare fin da quando, riconosciuta nella giustizia la propria missione, commise l’ingenuità di identificarla coi codici, e si mise in viaggio per la capitale fermamente deciso a conquistarsi denaro, fama e uniforme di ministro. Ma è sorte di chi cade in errore, giudicando se stesso, di contraddirsi. A Pietroburgo, anzi che andare subito al ministero, con le commendatizie di cui lo aveva fornito un parente materno – il senatore Troščinskij, ex ministro di giustizia e discendente lontano di Mazepa –, si dette a frequentare i teatri e a girare per i negozi di mode acquistando scarpe, cappelli, guanti, «ed altre porcissime e indispensabili piccolezze» ¹⁸. E fu soltanto dopo aver dato fondo al gruzzolo di cui disponeva che si ricordò delle buone intenzioni. Le considerava già con minore entusiasmo, tuttavia; e quando, presentatosi nelle anticamere di quei potenti che avrebbero dovuto spalancargli le porte del ministero, e che tenevano invece chiuse anche le proprie, ebbe modo di farsi una idea un po’ meno astratta del servizio di Stato e dei burocrati, le abbandonò per sempre, e senza alcun rimpianto. Tutto considerato, fu costretto ad ammettere che forse la sua vocazione non era proprio quella, e che sarebbe stato meglio cercare qualcos’altro.

    Accade a volte che ci gloriamo delle più singolari sciocchezze, mentre sorvoliamo sui nostri meriti come su circostanze affatto personali e discrete. Gogol’ aveva sempre nutrito, nell’adolescenza, una fiducia illimitata nelle proprie qualità di burocrate, e sempre considerato, all’inverso, i suoi componimenti letterari come un amabile passatempo da non prendere troppo sul serio. Eccessivamente pronti a dar credito ai tropi e alle metafore con cui egli nobilitava le bugie, i biografi hanno fatto male a perdere la buona occasione di prestargli fede una delle poche volte in cui è riuscito a dire una piena verità, e cioè quando ha affermato di non aver mai avuto in animo di fare lo scrittore. Credergli avrebbe giovato, oltre tutto, anche a una migliore intelligenza dei prolegomeni allo Hans Küchelgarten, l’idillio in versi che egli pubblicò dopo la decisione di rinunciare alla carriera, e che «non avrebbe mai veduto la luce se non lo avessero imposto circostanze importanti per il solo autore».

    In effetti, il ripiegare sulla letteratura non ebbe il valore né di un ravvedimento, né di una improvvisa illuminazione: fu un tentativo di guadagnar del denaro in attesa che il cielo gli rivelasse il cammino da percorrere, e cioè il vero modo di interpretare la vocazione (o, come egli scriveva, «il vero campo d’azione»). Seppur non è, forse, da escludere che ve lo inducesse anche un sentimento non molto dissimile da quello che aveva sollecitato lo Swift («per difetto di un gran titolo e di un gran patrimonio», e per ambizione d’essere grande a dispetto di tali circostanze) a conquistarsi la gloria dell’ingegno, affinché gli tenesse «il posto di un nastro azzurro o di un tiro a sei». Per Gogol’: di un seggio ministeriale.

    Purtroppo anche qui lo attese una delusione: lo Hans non ebbe fortuna. E questo secondo scacco fu un colpo duro. Se le esperienze avessero realmente quella importanza che ad esse attribuiscono coloro che non sono in grado di farne, dopo tale esordio Gogol’ avrebbe dovuto volger le spalle alle lettere. Le teneva nel conto che sappiamo. Tuttavia, pur reputandole di una utilità sociale affatto trascurabile, non reputava per nulla trascurabile il proprio genio poetico. Ne andava anzi abbastanza superbo. Doversi ricredere non gli era facile. «Dovunque, nel modo più assoluto» ¹⁹, scriveva alla madre il 24 luglio, «sono andato incontro unicamente a insuccessi – e, ciò che è più sorprendente, laddove non c’era proprio da aspettarseli».

    È vero che l’angoscia da cui venne colto non fu l’inevitabile frutto di uno stato di cose completamente reale: i giudizi che espressero sull’idillio i critici dell’«Ape del Nord» e del «Telegrafo Moscovita» potevano apparir distruttivi solo a un orgoglio sublime. Ma la qualità dell’orgoglio è la stessa del cuore: l’irrazionalità. Perciò, fatto un rogo di tutte le copie dello Hans, egli abbandonò precipitosamente Pietroburgo e fuggì a Lubecca.

    Vi è nella storia di Gogol’ come qualcosa di premeditato. La conclusione richiama agli inizi: al primo incamminarsi sulle vie del destino su una diligenza postale, e a questo ingresso nel paese delle lettere fra i bagliori di un fuoco che si accende improvviso; non propizio, ma a rischiarare una nuova strada, per un’altra ventura. Non vi sarà mai disinganno o scontento (a designarli impiegherà sempre uno stesso sostantivo – perelom – che significa crisi, ma che etimologicamente vale frattura) dopo i quali egli non sia preso da una necessità subitanea e irresistibile di infrangere i ponti col passato, cancellarne il paesaggio, e disperdere delle ceneri al vento. Sarebbe quindi piuttosto superficiale vedere adesso in questa decisione improvvisa di lasciare la Russia, la realizzazione di un vecchio disegno, ché, se a un «viaggio in terre lontane» egli già aveva alluso in qualche lettera, datata agli anni di scuola, ciò non ha grande importanza. Allora si trattava tutt’al più di fantasie giovanili sollecitate dalle letture. Doveva allo Schiller, al Winkelmann, al Tieck e ai poeti tedeschi che gli erano cari, l’immagine di una Germania suggestiva e felice, nonché un anelito vago di avventura; il quale aveva trovato incentivo in quello stesso Childe Harold che, assieme alla Luisa del Voss (ed è tempo di dirlo: alla Fiaba di Giacinto e Fiorellin-di-rosa del Novalis), gli aveva ispirato lo Hans, poema di un viaggio.

    Lasciando Pietroburgo, è quindi assai poco probabile che egli si riproponesse un’esperienza fisica di quanto aveva scontato in fantasia nel poema. Già, concludendo la storia del suo eroe, aveva saggiamente filosofato sul chimerico inganno di chi va in cerca di inesistenti eldoradi (anche se nella Confessione ebbe poi a riconoscere che «l’intenzione e il fine» che lo avevano mosso «erano oscuri»).

    La sua fuga non ebbe altro scopo fuori di se stessa: della possibilità di annullare un errore col distaccarsi dai luoghi e dalle occasioni da cui era stato determinato, e della prospettiva di ricominciare un’esistenza nuova su presupposti nuovi. Quali non lo sapeva ancora. E qui forse ha un suo peso il concetto ideale di una Germania, terra promessa, «di pensieri eccelsi, di visioni eteree» ²⁰.

    L’ansia di dimenticare, di correre incontro al nuovo destino fu così forte che, pur di mettere in atto al più presto il suo disegno, egli non esitò ad appropriarsi di una somma ricevuta dalla madre per pagare gli interessi di una ipoteca. Sapeva bene di causare con ciò un dissesto rovinoso alla già precaria economia familiare, e agiva, inoltre, piuttosto in disaccordo coi princìpi morali di un assertore della giustizia. Ma chi volesse perdonare a un grand’uomo una cattiva azione in cambio della sua grandezza peccherebbe col paragonare a quest’ultima la propria meschinità, e con l’accusare il grand’uomo di essere stato piccino. Ora, se Gogol’ ebbe molti difetti che potevano anche non essere sublimi, né essere propri soltanto a un genio, possedé in compenso una virtù le cui radici riescono a mantener salda anche la pianta più torta: fu onesto. Potremmo semmai fargli carico d’esserlo stato verso una cosa sola, di fronte alla quale tutte le altre cessavano di avere importanza: la sua missione; poiché egli credé sempre nel modo più fermo di essere stato chiamato da Dio a compiere un bene per gli uomini, e considerò il proprio mandato non come una gloria ma come un inderogabile dovere. Nell’attuale frangente non aveva scelta. Non gli restava che una speranza, e pur di realizzarla non ebbe scrupoli: vi giuocò sopra tutto – perfino quello che non era suo.

    A chi ha senno e misura Gogol’ potrà apparire un fanciullo un po’ fatuo, intento a fabbricare e gettar vascelli di carta su correnti malcerte; anche se è appunto su fragili vascelli che la dolce irragionevolezza dei fanciulli si affida, mentre la brezza della fantasia dolcemente discende a gonfiarne le vele. In effetti, solo chi possiede un’anima tersa ha una così serena incoscienza del male, e un così caldo potere di santificarlo. Come non c’è dubbio che solo i grandi egoisti e le persone meravigliosamente sicure di sé sian capaci di tanto. Ma potremmo anche aggiungere che alla certezza di arrivare in porto (Gogol’ da un viaggio si attenderà sempre miracoli: il cessar di un’angoscia, l’ispirazione a un romanzo o a un racconto, la cancellazione e l’oblio di un peccato commesso, la guarigione dei mali del fisico) andava unita una eguale certezza di acquistare insieme gloria e ricchezze, e perciò d’essere in grado di rendere al doppio, e magari decuplicata, una somma che adesso veniva presa soltanto in forma di prestito ²¹.

    Certo è che questo modo onesto e perfino magnanimo di comportarsi, capovolto nella pozza di Mirgorod, può riservare qualche sorpresa: tradursi, ad esempio, nella morale di Chlestakov il quale, ai mercanti che tentano di corromperlo, risponde: – Io non accetto le buone mani! Ecco, se voi mi offriste, magari, in prestito... – E assicura: – Io – questi denari – ve li restituirò domani stesso – probabilmente.

    Per sua disgrazia anche la fuga in Germania si concluse con esito infelice. Pareva che tutto gli avesse congiurato contro fin dall’inizio. Al momento di salpare aveva certamente ripetuto con commozione nuova e più intensa le enfatiche parole di Hans:

    Risuona, o mio vasto Oceano,

    Porta la mia nave solitaria!²²

    Ma non appena, docili all’invito, le onde del Baltico presero davvero a rumoreggiare e, sospinte dalla tempesta, a scuotere maledettamente per sei giorni il piroscafo, all’agitazione poetica ne subentrò un’altra crudele e inconfessabile: tale da ingenerargli una avversione ormai definitiva per le avventure romantiche e il byronismo.

    Allo sbarco lo attese ancora una delusione: la Germania non aveva nulla del paese dei sogni. Gli apparve anzi come «un villaggio da tempo noto ch’io fossi uso a veder di frequente. Non ho provato alcuna commozione speciale» ²³. Anche i poeti tedeschi lo avevano ingannato. Non gli restava che far buon viso a cattiva sorte. Da Lubecca passò a Travemünde, inviando di tempo in tempo lettere alla madre per spiegarle il perché avesse intrapreso quel viaggio, e quali necessità improrogabili ve lo avessero spinto.

    Ora, poiché di quelle necessità non era più molto persuaso, ed oltre a ciò ne andava adducendo un po’ troppe e di troppo varia natura, converrà rassegnarsi ad ammettere che qualche volta la sua fantasia assumeva un aspetto ereticale, e poteva esser scambiata per menzogna.

    Quando un uomo è sincero può magari accadere che nel suo discorso si riscontri incidentalmente alcunché di inesatto; ciò che non avviene davvero, in nessun caso, per una donna, ché se una donna è sincera nel suo discorso vi è sempre un tantino di verità. Per quella parziale verità essa esige una fiducia assoluta; mentre quand’è insincera non domanda nulla: le basta la sua propria convinzione. Ora, poiché Gogol’ amò esser sincero in ambedue le maniere, credo che sarebbe assai poco consigliabile trarre conclusioni affrettate sul sesso della sua personale sincerità; ma è un fatto che, a differenza delle donne, mentendo, egli mirasse allo stesso tempo a persuadere e a restar persuaso, e che la forza della sua convinzione fosse immensa.

    Per giustificare il proprio viaggio di fronte alla famiglia, scrisse che «Dio» gli aveva «additato il cammino in terra straniera» ²⁴ («affinché io educhi le passioni nel silenzio, nella solitudine... mi elevi di qualche gradino verso una sfera superiore da cui sia in grado di profondere il bene e di giovare al mondo»). Poi, che era dovuto fuggire da Pietroburgo in seguito a un amore infelice («la chiamerei un angelo... una divinità lievemente vestita di umane passioni... Ma, per amor del cielo, non chiedetemi il nome di lei. Essa è troppo in alto, troppo in alto»). Infine, tre settimane dopo, con un candore assolutamente immemore: «Io, mi pare», scriveva: «ho perfino dimenticato di dirvi la ragione essenziale che mi ha spinto a partire per Lubecca: durante la primavera e l’estate, quasi l’intero tempo fui malato; ora, benché guarito, mi è venuto un grande sfogo alla faccia e alle mani».

    Marija Ivanovna Gogol’ pose in stretta connessione l’avventura sentimentale e lo sfogo, e ne fu estremamente allarmata. Il figlio reagì sdegnatissimo ²⁵; e poiché aveva dato fondo agli ultimi soldi, risanato dei mali e degli amori, tornò in Russia.

    Tornò più saggio: la lezione gli era servita a qualcosa. Gli aveva insegnato, se non altro, che la terra dei sogni è soltanto il cuore dell’uomo, e che i miracoli attesi dal di fuori non sono che le tristi aspettazioni dei diseredati dalla fantasia. Così, scoperta in nuovi paesi la vecchiezza del mondo, gli accadde di scoprir nuovo il suo vecchio paese e, in luogo di tentare ancora romantici viaggi in cerca di fantastiche avventure e celesti miracoli, tornato a Pietroburgo si accinse a narrare le terrene vicende delle grasse e sanguigne comari di Dikan’ka, dei tinconi di Mirgorod, dei diavoli, dei diaconi e delle streghe di Kiev. E crediamo senz’altro che quei racconti li scrivesse soltanto per guadagnare («questo è il mio pane») ²⁶ anche se la madre sosteneva il contrario (che egli scrivesse, cioè, «per soddisfare il suo amore per le lettere, benché cerchi di dimostrarmi che è la necessità a costringervelo»). Per guadagnare si assoggettò perfino a impiegarsi ²⁷ seppure è risaputo che in ufficio non fosse molto zelante, e ve lo si potesse incontrare non più di un giorno al mese: quello in cui riscuoteva lo stipendio.

    «Come ringrazio la mano divina per le avversità e gli insuccessi... Per me sono stati l’educazione migliore», scriveva il 10 febbraio 1831 alla madre. E queste parole, se ci danno la certezza che egli fosse diventato più saggio, ci testimoniano al medesimo tempo che egli aveva conservato la mirabile insania di credere nei vascelli di carta: perfino in quelli già naufragati, ché la fede di essere servo di Dio, chiamato a compiere un’opera, gli mutava i mali sofferti in dolci insegnamenti.

    III.

    I racconti delle Veglie a una fattoria presso Dikan’ka, quando apparvero tra il 1830 e il 1832, ebbero oltre tutto il pregio della novità. L’Inghilterra vantava i Tales of my Landlord dello Scott (e Gogol’ dimostrò di conoscerli), ma in Russia nessuno aveva ancora narrato storie di villaggio in una lingua così vivace e tutta sorprese. La fantasia vi scorreva attraverso come un vino nuovo che al sapido gusto dell’arguzia sposava il profumo di un lirismo discreto. È vero che quella lingua presentava sporgenze contro cui poteva urtare un severo purista dello stile, e che quelle storie peccavano abbastanza di arbitrio per essere folclore genuino; tuttavia, per quest’ultimo non vi fu chi badasse troppo per il sottile e, in quanto alla lingua, gli svantaggi apparvero vantaggi agli occhi di coloro che nel purismo degli Šiškov e nella pudibonderia dei Bulgarin e dei Senkovskij sentivano odor di libresco e di stantio. Il successo fu pieno e incondizionato, e il verdetto dei critici passò senza confutazione alla storia.

    A rigore, scontata la loro novità, i racconti delle Veglie non conservano meriti tali da aggiungere molto alla gloria di Gogol’, e non vi è dubbio che la diminuirebbero in parte se egli non avesse scritto nient’altro. Ad eccezione di un paio, essi sono infatti abbastanza diseguali. Qualcuno è addirittura mediocre. Ma sarebbe un errore trattarli con bonaria condiscendenza, pensando alle opere che li seguirono, poiché quella loro mediocrità è continuamente agitata da gioiosi mutamenti di stagione, e sempre insidiata al momento opportuno da un Brunello, pronto a sottrarre il cavallo dell’estro di sotto al basto del convenzionale. Inoltre il mondo gogoliano vi è già quasi tutto impostato, e la natura dello stile vi appare forse più evidente che altrove per i suoi mezzi tuttora ingenui e scoperti, per il procedere ancora a tentoni, inciampando in ostacoli scambiati per dannate difficoltà e, solo dopo, riconosciuti per barriere innalzate su vie precluse. Giacché a lui pure, come a ogni artista, era concesso di fare soltanto alcune cose; e il suo stile, come ogni stile, era limitazione delle forme a una forma. Nelle Veglie a una fattoria presso Dikan’ka egli sta ancora, invece. saggiandosi, e assaggiando, ghiotto, gli innumeri frutti della terra, così che ci è dato sorprenderlo nell’atto di provare, oltre ciò che gli era giovevole, anche quel che gli era dannoso e non gli si confaceva per nulla; e, oltre ciò che poteva ottimamente riuscirgli, anche ciò in cui non sarebbe mai riuscito.

    Per orientarci cominciamo anzitutto dal suo dubbio potere di immaginazione, intendendo volgarmente per questo potere la facoltà di dar corso a un giuoco avveduto di circostanze che si svolgano sul filo di una interiore necessità, e siano indirizzate a creare un carattere o più caratteri, e a determinarne i conflitti. Ora Gogol’ poteva soltanto narrare una storia con personaggi accidentali o, inversamente, incastonare un personaggio entro labili storie. E se nell’ultimo caso gli avvenimenti prendevano di necessità un’andatura capricciosa e arbitraria, nel primo essi rivestivano un valore decorativo e periferico. In quei racconti delle Veglie dove, a imitazione dei contemporanei, si cimentò a imbastire intrecci amorosi o fantastici, egli indulse infatti continuamente a pretesti per lasciarli in sospeso ogni momento e correre dietro a cose più attraenti. Del resto le sue trame non valgono mai quattro soldi, e si può esser certi di un fatto: che egli non si è dato neppure la pena di inventarle, e le ha immancabilmente rubate da qualche parte.

    Quando costruisce da solo, o resta in tronco a metà degli eventi o i prodotti della sua immaginazione sono capricci scherzosi di una pantomima che egli non ha mai fretta di condurre innanzi e le cui conclusioni sono sempre affrettate. Forse non è del tutto senza significato che il primo racconto della maturità, e il suo ultimo romanzo (Ivan Fëdorovič Špon’ka e Le anime morte), siano due opere rimaste incompiute, e che nell’una la narrazione si arresti per naturale esaurimento della fantasia (la quale è virtù assai diversa dall’immaginazione), mentre nell’altra gli divenga impossibile continuarla non appena egli tenta di cangiarne il carattere di cronaca in quello di storia interiore di un personaggio. Ma non è nemmeno senza significato che, a dispetto di ogni apparenza, esse siano ambedue compiute e perfette e non manchi loro assolutamente nulla, poiché, come avviene sempre nel Gogol’ migliore, la compiutezza non risiede nel grado di maturazione dei fatti, ma in una saturazione del personaggio.

    Inoltre, anche dove si ha una parvenza di movimento, domina sempre un senso di stasi. Le invenzioni sembrano venirci incontro da pareti istoriate dove ogni fatto ha un proprio riquadro, ma nelle quali, come in ogni pittura, il moto è soltanto illusione. Si direbbe che nessuna meridiana scandisca le ore, né il corso del fato, in quel singolare villaggio, ai pochi abitanti che Gogol’ creò ed elesse a proprio universo: un universo in cui il tempo e gli avvenimenti fanno parte del decoro e dello scenario, e si agitano come fronde di un arboreo paesaggio a rinfrescare gli ozi di un eroe.

    È che Gogol’, più che un creatore di uomini, fu un grande maestro di ritratti. La percezione che abbiamo del suo mondo è visiva; e per vie mediate dall’occhio cogliamo prospettive di anime adombrate in statici gesti, o incantate nel cerchio di un’espressione. I suoi eroi hanno virtù e difetti terreni, ma il terreno sul quale poggiano non è la terra, poiché ciò che accade nel tempo non li trasforma. Per loro ogni avventura è soltanto uno specchio in cui si riconoscono eguali a se stessi; ogni peripezia – un’estensione della loro gamma, un ripetersi, un prolungare piacevole delle loro vibrazioni in non turbati spazi. Una volta compiuto il ritratto, l’umanità del personaggio è conclusa. La storia può interrompersi a un punto qualsiasi: essa non è formativa di caratteri, e non ha perciò valore essenziale. È una didascalia, un’esegesi, o un pretesto per fantasiose e garbate variazioni. Di conseguenza, in Gogol’ non vi è mai una favola che risulti davvero favolosa. Delle Anime morte, ad esempio, si può dir tutto: perfino che sono un poema; ma non v’è nulla in esse che ci autorizzi a chiamarle un romanzo, e a trovare legittimo il loro sottotitolo di Avventure dičičikov. Čičikov è solo un turista che cuce col filo delle verste le pagine illustrate di un suo taccuino di viaggio, e un ospite che di volta in volta siede al festino di un ben miniato signore e, compiacente, si inebria dei vini e si nutre delle saporose vivande di lui (anche nel senso piano e letterale, ché quasi ogni capitolo contiene un ritratto di anfitrione e un simposio). E che egli abbia nel taccuino una pagina e un’illustrazione ov’è completamente effigiato non è tanto che basti a fare di lui un protagonista, ché fuor da quelle è appena una nebula: un aereo pulviscolo su cui la luce di altri soli si frange e colora i suoi arcobaleni.

    Dove in Gogol’ manca il ritratto, e soltanto amabili androidi frequentano la scena, dove cioè il racconto pretende di avanzare sulle vie di un intreccio, incominciano i guai del regista, continuamente affannato a tappare i buchi delle sue incerte e sbilenche invenzioni. Accade allora, come talvolta nelle Veglie a una fattoria presso Dikan’ka, che egli riesca impersuasivo e noioso, o abbandoni il filo per narrarci un aneddoto o, concluso in fretta il componimento, se la spassi un mondo a far capriole ai margini scompigliando ogni cosa, e perfino sovvertendo le parti col mutare i protagonisti in comparse o le comparse in protagonisti.

    Questo contegno arbitrario verso i suoi personaggi ha una ragione riposta per comprender la quale occorre gettare l’occhio su zone più centrali e segrete.

    Se è vero che con l’ispirazione una divinità discende nel poeta, quella che si impossessava dell’animo di Gogol’ doveva avere l’aspetto di uno strano daimon di tra il fumigante e il celeste. Essa operava miracoli – e sortilegi. Accadeva per suo potere che la Natura sovvertisse i comuni valori, eleggendo a lustro il grottesco, e la bruttezza a decoro; e che l’avvenenza, i dolci sentimenti, gli ideali non potessero percorrerne il regno se non in groppa ai cavalli della retorica. In quella rigenerata Natura l’universo andava deserto di eroismo – se eroe (nel senso che alla parola dà la nostra esperienza) è chi si aderge per virtù fisiche e d’animo sul volgo, e che, reprobo o angelico, a dirla col Chesterton, mostra a noi piccoli uomini quanto grandi siano le grandi emozioni che in misura minore esperimentiamo.

    Non v’è dubbio, perciò, che Gogol’ mancasse a se stesso e al suo demone allorché concepì Hans come eroe suggestivo, e comunicò ad alcuni protagonisti delle Veglie l’ambizione a un patetico mito. È che in questi primi saggi, più che lasciarsi guidare dall’ispirazione, si industriava a emulare dei modelli. Benché non ne restasse sopraffatto, fu tuttavia portato a battere una strada non sua, e riuscì soltanto ad articolare piacevoli bambole cui si compiacque di far recitare parti diligentemente apprese a memoria, eseguire gesti aggraziati, e indossar costumi diversi perché apparisser diverse, ma senza riuscire a dotarle di identità. Però, già nelle Veglie, accanto alle agghindate Paraske e ai loro amorosi, aveva preso a far muovere sconcertanti figure dai nervi acerbi e terrestri: tarchiati sindaci, e allampanati scrivani; paupulanti e flebili diaconi, e verbose e aspre megere; crapuloni con le mani nel piatto, e poltroni con le dita nel naso. A differenza delle piacevoli bambole, che al loro cospetto sbiadivano in azzurrognoli fumi, fra costoro non ve n’era uno che fosse giovane o leggiadro, né agitato da generose passioni (se per caso si alludeva a una loro virtù, o a un merito, era per screditarli all’istante); ma come apparivano in scena essi operavano un incantesimo: il mondo si vestiva di colori e si animava di voci. In quanto a Gogol’ pareva che fosse disceso anche lui nella pagina, e vi sguazzasse dentro dalla contentezza.

    Ciò che nel racconto era accaduto fin lì non aveva importanza: veri eroi diventavano questi cavalieri tutti macchia e senza eroismo, nei quali, come si espresse l’acrimoniosa lingua di un critico, l’umanità mostrava soltanto la propria facciata posteriore ²⁸. Una facciata festevole però; cui non mancava nulla. Fuor che l’umanità. Poiché a guardar bene quel mondo ti accorgevi che essa era in vacanza e che, sotto tanta dovizia di umore, non si celavano certo le lacrime ²⁹ – come volle un secondo, e questa volta benevolo, critico – ma un che di asciutto, all’opposto, che inaridiva i sensi, e allo stesso demiurgo burlone strappava di quando in quando un sospiro: «Noia a questo mondo, signori!» ³⁰. «Noia a viver così! Senti alfine il bisogno di un cibo per l’anima».

    Se Gogol’ non avesse subito il potere di quella noia (inedia di un’anima priva del nutrimento della misericordia), non avrebbe mai scoperto la pietà delle cose, né acquistato con essa la facoltà di riconoscere anche negli aspetti più stravaganti e impensati della vita motivi di allegrezza e benignità, di ironia e, insieme, di conciliazione, di riso e sorriso. Noi non potremmo considerarlo, perciò, niente più che un uomo il quale si beffava piacevolmente degli altri uomini, e spesso, e meno piacevolmente, anche della parte immortale di essi (certa comicità dei suoi personaggi ebbe qualche bagliore sinistro). Ma gli accadde, giuocando coi suoi esseri grotteschi, ed eleggendoli a eroi al posto degli eponimi, di vederli improvvisamente animare da una luce; e anche i più meschini e difformi appalesare al di sotto delle loro spoglie una insospettata bellezza,

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