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Il segreto del serpente giallo
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E-book231 pagine3 ore

Il segreto del serpente giallo

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Info su questo ebook

Fing-Su, soprannominato "il serpente giallo", figlio di una francese e di un cinese, vuole procurarsi il denaro necessario per diventare imperatore della Cina attraverso una società segreta. Ma gli si oppone Clifford Lynne, che sfugge miracolosamente a vari attentati predisposti dal diabolico cinese. In una complicata sarabanda di colpi di scena che spaziano dalla Cina all'Inghilterra, la lotta tra i due uomini si fa sempre più serrata e mortale: entrambi sanno che il vincitore non avrà pietà del vinto, perché la posta in gioco è troppo alta.

Edgar Wallace

nacque nel 1875 a Greenwich (Londra). Cominciò a lavorare giovanissimo; a diciott’anni si arruolò nell’esercito ma nel 1899 riuscì a farsi congedare. Fu corrispondente di guerra per diversi giornali. Ottenne il suo primo successo come scrittore con I quattro giusti, nel 1905. Da allora scrisse, in ventisette anni, circa 150 opere narrative e teatrali di successo, nonché la sceneggiatura del celeberrimo King Kong. Definito “il re del giallo”, è morto nel 1932.
LinguaItaliano
Data di uscita29 gen 2014
ISBN9788854163850
Il segreto del serpente giallo

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    Il segreto del serpente giallo - AA. VV.

    Narth

    Il segreto del serpente giallo

    1.

    A Siangtan non c’era nessuna casa simile a quella di Joe Bray. Per questa ragione Joe era unico perfino in Cina, dove erano affluite le più stravaganti personalità fin dai tempi di Marco Polo.

    La casa era di pietra ed era stata costruita da un certo Pinto Huello, un architetto portoghese ubriacone, che aveva lasciato il Portogallo in circostanze sospette e che era arrivato in quella grande e sporca città passando per Canton e per Wuchau.

    Tutti pensavano che Pinto avesse tracciato il progetto originale dopo una notte di delirio in un paradiso provocato dal fumo e che poi se ne fosse pentito. Ma ormai la casa era già costruita per metà e così la parte verso nord, che assomigliava molto a una torre di porcellana, era l’espressione di Pinto peccatore, mentre tutto il resto, che aveva una qualche somiglianza con la sponda discendente di un fiume, rappresentava il periodo di reazione dell’eccentrico portoghese.

    Joe era un uomo grande e grosso, con il doppio mento, una montagna d’uomo che adorava la Cina, il gin e i suoi sogni a occhi aperti. Sognava cose meravigliose, praticamente irrealizzabili. Il sapere che, perfino da questo remoto angolo del mondo, poteva fare delle mosse che avrebbero cambiato la vita di molti uomini, lo rendeva felice.

    Avrebbe camminato tra i poveri e avrebbe distribuito oro a chi lo avesse meritato. Solo che non riusciva mai a trovare qualcuno che ne fosse degno.

    La Cina è un paese che predispone al sogno. Da dove era seduto, poteva osservare le acque affollate dello Siang-kiang. Nella luce del tramonto, riusciva a vedere una striatura violetta che spariva e riappariva dietro il vago orizzonte di Siangtan. Le vele romboidali delle sampan, che attraversavano il grande lago, avevano un colore bronzeo-dorato nella luce del tramonto e da questa distanza non si riusciva a sentire il clamore di quella città che assomigliava a un alveare; non se ne sentiva neppure l’odore.

    Non che al vecchio Joe desse fastidio l’odore della Cina. Conosceva questa terra immensa dalla Manciuria a Kwangsi, da Shan-tung alla vallate del Kiao-Kio, dove la popolazione mongola parla uno strano francese corrotto. Per lui la Cina rappresentava il mondo. Il peccato e l’odore della Cina erano la normalità. Pensava come un cinese e avrebbe vissuto come un cinese se non fosse stato per il suo socio. Aveva attraversato le province della Cina a piedi, facendosi strada nelle città più proibitive; era stato privato di tutto nello Yemen dall’infame Fu-chi-ling, una volta governatore del Su-kiang, ed era stato portato in trionfo sulla lettiga di un mandarino fino alla corte della Figlia del Cielo.

    Inglese di nascita, americano quando gli conveniva, Joe Bray si poteva definire più che miliardario. La sua casa sulla collina, sulle sponde del fiume, era un vero palazzo. Se l’era costruito trafficando in carbone e rame e con le rendite delle sue miniere d’oro che si erano aggiunte alle immense riserve accumulate con meravigliosa rapidità negli ultimi dieci anni.

    Joe poteva sedersi a sognare, ma di rado i suoi sogni si materializzavano così perfettamente come la visione che si dondolava sulla sedia. Fing-Su era alto per essere un cinese e bello per i canoni europei. A parte la forma dei suoi occhi neri, non c’era nulla di orientale in lui. Aveva la bocca insolente e il naso dritto e sottile di sua madre, che era francese, i capelli neri e il pallore di suo padre, il vecchio Shan Hu, abile mercante e avventuriero. Indossava una giacca di seta e dei pantaloni sformati che terminavano negli stivaletti. Le mani erano rispettosamente coperte dalle ampie maniche della giacca e quando era costretto a mostrarle, ad esempio per far cadere la cenere della sigaretta, le nascondeva subito dopo, con un gesto quasi meccanico.

    Joe Bray sospirò e bevve un sorso della sua bibita.

    – Tu hai ragione, Fing-Su. Un paese che non ha testa, non ha neppure le gambe, e non può muoversi: è destinato a restare fermo e a marcire! Questa è la Cina. I Ming, il vecchio Hart e Li Hung erano solo dei taglialegna.

    Sospirò di nuovo; la sua conoscenza dell’antica Cina e delle sue dinastie era molto approssimativa.

    – Il denaro non è nulla se non sai usarlo bene. Guarda me, Fing-Su! Non ho discendenti, non ho figli e ho un patrimonio che vale miliardi, miliardi! La mia stirpe è finita, quasi.

    Irritato, si strofinò il naso.

    – Quasi – ripete con cautela – a meno che certe persone non facciano quello che lo vorrei che facessero; ma il problema è: queste persone lo faranno?

    Fing-Su lo guardò con i suoi occhi impenetrabili.

    – Avrei giurato che vi sarebbe bastato esprimere un desiderio perché questo diventasse realtà.

    Il giovane cinese parlava con quella strana pronuncia strascicata tipica di Oxford. Niente dava a Joe Bray una gioia più grande del sentire la voce del suo protetto; la cultura, la pedanteria di ogni frase, l’aria di superiorità che esprimeva, erano musica per le sue orecchie di sognatore.

    Fing-Su si era laureato in arte all’università di Oxford ed era stato Joe a permettere questo miracolo.

    – Tu sei un uomo di cultura, Fing, mentre io sono un povero vecchio ignorante che non conosce né la storia né la geografia né altro. I libri non mi sono mai interessati e non mi attirano neanche ora. La Bibbia, soprattutto l’Apocalisse, ecco un libro che vale!

    Terminò di bere la sua bibita e sospirò profondamente.

    – C’è una cosa, figliolo... riguardo a quelle azioni che ti ho dato...

    Ci fu una lunga pausa imbarazzata. La sedia scricchiolò quando il grosso Joe si mosse.

    – Da quello che lui ha detto, sembra che non avrei dovuto farlo. Capisci cosa intendo dire? È convinto che non hanno nessun valore finanziario.

    – Lui sa che le ho io? – chiese Fing-Su.

    Come Joe, anche Fing non pronunciava mai il nome di Clifford Lynne, ma usava il pronome.

    – No, non lo sa! – rispose Joe con enfasi. – Questo è il problema. Ne ha parlato l’altra sera, dicendomi di non dare quei titoli a nessuno.

    – Il mio reverendo e onorato padre ne possedeva nove – disse Fing-Su con la sua voce vellutata. – Io ora ne possiedo ventiquattro.

    Joe si passò una mano sul mento non rasato.

    – Le ho date a te... perché sei stato un bravo ragazzo, Fing-Su... per via del latino, della filosofia e di tutto il resto. Io ci tengo molto all’istruzione e naturalmente volevo fare qualcosa per te. Una gran cosa l’istruzione. – Esitò, mordendosi il labbro inferiore. – Io non sono il tipo d’uomo che dà una cosa e che poi la pretende indietro, ma tu lo conosci, Fing-Su.

    – Lui mi odia – disse Fing-Su con calma. – Ieri mi ha chiamato serpente giallo.

    – Davvero? – chiese Joe tristemente.

    Il suo tono esprimeva l’incapacità di cambiare il deprimente stato dei suoi affari.

    – Me la pagherà prima o poi – disse con un debole tentativo di sembrare fiducioso. – Io sono abile, Fing-Su, ho delle idee in testa che nessuno conosce. Sto facendo dei progetti...

    Si lasciò trasportare da un pensiero segreto, ma poi ritornò in sé.

    – ... riguardo a quei titoli. Ti darò duemila sterline per quei titoli. Non valgono un centesimo, ma io ti darò duemila sterline!

    Il cinese si mosse leggermente sulla sedia e alzò gli occhi neri verso il suo benefattore.

    – Signor Bray, a cosa mi servirebbero i soldi? – chiese, quasi con umiltà. – Il mio reverendo e onorato padre mi ha lasciato ricco. Sono un povero cinese con poche necessità.

    Fing-Su gettò via la sua sigaretta e ne arrotolò un’altra con sorprendente velocità. Carta e tabacco erano diventati un bianco cilindro ancora prima di trovarsi nelle sue mani.

    – A Shanghai e a Canton si dice che la Compagnia Yun Nan è più ricca del governo stesso – disse lentamente. – Dicono che nella valle del Liao-Lio i Lolo hanno trovato l’oro...

    – Noi l’abbiamo trovato – disse Joe con compiacenza. – Quei Lolo cercano solo una scusa per distruggere i templi cinesi.

    – Ma voi avete guadagnato del denaro – continuò Fing-Su. – E senza fatica.

    – Ne ho ricavato il quattro e mezzo per cento – mormorò Joe.

    Fing-Su sorrise.

    – Il quattro e mezzo per cento! E avreste potuto ottenere il cento per cento! A Shan-si c’è carbone per migliaia di dollari! E voi non potete lavorarlo, io lo so, perché non c’è uomo abbastanza forte che governi la Città Proibita e che dica fate questo. Se anche quest’uomo esistesse, non avrebbe un esercito. Ecco un investimento per voi: un uomo di polso.

    – Non sono d’accordo.

    Joe Bray si guardò intorno spaventato. Odiava i politici cinesi, e li odiava anche lui.

    – Fing-Su – disse imbarazzato – quell’antipatico console americano è venuto qui ieri ed era piuttosto stizzito contro il tuo club, le Mani Gioiose; ha detto che ci sono fin troppi salotti nel paese. Anche il governo sta facendo delle domande. Ho Sing è venuto qui la settimana scorsa a chiedere quando hai intenzione di ritornare a Londra.

    Le sottili labbra del cinese si curvarono in un sorriso.

    – Danno troppa importanza al mio piccolo club – disse. – Si tratta di incontri sociali, non parliamo di politica. Signor Bray, non pensate che sarebbe una buona idea se le riserve auree di Yun-Nan fossero usate per...?

    – Per fare niente! – Joe scosse la testa con violenza. – Non posso toccarle. Ora, a proposito di quei titoli, Fing...

    – Sono depositati nella mia banca a Shanghai. Me li farò restituire – disse Fing- Su. – Vorrei piacere al nostro amico. Per lui provo solo ammirazione e rispetto. Ma chiamarmi Serpente Giallo! Non è stato carino.

    La sua lettiga lo stava aspettando per ricondurlo a casa e Joe Bray rimase a guardare i portatori che la trascinavano, fino a quando non scomparvero dietro alla curva.

    Davanti alla piccola casa di Fing-Su c’erano tre uomini che lo aspettavano, seduti vicino alla porta. Fing congedò i portatori e fece cenno ai tre uomini di entrare nella buia stanza coperta di stuoie che usava come studio.

    – Due ore dopo il tramonto, Clifford Lynne (usò il nome cinese) entrerà in città dal Cancello del Riso Benefico. Uccidetelo e portate a me tutte le carte che gli troverete addosso.

    Clifford arrivò in orario, ma entrò in città attraverso il Cancello del Mandarino, sfuggendo così ai sicari. Quando lo riferirono al loro padrone, lui era già a conoscenza di tutto.

    – Avrete molte altre possibilità – disse Fing-Su, dottore in arte. – E forse è anche meglio che l’assassinio non avvenga mentre io sono in città. Domani andrò in Inghilterra e tornerò portando con me il Potere!

    2.

    Sei mesi dopo che Fing-Su era partito per l’Europa, i soci dei fratelli Narth si riunirono nella loro sala del consiglio a Londra per affrontare una strana situazione. Stephen Narth era seduto a capotavola; il suo rubicondo viso, perennemente accigliato, sembrava più preoccupato del solito.

    Alla sua destra sedeva il maggiore Gregory Spedwell, giallo e cadaverico. Aveva i capelli neri e ricci e le dita gialle per la nicotina delle sigarette; nel suo passato non c’era stata solo la vita militare.

    Di fronte a lui c’era Ferdinand Leggat, forte come un toro, con un viso pieno di salute incorniciato dalle basette. A dire il vero, la sanità del suo aspetto aveva dovuto sopportare diverse vicissitudini prima di approdare al porto relativamente rispettabile della Società dei fratelli Narth.

    Un tempo, il nome dei Narth era molto noto a Londra. Thomas Ammot Narth, il padre dell’attuale presidente della Compagnia, aveva fatto degli affari eccellenti, anche se limitati, in Borsa e le più nobili famiglie di Londra erano tra i suoi clienti.

    Suo figlio aveva ereditato da lui l’attitudine per gli affari senza la sua discriminazione: così, se era vero che aveva aumentato il volume d’affari della ditta, era vero anche che aveva accettato come clienti persone che non avrebbero certo incontrato il favore dei vecchi nobili con i quali trattava suo padre. Così, quando si era trovato un paio di volte a discutere sulla precisione degli ordini dei suoi clienti, i vecchi finanziatori della ditta avevano ritirato il loro appoggio, lasciandolo con un ragioniere e uno speculatore. In questo modo aveva la possibilità di realizzare degli affari sporadici piuttosto che rafforzare il capitale, base sicura della prosperità.

    Aveva superato i tempi peggiori grazie alla fluttuazione di diverse società. Con alcune aveva avuto un discreto successo, ma la maggior parte aveva preso l’inevitabile corso che porta davanti all’ufficiale che ha il triste compito di liquidare le società.

    Fu nel corso di queste vicissitudini che Stephen Narth aveva incontrato il signor Leggat, uno speculatore spagnolo che portava avanti anche un’agenzia che concedeva prestiti e che si trovava sempre nelle vicinanze di una ditta costruita con materiale scadente.

    L’affare che li aveva fatti riunire alle nove di mattina, nel loro freddo e scomodo ufficio nel palazzo Minchester, non aveva nulla a che vedere con i problemi ordinari della ditta. Il signor Leggat parlò in tono quasi profetico.

    – Parliamoci chiaro – disse. – Siamo così vicini alla bancarotta che non fa differenza. Ho detto bancarotta e affermo che il problema va affrontato adesso. Quello che potrebbe risultare da un’eventuale inchiesta per bancarotta non interessa Spedwell e non interessa me. Io non ho speculato con i soldi della Società e non l’ha fatto neppure Spedwell.

    – Ma voi sapevate... – disse Narth con fervore.

    – Io non sapevo niente – lo azzittì il signor Leggat. – I revisori ci hanno comunicato che mancano cinquantamila sterline. Forse qualcuno le ha giocate in Borsa, ma non siamo stati né io né Spedwell.

    – Ma è stato su vostro consiglio...

    Il signor Leggat lo azzittì di nuovo con un gesto della mano.

    – Non è questo il momento per le recriminazioni. Ci mancano cinquantamila sterline. Come abbiamo intenzione di recuperarle?

    Il suo sguardo incontrò gli occhi di Spedwell e per un attimo quell’uomo triste sembrò mostrare approvazione e divertimento.

    – Fate presto voi due a parlare – grugnì Narth, passandosi un fazzoletto di seta sul volto sudato. – Voi eravate nel commercio dell’olio!

    Il signor Leggat sorrise e si strinse nelle spalle ma non fece commenti.

    – Cinquantamila sterline sono un bel po’ di soldi – disse Spedwell parlando per la prima volta.

    – Un maledetto mucchio di soldi – confermò il suo amico che aspettava un commento da parte del signor Narth.

    – Non siamo venuti qui oggi per discutere quello che sappiamo già – esclamò Narth impaziente – ma per trovare un rimedio. La questione è: come possiamo affrontare la situazione?

    – La risposta è semplice, credo – disse il signor Leggat in tono quasi gioviale – Per quanto mi riguarda, non ho la minima intenzione di affrontare di nuovo, o meglio, lasciatemi dire per la prima volta, la povertà. Noi dobbiamo, o meglio dovete trovare un modo per recuperare i soldi e resta una sola possibilità – disse il signor Leggat lentamente, fissando il viso di Stephen Narth. – Voi siete i nipoti o i cugini del signor Joseph Bray, il quale è più ricco di quanto un avaro potrebbe sognare di essere. Si dice che sia l’uomo più ricco della Cina e io so, correggetemi se sbaglio, che voi e la vostra famiglia ricevete uno stipendio annuo, una pensione da questo gentiluomo.

    – Duemila sterline all’anno – lo interruppe Narth ad alta voce – ma questo non ha nulla a che vedere con questa faccenda.

    Il signor Leggat lanciò un’occhiata al maggiore e sorrise.

    – Un uomo che vi manda duemila sterline all’anno, dovrebbe essere abbordabile, in un modo o nell’altro. Per Joseph Bray cinquantamila sterline sono una sciocchezza! – Schioccò le dita. – Mio caro Narth, le cose stanno così. Tra quattro mesi, forse anche prima, voi sarete davanti al Tribunale, a meno che non riusciate a sanare le vostre ferite.

    – In tutti

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