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Quelli che uccidono: La nuova regina del thriller
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Quelli che uccidono: La nuova regina del thriller
E-book425 pagine5 ore

Quelli che uccidono: La nuova regina del thriller

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Info su questo ebook

«Angela Marsons è la regina del giallo.» 
Antonio D’Orrico

Un grande thriller

Il calo improvviso delle temperature porta con sé la neve e un fagottino avvolto in uno scialle lasciato sulla soglia della stazione di polizia di Halesowen. 
Chi abbandonerebbe un bambino per strada con un freddo simile? 
È questa la domanda che tormenta la detective Kim Stone, formalmente incaricata di prendersi cura del neonato fino a che non verranno allertati i Servizi Sociali. 
E la notte è ancora lunga: una telefonata di emergenza richiama la detective in servizio. Kelly Rowe, una giovane prostituta, è stata assassinata nel quartiere di Hollytree. Le brutali ferite sul corpo sembrano suggerire che l’omicidio sia frutto di un raptus o di una rapina, ma Kim è sicura che quelle labbra livide, se potessero, racconterebbero un’altra storia. Quando altre prostitute vengono uccise in rapida successione, appare chiaro che i delitti sono collegati e nascondono qualcosa di inquietante. 
Nel frattempo prosegue la ricerca della donna che ha abbandonato il suo bambino, ma quello che all’inizio sembra un gesto disperato assume via via contorni sempre più sinistri 
Per Kim Stone e la sua squadra comincia così una discesa negli abissi più oscuri dell’animo umano, che li porterà ad addentrarsi in una spirale di sangue e barbarie. Forse questa volta la verità è più spaventosa di ogni immaginazione…

Un’autrice numero 1 in Italia e Inghilterra 
Oltre 5 milioni di copie nel mondo 
Tradotta in 29 lingue
Vincitrice del Premio Bancarella

Hanno scritto dei suoi libri: 

«La storia è forte, anzi fortissima. C’è un’aria alla Fargo e un sound da fratelli Coen. Angela Marsons è proprio brava. L’avevo candidata al trono di Regina del giallo lasciato vacante da Patricia Cornwell e riconfermo la nomination.» 
Antonio D’Orrico 

«Kim Stone è una detective che dovete assolutamente conoscere.» 
la Repubblica 

«Angela Marsons è paragonabile al campione americano del thriller James Patterson.» 
Corriere della Sera 

«Un giallo superbo. Trama e scrittura sono semplici e afferrano il lettore come vuole la tradizione britannica. Solo che stavolta, al posto della campagna inglese, c’è la cruda realtà delle periferie. L’adrenalina è alta sino alla fine. E non è facile, di solito.» 
Il Fatto Quotidiano

«Le storie di Angela Marsons hanno una marcata vocazione sociale. In questo romanzo incontriamo donne costrette per necessità a prostituirsi, migranti dell’Est trattati come bestie destinate al macello. Hollytree è l’inferno della periferia inglese.»
Il Fatto Quotidiano
Angela Marsons
Ha esordito nel thriller con Urla nel silenzio, bestseller internazionale ai primi posti delle classifiche anche in Italia. La serie di libri che vede protagonista la detective Kim Stone ha già venduto 5 milioni di copie, e comprende Il gioco del male, La ragazza scomparsa, Una morte perfetta, Linea di sangue, Le verità sepolte (Premio Bancarella 2020), Quelli che uccidono, Vittime innocenti e il prequel Il primo cadavere. Angela vive nella Black Country, in Inghilterra, la stessa regione in cui sono ambientati i suoi thriller.
LinguaItaliano
Data di uscita22 lug 2021
ISBN9788822751515
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    Anteprima del libro

    Quelli che uccidono - Angela Marsons

    Capitolo 1

    «È uno scherzo, spero», esclamò Kim rivolta al cruscotto della sua vecchia Golf. «Non ci credo!», strillò, girando per l’ennesima volta la chiave.

    Anche la flebile speranza che una scenata potesse convincere il motore ad accendersi si spense insieme agli ultimi, agonizzanti singhiozzi emessi dalla batteria prima di morire una volta per tutte.

    Kim si sfregò le mani. Non c’era da stupirsi se l’auto non voleva saperne di mettersi in moto. Era ferma nel parcheggio dalle sette di quella mattina e la temperatura non era mai salita sopra lo zero. La Golf aveva avuto a disposizione quattordici ore per pianificare la sua vendetta.

    «Accidenti a te», esclamò aprendo lo sportello.

    Le sarebbe toccato tornare alla stazione di polizia per chiamare un taxi. Si immaginò l’espressione compiaciuta con cui l’avrebbe accolta Jack, che poco prima aveva abbandonato alle prese con un ubriaco convinto di chiamarsi Babbo Natale. Era in ritardo di due settimane, ma il tizio non voleva sentire ragioni.

    Si preparò mentalmente e allungò la mano verso la maniglia.

    In quell’istante la porta si spalancò all’improvviso verso l’esterno e due uomini in uniforme nera schizzarono fuori dall’edificio. Il primo continuò a correre, l’altro rallentò per scusarsi.

    «Mi perdoni, signora», esclamò. «Tamponamento a catena allo svincolo autostradale. Cinque veicoli coinvolti».

    Kim annuì e lo congedò.

    Gli agenti salirono sulla volante, misero in moto e partirono sgommando. Non avrebbero trovato traffico nonostante fosse sabato. Le persone dotate di un minimo di buon senso quella sera erano rimaste a casa a guardare la tivù con una tazza fumante in mano. Era ciò che stavano facendo gli altri membri della squadra e che fino a poco prima aveva sperato di poter fare anche lei. Maledetta auto.

    Per fortuna Barney in quel momento era al calduccio davanti al camino di Charlie, al rientro dalla loro passeggiata. Quando era costretta a fermarsi al lavoro fino a tardi, il suo vicino, un signore di settant’anni, andava a prendere il cane e lo portava a casa sua.

    Fra poco vengo a prenderti, piccolo, gli promise con il pensiero.

    A un tratto, poco distante, notò uno strano oggetto appoggiato al muro esterno dell’edificio. Dalla forma le parve di riconoscerlo, ma si disse che era impossibile. Si avvicinò con circospezione. Nascosto nell’angolo, era passato inosservato agli agenti distratti che stavano correndo verso il luogo dell’incidente.

    Kim sentì il sangue gelarsi nelle vene e per un attimo si dimenticò della rigida temperatura esterna.

    «Non è possibile», sussurrò, avanzando di qualche passo. «Merda», concluse infine, quando lo vide chiaramente.

    Capitolo 2

    Kelly Rowe percorreva a piedi Tavistock Road, cercando di rimanere visibile e al tempo stesso di schivare i fiocchi di neve che cadevano obliqui e sempre più fitti da un paio d’ore a quella parte.

    L’aria gelida le sferzò le gambe nude. La gonna di jeans le copriva appena metà coscia.

    Dopo le dieci, le altre avevano cominciato ad andarsene alla spicciolata. Era rimasta soltanto Sally Summers, una delle prostitute più anziane, al solito posto in fondo al viale.

    Con la neve gli affari andavano male.

    Prese il telefono e fece una chiamata. Sua madre rispose al terzo squillo.

    «Ciao mamma, tutto a posto?»

    «Sì, alle dieci sono finalmente riuscita a mettere Lindy a letto. Si era fissata che prima di dormire voleva un altro biscotto».

    Una sensazione di calore attenuò il freddo. Nonostante avesse solo quattro anni, Lindy sapeva essere molto testarda, una dote che sfruttava al massimo con la nonna. Kelly moriva dalla voglia di tornare a casa per accoccolarsi nel letto con lei e addormentarsi stringendo le sue manine paffute. Quando teneva sua figlia tra le braccia, tutto le sembrava un po’ più sopportabile.

    Purtroppo, per quanto lo desiderasse, non era possibile.

    Sotto sotto avrebbe preferito che le bizze si fossero prolungate e la figlia fosse ancora sveglia, così avrebbe potuto rassicurarla sul fatto che sarebbe tornata a casa presto. Giusto per sentire la sua voce.

    «C’è gente al locale, Kel?», domandò sua madre riempiendo il silenzio.

    Kelly incrociò le dita e chiuse gli occhi. La mamma era convinta che lavorasse tre sere alla settimana in un night club di Stourbridge. La verità le avrebbe spezzato il cuore.

    «Sì, è rimasto qualche cliente. Sono uscita solo per fumare una sigaretta».

    «Va bene, tesoro. Stai attenta quando torni. Sta venendo giù che Dio la manda».

    «Certo mamma, grazie», rispose Kelly chiudendo la chiamata.

    Se non avesse attaccato subito, sua madre avrebbe sentito la sua voce impastata di pianto. Per l’ennesima volta si maledisse per la sua testardaggine. Se diciotto mesi prima avesse messo da parte l’orgoglio, forse non si sarebbe cacciata in quella situazione.

    Non aveva previsto di ritrovarsi sola e incinta a diciassette anni. C’era mancato poco, un’ora per l’esattezza, che si sottoponesse a un aborto. All’ultimo momento, però, andando contro il volere di sua madre, aveva deciso di tenere la bambina. Non se ne era pentita neanche per un istante.

    Era determinata a prendersi cura della figlia con le proprie forze e inizialmente se l’era cavata bene. Aveva ottenuto un posto come impiegata in una casa di cura e aveva preso in affitto un bilocale a Netherton, grande a sufficienza per lei e Lindy. A patto che facesse la spesa in modo intelligente, andando al supermercato a fine giornata per approfittare degli sconti, riusciva a coprire le spese.

    Due anni e mezzo dopo, purtroppo aveva perso il lavoro. I debiti avevano iniziato ad accumularsi, fino al punto in cui ogni busta trovata sullo zerbino portava il marchio rosso dei pagamenti insoluti. Quando le avevano tagliato la corrente, Kelly era piombata nella disperazione.

    Era stata una vicina di casa, Roxanne, andata in suo soccorso, a consigliarle di farsi prestare del denaro da Kai Lord. L’enigmatico africano le aveva offerto una somma molto più alta del necessario e aveva insistito affinché la accettasse per il bene della piccolina.

    Kelly aveva pensato di chiedere aiuto alla madre, ma la donna non aveva visto di buon occhio la sua decisione di andarsene da casa così presto: era convinta che Kelly non sarebbe stata in grado di provvedere a sua figlia da sola. Rivolgersi a lei sarebbe equivalso ad ammettere una sconfitta.

    Un torvo impiegato dell’ufficio sussidi, dall’odore non proprio gradevole, l’aveva aiutata a compilare il modulo per la domanda, attendendo la fine per informarla che ci sarebbero volute almeno due settimane prima che i contributi, duecento sterline ogni due settimane, cominciassero a essere accreditati sul suo conto corrente. Non erano previste ulteriori misure d’emergenza.

    Così Kelly, con un mese di affitto arretrato, l’elettricità tagliata e la dispensa vuota, aveva accettato la proposta di Kai, un prestito di mille sterline, e si era rimessa in pari con i pagamenti. Tre settimane dopo le era stato chiesto di restituire il denaro. Con gli interessi. Un totale di quasi tremila sterline: il triplo della somma iniziale.

    Quando gli aveva comunicato di non poter saldare il debito, Kai si era arrabbiato. Aveva risposto che i suoi soci non ne sarebbero stati felici e che, anche se lui non avrebbe mai torto un capello alla piccolina, non poteva garantire che non ci sarebbero state ritorsioni da parte loro. Le aveva proposto una soluzione e a Kelly non era rimasta altra scelta se non accettare.

    L’incontro con il primo cliente era stato il momento peggiore, ma la necessità e la disperazione l’avevano convinta a continuare.

    Dopo un po’ aveva imparato a estraniarsi dall’atto fisico, a farsi trasportare altrove dal pensiero.

    Alla fine si era rivelato tutto inutile poiché era stata comunque costretta a tornare a vivere con la madre, non essendo riuscita a trovare un lavoro prima che finisse il denaro prestatole da Kai.

    Ogni volta che saliva su un’auto, però, sentiva di aver fatto un passo in più verso la libertà. Aveva un piano ben preciso: sarebbe rimasta dalla mamma il tempo necessario a trovare un lavoro rispettabile, avrebbe messo da parte un po’ di risparmi e, una volta tranquilla, avrebbe cercato un’altra casa.

    Un’auto imboccò Tavistock Road. La lentezza con cui procedeva indicava che alla guida c’era un cliente in cerca di compagnia.

    Kelly, che aveva trovato rifugio nella nicchia di una porta, avanzò scrutando da entrambi i lati. L’uomo avrebbe visto prima lei di Sally in fondo alla strada.

    Raddrizzò la schiena; il vento gelido le sferzava il corpo, i fiocchi di neve si scioglievano sulla pelle nuda. Percorse il marciapiede ancheggiando, la testa piegata di lato con fare malizioso.

    L’auto accostò.

    Kelly sorrise e aprì lo sportello.

    Capitolo 3

    «Ehm… è un bambino, signora», esclamò Jack, al sicuro dietro al pannello di vetro della guardiola.

    «Sei sprecato come agente di guardia, sai?», ribatté Kim. Sapeva benissimo cos’era. Ciò che non sapeva era cosa lui intendesse fare in proposito.

    «Be’, una cosa è certa, signora: quando è uscita, dieci minuti fa, non ce l’aveva».

    Kim strizzò gli occhi. «Molto divertente, Jack. E adesso fammi entrare, così lo…».

    «Non posso tenerlo qui», si affrettò a dire lui.

    «Jack, adesso finiscila con le stronzate e prendi questo…».

    «Dico sul serio», ribadì l’agente scuotendo il capo. «Sono in arrivo due volanti e una camionetta: una rissa sfuggita di mano al negozio di fish and chips».

    E va bene, pensò Kim. In effetti la rissa l’avrebbe tenuto occupato per le prossime ore.

    «Allora chiama qualcuno e digli di venire giù a…».

    «Certamente, signora. Contatto subito l’asilo nido al terzo piano in funzione ventiquattr’ore su ventiquattro».

    «Jack…», esclamò lei, a mo’ di avvertimento.

    Per tutta risposta, l’agente allargò le braccia e si strinse nelle spalle.

    Neanche Kim sapeva bene che cosa volesse da lui, ma la maniglia del seggiolino per auto le si stava conficcando nella mano.

    «Fammi passare», sbottò. «E chiama subito gli assistenti sociali».

    «Immediatamente, signora», rispose Jack alzando la cornetta.

    La detective tornò nella sala operativa della sua squadra, che aveva lasciato meno di quindici minuti prima.

    Posò il seggiolino sulla scrivania di Bryant e accese il calorifero. Per fortuna la stanza era ancora tiepida.

    «E adesso che faccio?», esclamò, fermandosi davanti al tavolo con le mani sui fianchi.

    Il neonato arricciò il nasino, senza destarsi dal sonno profondo.

    Kim piegò la testa di lato. «Non mi resta che perquisirti», bisbigliò.

    Sollevò il candido scialle traforato che qualcuno, dopo averlo ripiegato, aveva rimboccato intorno al corpo del bambino avvolgendolo come una mummia. Sotto allo spesso strato di lana indossava una tuta giallo limone completa di piedini, cappuccio e un paio di orecchie. Kim passò la mano sulle pareti del seggiolino, ma non trovò niente. Slacciò con delicatezza la fibbia e sfiorò la cerniera della tutina. Il bambino reagì facendo una serie di smorfie, come se stesse masticando una bistecca.

    Non svegliarti, lo implorò muta, rimanendo immobile. Si era sentita più tranquilla nel trattare con spietati criminali. Una retata di spacciatori all’alba, un inseguimento a piedi di tre chilometri sulle tracce di uno stupratore, una rapina a mano armata: negli ultimi tempi aveva affrontato tutte queste situazioni e non aveva mai raggiunto simili livelli di ansia.

    Gli occhi del bambino restarono chiusi e poco dopo Kim riprese l’ispezione. Abbassando la cerniera scoprì che sotto alla tutina gialla ne indossava un’altra, di cotone.

    A un tratto, il neonato si mosse e iniziò a scalciare. Kim indietreggiò, trattenendo il fiato.

    Lo squillo del telefono la fece sobbalzare.

    «Jack, per favore, dimmi che sono arrivati», esclamò, pur sapendo che sarebbe stato un tempo da record per gli assistenti sociali.

    «Eh, le piacerebbe», ridacchiò l’agente. «Gli operatori in servizio stanno cercando di trovare una sistemazione per una donna e i suoi cinque figli, minacciati di morte dall’ex marito».

    «Oddio», commentò Kim. A quanto pareva, la stagione dei buoni sentimenti era già morta e sepolta. «E quanto ci metteranno?»

    «Non ne ho la minima idea, non mi hanno detto niente. Ma non credo che un bebè al sicuro e al calduccio in una stazione di polizia sia in cima alla lista delle loro priorità».

    «Andiamo, Jack. Dev’esserci qualcosa che puoi…».

    «Devo lasciarla», la interruppe, quando uno scoppio improvviso di grida rimbombò nella cornetta.

    «Grazie, sei stato molto utile», esclamò Kim, sbattendo il telefono sul tavolo.

    «Perfetto», aggiunse, quando vide il bambino spalancare gli occhi e la bocca nello stesso momento.

    Un secondo dopo, uno strillo acuto risuonò nell’ufficio e Kim si guardò intorno con aria colpevole, come se volesse giustificarsi e spiegare che non gli aveva fatto niente di male. Peccato che non ci fosse nessuno. Ed era proprio questo il punto, cazzo.

    Il neonato continuava a piangere. Il suono le arrivò dritto ai nervi. Merda. E adesso, che cosa doveva fare?

    Prese il cellulare e aprì la rubrica dei contatti. Al secondo squillo, per fortuna, lui rispose.

    «Che succede, capo?». Kim non era mai stata tanto felice di sentire la sua voce.

    «Bryant, ho bisogno di te qui alla stazione di polizia. Subito».

    Lanciò un’occhiata al bebè. Mentre strillava, adesso la fissava con aria accusatoria.

    «Sbrigati, Bryant, si tratta di un’emergenza».

    Capitolo 4

    A ogni movimento brusco del furgone, Andrei urlava di dolore. A ogni incrocio, curva, buca, un dolore accecante si irradiava dalla gamba in tutto il suo corpo, violento come lo scoppio di un fuoco d’artificio.

    Le grida, per quanto assordanti, non si udivano all’esterno, soffocate dallo straccio ormai intriso di saliva che stringeva in bocca. Aveva cercato di aggrapparsi al pavimento di lamiera, quel tanto che poteva con le mani legate, ma gli ammortizzatori scassati continuavano a sballottarlo come una bambola di pezza. Tentò di convincersi che lo stessero portando in ospedale, che i legacci e il bavaglio fossero semplici precauzioni adottate durante il tragitto.

    Non conosceva l’uomo alla guida, ma di tanto in tanto l’aveva visto all’azienda agricola. Si ricordò che il furgone nero faceva la sua comparsa ogni volta che si verificava un incidente grave.

    Senza preavviso, il veicolo si fermò e il motore si azzittì.

    Andrei drizzò le orecchie.

    Lo sportello laterale si aprì e lui fu scaraventato fuori come un sacco di patate. Iniziò a lacrimare e a gridare per il dolore lancinante.

    La neve era aumentata da quando avevano lasciato l’azienda agricola. I fiocchi non volteggiavano lievi nell’aria, bensì precipitavano, pesanti e ghiacciati, sulla sua pelle. Per terra ce n’era già qualche centimetro.

    «Ti prego», balbettò.

    La sua supplica fu ignorata. Fu trascinato giù per il viottolo che portava al canale. Lampi rossi di dolore gli annebbiavano la vista.

    «Per favore, portami in ospedale», lo supplicò, nella speranza che comprendesse le sue parole.

    «Chiudi la bocca, idiota», gli fu risposto, sebbene non ci fosse un’anima in giro in grado di udire le sue suppliche.

    L’uomo lo trasportò lontano dal ponte, lungo l’alzaia che costeggiava il corso d’acqua. Con le ossa rotte, ogni centimetro era un supplizio.

    A un certo punto l’uomo si voltò indietro. Si trovavano a una quindicina di metri dal ponte già imbiancato di neve. Dopodiché si girò nella direzione opposta. Nei dintorni non si scorgevano altri punti d’accesso al canale.

    Andrei seguì il suo sguardo, che risalì il muro esterno della fabbrica abbandonata, con le lastre di vetro alle finestre crepate o rotte.

    All’apparenza soddisfatto, l’uomo lo scaricò sull’erba.

    Si chinò e bisbigliò, con aria complice: «Senti, il capo ti vuole morto e io gli farò credere che tu lo sia. Non mi piace ammazzare la gente, quindi se rimani qui e non ti muovi, tornerò a prenderti appena posso. Se ti sposti siamo fottuti. Tutti e due. Capito?».

    Andrei annuì. Non aveva alternative. Il dolore atroce che lo tormentava gli impediva di reagire e non poteva certo andarsene da solo.

    L’uomo si pulì il viso dalla neve, poi si voltò e si incamminò per tornare verso il ponte e risalire sulla strada.

    Un’altra fitta riempì gli occhi di Andrei di lacrime. Pregò che l’uomo tornasse presto a prenderlo.

    Capitolo 5

    «Grazie a Dio sei arrivato», esclamò Kim quando Bryant entrò nella sala operativa.

    Com’era prevedibile, aveva esaurito il repertorio di facce buffe in pochi minuti, allora aveva iniziato a spingere avanti e indietro il seggiolino con l’unico risultato che le era venuta la nausea, e probabilmente anche al bambino.

    Davanti a quella scena, Bryant scosse il capo e, dopo aver posato una busta di plastica sulla scrivania libera, si avvicinò e la scostò con delicatezza. «Non l’hai neanche tirato fuori dal seggiolino?», le chiese, sfilando le cinture.

    «Un’attenta valutazione dei rischi e delle mie capacità mi ha portato a considerare sconsigliabile l’idea», decretò lei.

    Una frazione di secondo dopo, il neonato era tra le braccia di Bryant, che se lo accostò al petto e cominciò a muoverlo ritmicamente su e giù. Dopo qualche sobbalzo il bambino iniziò a calmarsi.

    Kim sentì la tensione che si allentava.

    «Bryant, sei proprio…».

    Ammutolì quando vide spuntare Dawson sulla soglia.

    «Kev, che ci fai…».

    «Secondo te potevo perdermelo?», esclamò lui con un sorrisetto, dirigendosi verso il bambino. Appoggiò una seconda busta accanto a quella di Bryant.

    Kim lanciò un’occhiata torva al sergente. «Gliel’hai detto tu?».

    Lui la guardò come se fosse scontato. «Certo. Tu e un neonato? Dovevo per forza raccontarlo a qualcuno».

    Kim scrollò il capo. Dawson, intanto, stava solleticando il mento del bambino.

    Si strinse nelle spalle. «Ho pensato che fosse meglio sbrigarsi, prima che lo portassi nella stanza degli interrogatori e iniziassi a torchiarlo».

    «Ottimo, adesso ci manca solo…».

    «Ehi, capo, che sta succedendo qui?». Entrò Stacey, che, come gli altri, depositò un sacchetto sulla scrivania.

    Kim alzò le mani, sbigottita.

    «Bryant, non dirmi che per sicurezza hai chiamato anche l’esercito».

    «No, mi sono limitato alla nostra squadra», ribatté lui, senza sentire il bisogno di scusarsi. «Certo, se avessi avuto il tempo di stampare degli inviti…».

    «Che avete portato?», domandò Kim indicando le buste di plastica.

    «Pannolini», esclamò Bryant adagiando il bebè sulla scrivania.

    «Latte», disse Stacey.

    «Un giocattolo», aggiunse Dawson.

    «Ma chi siete, i re magi?», esclamò Kim. «Mi dispiace, Stace, ma per tua informazione il neonato non si è trasferito da noi. Non dobbiamo adottarlo, dobbiamo solo occuparcene per qualche ora».

    Bryant iniziò a sfilargli la tutina, mentre Dawson fissava Kim con espressione assorta.

    «Quindi, se noi siamo i re magi, tu saresti la Madon…».

    «Non azzardarti a finire la frase, Kev», lo minacciò.

    «Congratulazioni, capo. È un maschio», esclamò Bryant con un sorrisetto.

    Vedendo i colleghi che si divertivano a sue spese, Kim rimpianse di non aver ignorato le proteste di Jack e di non avergli mollato il bambino.

    Quando guardò il suo visino felice e sentì i gorgoglii che rivolgeva a Bryant, però, capì di aver fatto la cosa giusta. Il bambino era al sicuro e al caldo, contava solo questo.

    «Stace, mi passi un pannolino?», domandò Bryant. Kim, nel frattempo, si diresse verso la macchina del caffè. Li attendeva una lunga notte.

    «Ci penso io, capo», esclamò Dawson.

    Kim scosse la testa, ma proprio in quel momento il suo cellulare cominciò a squillare.

    «Detective Stone», esclamò.

    Mentre ascoltava, la sua espressione cambiò.

    «Va bene, ho capito», disse, chiudendo la conversazione.

    «Bryant, baderanno gli altri al bambino. Hanno trovato un cadavere su Burton Road», annunciò, afferrando il cappotto.

    Non era piacevole ricevere una chiamata del genere, ma rivolgendo un ultimo sguardo al corpicino che si dimenava sulla scrivania, Kim concluse che, per lo meno, quella era una situazione che sapeva gestire.

    Capitolo 6

    A undici minuti esatti dalla chiamata, Kim arrivò sulla scena del delitto. Nevicava senza sosta, ma la sabbia sparsa sulle strade per il momento aveva evitato che si trasformassero in lastre di ghiaccio.

    Il retro della schiera di negozi dava su una viuzza che proseguiva sotto il ponte della ferrovia per poi inoltrarsi nel quartiere di Hollytree.

    Kim si guardò intorno, dando le spalle alla zona recintata con il nastro della polizia. Se la loro presenza aveva incuriosito qualche passante, quel qualcuno doveva essere rimasto a debita distanza, poiché non si era radunato il solito capannello di cittadini ansiosi di accaparrarsi un posto in prima fila per assistere al ritrovamento di un cadavere.

    Bryant estrasse il distintivo, mentre Kim indossava i calzari di protezione che le avevano consegnato gli agenti.

    Giunta a metà del vicolo, udì una voce familiare che la chiamava.

    «Detective Stone. Speravo proprio che fossi tu l’ufficiale responsabile che avrebbero tirato giù dal letto in questa gradevole e fresca mattinata».

    «Keats, sono quasi le due di notte e non vedo il mio cane né la mia casa da poco meno di ventiquattr’ore. Se vuoi provocarmi fai pure, a tuo rischio e pericolo. Allora, cos’abbiamo qui?».

    Keats era il medico legale della zona, celebre per il suo umore per lo più pessimo. Era un uomo basso, con un pizzetto folto che sembrava voler compensare la calvizie. Kim era il bersaglio preferito del suo umorismo caustico. Keats le stava simpatico, quasi sempre; a quell’ora, però, un po’ meno.

    «Ah, Bryant, per fortuna», esclamò il medico legale quando il sergente apparve alle spalle della detective. «Un conversatore assai più piacevole».

    Bryant fece una smorfia. «Non punzecchiarla, Keats. Non quando sono accanto a lei, per lo meno».

    Kim era consapevole del loro chiacchiericcio, ma smise di ascoltarli.

    La via era buia, illuminata da un unico lampione nei pressi delle transenne. Il fotografo della polizia scattò e la luce del flash rischiarò la zona a giorno.

    «Cristo», disse Kim. «Fallo ancora».

    Stavolta era preparata e fece in modo di imprimersi la scena nella mente. Aveva davanti il corpo di una donna poco più che ventenne. I capelli raccolti in una coda lasciavano scoperto il viso, su cui il tempo non aveva ancora impresso i propri segni. Gli occhi sbarrati fissavano il cielo.

    «Scatta di nuovo», ripeté Kim.

    I fiocchi di neve si posavano sulle ciglia, dove brillavano per un secondo prima di svanire. L’immagine degli occhi sbarrati che non si chiudevano quando ci cadeva dentro la neve era sinistra.

    Indossava una minigonna di jeans, non portava le calze e ai piedi aveva un paio di scarpe con il tacco a spillo. La testa, il collo e le gambe sembravano in condizioni abbastanza normali.

    «Fanne un’altra», esclamò.

    Kim non riuscì a distinguere il colore dell’indumento che copriva la parte superiore del corpo. Vide solo una gigantesca macchia rossa.

    «Scatta!».

    Questa volta individuò almeno tre squarci nella stoffa.

    «Tieni, prendi questa», esclamò Keats porgendole una torcia.

    Kim la prese e la puntò sul busto della donna. Tutt’attorno al cadavere la neve era intrisa di sangue. Sembrava l’opera di un apprendista macellaio al primo giorno di lavoro.

    «Quante ferite da taglio?»

    «Per ora ne ho contate quattro, vi darò conferma dopo l’autopsia».

    Kim annuì.

    «Ora del decesso?»

    «Il fegato indica che è morta da circa tre ore, ma come ben sai…».

    «Non possiamo stabilirlo con precisione a causa della temperatura esterna», recitò Kim terminando la frase.

    «Noto con piacere che stai imparando, Stone».

    Kim non gli diede spago e diresse il fascio di luce verso il corpo. Dovette controllare l’impulso di chinarsi ad abbassarle le palpebre, per chiudere la porta sul suo dolore e permetterle di riposare in pace. Un ultimo atto di gentilezza.

    Kim sarebbe stata in grado di stimare l’ora approssimativa della morte anche senza l’esame della temperatura del fegato. La neve aveva cominciato a cadere all’incirca alle nove ed era aumentata dalle undici in poi. Osservando il sottile strato bianco che si era depositato sui palmi delle mani rivolti verso l’alto, Kim avrebbe detto che si trovava in quella posizione da circa tre ore.

    «Sotto il braccio destro c’è una borsa?», domandò.

    Keats annuì, lanciando un’occhiata al fotografo, che si fece da parte.

    «Fai pure», le disse, dandole il permesso di spostare il braccio.

    Kim si chinò e lo sollevò con delicatezza. Utilizzò la torcia per alzare il risvolto di pelle della borsetta e guardare all’interno. In cima scorse alcune banconote arrotolate.

    «Sarà l’incasso dell’ultimo cliente?», domandò Bryant aprendo una busta di plastica.

    «Sì, e non è passato molto tempo».

    Kim fece cadere i soldi nel piccolo sacchetto. «Non ha nemmeno avuto il tempo di metterli insieme agli altri».

    Sul fondo della borsa trovò un secondo fascio di banconote, penosamente sottile per una serata passata a lavorare sotto la neve. Nello scomparto principale non c’era molto, soltanto un mazzo di chiavi attaccate a un anello di metallo con uno smile e dei profilattici. Rovistò nella tasca laterale, dove scovò ciò che stava cercando: la patente di guida e un cellulare.

    Illuminò la tessera con la torcia.

    «Kelly Rowe». Si avvicinò per vedere meglio. «Ventun anni, residente a Wordsley».

    «Possiamo escludere il movente della rapina».

    Kim annuì. L’aveva capito subito. La borsa si trovava al di sotto del corpo: significava che la vittima ci era caduta sopra. Se fosse stata l’obiettivo dell’assassino, i due se la sarebbero contesa in modo più o meno violento e con ogni probabilità l’avrebbero ritrovata davanti, oppure accanto, alla vittima. Inoltre, era raro che un rapinatore richiudesse una borsa dopo averla svuotata.

    «Credi che le prime banconote che hai trovato possano rivelarci qualcosa?», domandò Bryant.

    «Non quanto vorremmo», rispose Kim. «Quel denaro gliel’ha dato l’ultimo cliente che è rimasto soddisfatto del servizio. L’assassino se lo sarebbe tenuto». Si fermò a riflettere. «Ridammi la busta».

    «Quella con i soldi?».

    La detective annuì. Li esaminò alla luce della torcia: dovevano ammontare a quaranta o cinquanta sterline; più che la somma, la colpì il fatto che le banconote sembrassero tutte dello stesso taglio, ossia da cinque.

    «Chiunque abbia pagato con questi soldi potrebbe dirci al massimo in che direzione è andata quando si sono salutati, non molto altro».

    Si rivolse al medico legale. «Keats, quando…?»

    «Lunedì mattina. Non ho intenzione di farmi mettere pressione. Siccome immagino tu voglia che mi occupi personalmente di questa signorina, ti informo che all’obitorio al momento abbiamo già tre pensionati, e che sto lavorando senza sosta da undici giorni».

    Kim aprì la bocca per rispondere, ma ci ripensò. Di recente Keats era stato chiamato da un’altra contea per collaborare al caso di un incendio di cui erano rimasti vittime quattro bambini al di sotto dei nove anni.

    Il medico legale si portò una mano al cuore. «Che succede, detective, nessuna protesta, minaccia, intimidazione?».

    Lei si limitò a sorridergli e ad andarsene, solo per confonderlo un po’. Incrociò due agenti che trasportavano un paravento: nel vicolo stretto non c’era spazio per montare la tenda bianca in dotazione alla scientifica. In una gelida notte d’inverno il buon senso avrebbe dovuto scoraggiare i passanti dal trattenersi a curiosare, ma l’attrazione per il macabro non conosceva stagione.

    Kim si

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