Scopri milioni di eBook, audiolibri e tanto altro ancora con una prova gratuita

Solo $11.99/mese al termine del periodo di prova. Cancella quando vuoi.

Il ragazzo sul ponte
Il ragazzo sul ponte
Il ragazzo sul ponte
E-book467 pagine6 ore

Il ragazzo sul ponte

Valutazione: 0 su 5 stelle

()

Leggi anteprima

Info su questo ebook

Autore del bestseller La ragazza che sapeva troppo

«Originale, avvincente, potente.»
The Guardian

«Intuizioni narrative brillanti.»
Publishers Weekly

Sono passati dieci anni da quando un’epidemia ha trasformato la maggior parte degli abitanti del pianeta in mostri privi di raziocinio e assetati di sangue.
Ciò che resta dell’umanità è allo stremo, asserragliata in fortezze invalicabili. Stephen Greaves, un ragazzino di quindici anni estremamente brillante, lavora nella squadra scientifica per cercare un antidoto e garantire al genere umano una speranza. Ma Stephen non è un ragazzino qualunque: fatica a relazionarsi con le altre persone, rifuggendo ossessivamente il contatto umano. Nonostante questo, la scienziata Samrina Khan decide di includerlo nel programma che porterà una spedizione a bordo del laboratorio mobile Rosalind Franklin, in un viaggio pericolosissimo verso l’ignoto. Scopo della missione è cercare di analizzare il fungo più da vicino e sintetizzare una cura per gli umani infetti. Ed è così che la storia ha inizio... 

L’attesissimo ritorno nel mondo di La ragazza che sapeva troppo, un bestseller da 1 milione di copie diventato un grande film

«Questo libro ha la straordinaria effervescenza di Stephen King.»
Daily Mail

«Un romanzo incredibile, terrificante ed emozionante, che esplora le profondità dell’essere umano.»
Kirkus Reviews
M.R. Carey
È nato in Inghilterra nel 1959. È autore di vari libri e di fumetti, ha lavorato per la DC Comics e la Marvel, firmando episodi acclamati dalla critica delle famose serie degli XMen e dei Fantastici quattro. Le sue opere finiscono regolarmente nella classifica del «New York Times» dedicata alle graphic novel. È stato anche sceneggiatore di Hollywood. La Newton Compton ha pubblicato La ragazza che sapeva troppo, un successo internazionale diventato un film con Glenn Close, Gemma Arterton e Paddy Considine, Fellside e Il ragazzo sul ponte.
LinguaItaliano
Data di uscita9 gen 2018
ISBN9788822718679
Il ragazzo sul ponte

Correlato a Il ragazzo sul ponte

Titoli di questa serie (100)

Visualizza altri

Ebook correlati

Narrativa horror per voi

Visualizza altri

Articoli correlati

Categorie correlate

Recensioni su Il ragazzo sul ponte

Valutazione: 0 su 5 stelle
0 valutazioni

0 valutazioni0 recensioni

Cosa ne pensi?

Tocca per valutare

La recensione deve contenere almeno 10 parole

    Anteprima del libro

    Il ragazzo sul ponte - M.R. Carey

    EN.jpg

    Indice

    PRIMA PARTE. IN MISSIONE

    Capitolo 1

    Capitolo 2

    Capitolo 3

    SECONDA PARTE. GESTAZIONE

    Capitolo 4

    Capitolo 5

    Capitolo 6

    Capitolo 7

    Capitolo 8

    Capitolo 9

    Capitolo 10

    Capitolo 11

    Capitolo 12

    Capitolo 13

    Capitolo 14

    Capitolo 15

    Capitolo 16

    Capitolo 17

    Capitolo 18

    Capitolo 19

    Capitolo 20

    Capitolo 21

    Capitolo 22

    Capitolo 23

    Capitolo 24

    Capitolo 25

    Capitolo 26

    Capitolo 27

    Capitolo 28

    Capitolo 29

    Capitolo 30

    Capitolo 31

    Capitolo 32

    Capitolo 33

    Capitolo 34

    Capitolo 35

    Capitolo 36

    Capitolo 37

    Capitolo 38

    Capitolo 39

    Capitolo 40

    Capitolo 41

    Capitolo 42

    Capitolo 43

    TERZA PARTE. NASCITA

    Capitolo 44

    Capitolo 45

    Capitolo 46

    Capitolo 47

    Capitolo 48

    Capitolo 49

    Capitolo 50

    Capitolo 51

    Capitolo 52

    Capitolo 53

    Capitolo 54

    Capitolo 55

    Capitolo 56

    Capitolo 57

    Capitolo 58

    Capitolo 59

    Capitolo 60

    Capitolo 61

    EPILOGO. VENT’ANNI DOPO

    Ringraziamenti

    narrativa_fmt.png

    1887

    Dello stesso autore:

    La ragazza che sapeva troppo

    Fellside. La prigioniera


    Nessuna parte di questo libro può essere riprodotta,

    memorizzata su un qualsiasi supporto o trasmessa in qualsiasi forma e

    tramite qualsiasi mezzo senza un esplicito consenso da parte dell’editore

    Titolo originale: The Boy on the Bridge

    First published in Great Britain in 2017 by Orbit,

    an imprint of Little, Brown Book Group.

    Copyright © 2017 by M. R. Carey

    All rights reserved

    The moral right of the author has been asserted

    Traduzione dall’inglese di Silvia D’Ovidio

    Prima edizione ebook: marzo 2018

    © 2018 Newton Compton editori s.r.l.

    Roma, Casella postale 6214

    ISBN 978-88-227-1867-9

    www.newtoncompton.com

    Realizzazione a cura di Caratteri Speciali, Roma

    M.R. Carey

    Il ragazzo sul ponte

    Newton Compton editori

    OMINO.jpg

    A Camille Gatin e Colm McCarthy, con gratitudine e amore

    Prima parte

    In missione

    1

    Infiniti discorsi, un sacco di chiacchiere. Tutte le questioni sono state sviscerate. Alla fine, dopo un centinaio di false partenze, la Rosalind Franklin inizia il suo viaggio verso nord: da Beacon, sulla costa meridionale dell’Inghilterra, fino alle selvagge Highlands scozzesi. Non sono molti coloro che credono che possa fare tutta quella strada, ma la salutano comunque con bande musicali e ghirlande. Festeggiano anche solo le poche speranze che ha.

    Rosie è una bella bestia, un leviatano terrestre, ma non è assolutamente il mezzo più grosso che abbia mai circolato in strada. Negli anni precedenti alla Catastrofe, le motorhome classe A, le più lussuose, con motore diesel, erano lunghe diciassette metri. Rosie è più piccola: deve esserlo per forza, perché la sua carrozzeria è estremamente spessa e c’è un limite al peso che i cingoli possono sopportare. Un gruppo di dodici persone deve rinunciare ad alcune comodità. Ci sono una doccia e un’unica latrina, con una tabella di turni da rispettare rigorosamente. L’unico spazio privato sono le cuccette, disposte su tre livelli come in un hotel a capsule di Tokyo.

    Il pellegrinaggio in un mondo che ha voltato le spalle all’umanità già da una decina d’anni procede lentamente. Il dottor Fournier fa un discorso motivazionale, paragona il gruppo ai magi della Bibbia che seguirono la stella cometa. Nessun altro trova plausibile o lusinghiero il confronto. Tanto per cominciare sono dodici, come gli apostoli, non come i magi, se proprio bisogna restare in ambito cristiano, e non stanno seguendo nessuna stella. Stanno seguendo il sentiero tracciato un anno prima da un’altra squadra su un veicolo blindato esattamente identico al loro, un sentiero studiato a tavolino da un gruppo di esperti meticolosi che attraversa ogni tipologia di terreno che il suolo britannico ha da offrire. Campi e prati, foreste e colline, le torbiere del Norfolk e le brughiere dello Yorkshire.

    Tutti questi paesaggi ricordano i vecchi tempi alla dottoressa Samrina Khan. Gli eventi più recenti, il collasso della civiltà globale e la quasi totale estinzione della razza umana, non hanno lasciato segni visibili. Khan non è sorpresa. Il dominio umano sulla Terra non è che una goccia nell’oceano delle ere geologiche, e ci vuole molto tempo per provocare una sola increspatura in quell’oceano.

    Ma le città e i paesi sono cambiati in modo clamoroso. Erano stati costruiti per le persone, e senza persone sono privi d’identità e di scopo. Hanno perduto la memoria. La vegetazione ha invaso tutto, addolcendo i megaliti eretti dall’uomo in forme nuove e irriconoscibili. I quartieri di uffici si sono distrattamente trasformati in altipiani, le piazze pubbliche in boschi o laghi. Svuotati del passato che li definiva, si sono arresi senza protestare, senza conservare traccia alcuna dell’umanità.

    Però a cercarli bene ci sono ancora parecchi fantasmi in giro. I membri della squadra scientifica evitano gli hungrie quando è possibile, e li affrontano solo se è strettamente necessario (il che di solito significa ogni volta che è in programma un prelievo di campioni di tessuto). Le armi permettono alla scorta militare di avere a disposizione una terza opzione, che viene perseguita con vigore.

    Nessuno ama queste incursioni, ma la tabella di marcia è rigida. Li porta in ogni luogo in cui potrebbero celarsi dati pertinenti.

    E dopo sette settimane dalla partenza da Beacon li porta a Luton. Il soldato Sixsmith parcheggia e mette il mezzo in sicurezza al centro di una rotonda sulla A505, una posizione che può essere difesa facilmente e garantisce un’eccellente visuale. La squadra incaricata della raccolta dei campioni si dirige a piedi verso il centro del paese, un tragitto di circa un chilometro.

    È uno dei posti in cui il team del Charles Darwin, i loro predecessori ormai morti, hanno lasciato dei campioni di colture a crescere in materiale organico raccolto nelle immediate vicinanze. Il compito della squadra è recuperare i campioni, e questo richiede un solo scienziato con una scorta di due soldati. La dottoressa Khan è la scienziata (e si è assicurata il suo posto, cazzo, scambiando i turni con Lucien Akimwe per tre giorni di fila). La scorta è composta dal tenente McQueen e dal soldato Phillips.

    Khan ha le sue ragioni per visitare Luton, e giorno dopo giorno si sono fatte più pressanti. Ha molta paura e molti dubbi. Ha bisogno di risposte alle sue domande, e spera che Luton sia in grado di dargliele.

    Si muovono lentamente per i soliti motivi: la fitta boscaglia, barricate di macerie, allarmi e deviazioni ogni volta che qualcosa si muove o fa rumore. I soldati non si trovano mai costretti a usare le armi, ma vedono diversi gruppi di hungrie in lontananza e cambiano strada ogni volta per evitare un incontro ravvicinato. Procedono a passo lento, esitanti, perché sebbene si siano spalmati di gel anti-e su ogni centimetro di pelle esposta per neutralizzare il proprio odore, è possibile che gli hungrie percepiscano i loro movimenti e li vedano come potenziali prede.

    Khan si dice che devono sembrare proprio strani, anche se probabilmente in giro non c’è nessuno che li possa vedere. Due uomini che superano tranquillamente il metro e ottanta, e una donna minuta e bassina in mezzo a loro. Non gli arriva neppure alle spalle, e ha le cosce più sottili dei loro avambracci. Potrebbero prenderla in braccio con tutta l’attrezzatura senza rallentare il passo. Quando raggiungono Park Square, il posto indicato dai registri del Darwin, è mezzogiorno passato. Ci vuole ancora molto tempo per localizzare la posizione del campione, i ricercatori del Darwin hanno disinfestato un’area di tre metri prima di deporre la cassetta, come da manuale, ma nel frattempo è passato un anno e la vegetazione è cresciuta. La cassetta arancione brillante è nascosta da un groviglio di rovi talmente fitto che assomiglia a uno spiegamento di mine anticarro. Quando finalmente la trovano, devono farsi strada con i machete.

    Khan si inginocchia tra i rovi fatti a pezzi e la linfa che sgocciola per verificare i sigilli dei contenitori dei campioni. Ce ne sono dieci, tutti grigio piombo invece che trasparenti perché il fungo all’interno è cresciuto a dismisura occupando tutto lo spazio a disposizione, il che li rende probabilmente inutilizzabili, e non offrono alcuna informazione a parte quelle ovvie: che il nemico è robusto e versatile e per niente schizzinoso per quanto riguarda PH, temperatura, umidità o qualsiasi altro stramaledetto fattore. Ma la speranza è l’ultima a morire, e gli ordini della missione non sono negoziabili. Khan trasferisce i contenitori nelle tasche del suo cinturone. McQueen e Phillips, al suo fianco, passano in rassegna la piazza silenziosa, vigili, attenti.

    Khan si rialza, ma si immobilizza quando McQueen fa allontanare lei e Phillips con un gesto brusco.

    «Devo fare un giro veloce», dice lei, sperando che la voce non tradisca la sua agitazione.

    Il tenente la osserva con estrema indifferenza, il volto largo e piatto non lascia trapelare nessuna emozione. «Non rientra nel programma», le dice secco. Non ha tempo da perdere con Khan e non si preoccupa di nasconderlo. Khan ritiene che faccia così perché (a) lei non è un soldato e (b) non è un uomo, ma non si sente di escludere altre opzioni. Potrebbe anche esserci una punta di razzismo, per quanto di questi tempi sembri una cosa bizzarra e antiquata.

    Così ha previsto la sua risposta e ha preparato la propria. Estrae una lista dalla tasca e gliela porge. «Medicine», dice mentre lui dispiega il foglio e lo esamina, con le labbra strette. «Ce la caviamo abbastanza bene, ma nell’area a nord di Bedford ci sono stati molti bombardamenti. Se riusciamo a fare scorta prima di entrare nella zona rossa, ci risparmieremo un sacco di problemi».

    Khan è pronta a mentire se necessario, ma McQueen non le chiede se si tratta di una deviazione autorizzata. Dà per scontato – ed è una giusta supposizione – che non prolungherebbe la loro escursione senza un ordine diretto del dottor Fournier o del colonnello.

    Così continuano a camminare verso il centro commerciale, una sorta di mausoleo degno di un antico faraone. Dietro le vetrine in frantumi, televisori a schermo piatto e computer: l’apoteosi del digitale. Testimoni silenziosi che guardano manichini agghindati a festa, in attesa di una resurrezione che tarda ad arrivare.

    Ignorandoli completamente, il tenente McQueen li guida all’interno fino al mezzanino. Resta nell’atrio, con il fucile automatico senza sicura, mentre Khan e Phillips radunano il prezioso bottino della Farmacia Boots.

    Khan prende i medicinali e lascia al soldato il compito molto più semplice di prendere bende, fasce e antidolorifici. Gli lascia comunque la lista, gli assicura che ne avrà sicuramente più bisogno di lei. Il che è abbastanza vero. Sa bene cosa manca e cosa possono aspettarsi di trovare.

    Ma è solo mezza verità. Vuole anche che il soldato Phillips tenga la testa bassa e si concentri sulla sua scrittura incomprensibile, mentre lei si addentra tra gli scaffali. Se legge la lista, non perderà certo tempo a controllare lei. Sarà libera di procedere con la sua missione segreta: quella che l’ha portata lì senza autorizzazione, all’insaputa dei comandanti.

    I farmaci sono riposti dietro un bancone. Khan ci si infila e riempie lo zaino, rapida ed efficiente. Prende per lo più antibiotici, così preziosi a Beacon che ogni ricetta dev’essere controfirmata da due medici e un ufficiale dell’esercito. C’è anche un pacco intero di insulina, che finisce dritta nello zaino. Paracetamolo. Codeina. Un po’ di antistaminici.

    Lista finita, si volta pagina. Sperava di trovare quel che cercava in farmacia, ma non ce n’è traccia. Alza la testa oltre il banco per controllare la situazione. Il soldato Phillips è a circa cinquanta metri da lei, rimugina sulla lista mentre passa in rassegna gli scaffali.

    Khan attraversa i corridoi a piccoli passi, quasi ripiegata su se stessa. Cerca di non fare rumore. Rialza la testa di fronte a un espositore di prodotti per l’igiene orale e controlla in fretta e furia entrambi i lati. Phillips potrebbe finire da un momento all’altro e andare a cercarla.

    La zona che la preoccupa è molto più a sud dei denti, ma per qualche misteriosa ragione i prodotti appositi si trovano proprio lì accanto. Tre marche tra cui scegliere. Dieci lunghi anni prima, nell’ultimo giorno in cui qualcosa veniva venduto o comprato in quel posto, erano in offerta speciale. A Khan sembra un’assurdità, dato che certe cose sono utili solo in delle occasioni ben precise e limitate. O ne hai bisogno, o non ne hai bisogno, e se ne hai bisogno non ti importa niente del prezzo. Con un impeto di sollievo, Khan afferra una scatola e la infila nello zaino.

    Ripensandoci, ne prende altre due, una per marca. Dieci anni sono tanti, e neppure la più ermetica delle confezioni è sicura al cento percento: le probabilità aumentano se si lanciano i dadi tre volte invece che una.

    Alza la testa di nuovo oltre lo scaffale e vede che il soldato Phillips le dà le spalle. Tempismo perfetto. Esce nel corridoio e appoggia una mano sul bancone, disinvolta. Eccomi qui, dice la sua postura. Non mi sono mai mossa. Sono esattamente dove avrei dovuto essere.

    «Fatto», dice.

    Phillips non risponde. Sta cercando qualcosa in uno scaffale in basso.

    Khan lo raggiunge.

    Ha trovato una specie di rifugio. Ci sono: un sacco a pelo, sporco e sgualcito; uno zaino aperto in cui Khan intravede i tappi di svariate bottiglie d’acqua e il manico di un martello o di un grosso cacciavite; due pile ordinate di vestiti (jeans, calzini, magliette e alcuni maglioni, niente di prettamente femminile a parte un paio di mutandine e una camicia nera con dei volant sulle maniche); una ventina di lattine vuote disposte in fila, la maggior parte di fagioli o zuppe e un’edizione tascabile di The Magic Wishing Chair di Enid Blyton. Non c’è traccia di polvere, ma è chiaro che nessuno di questi oggetti è stato toccato di recente. Da una finestra rotta sono entrate delle foglie secche che si sono ammucchiate qua e là, viticci di muffa scura si arrampicano sulla base del sacco a pelo.

    Qualcuno ha vissuto qui, pensa Khan. Il centro commerciale dev’essere sembrato un buon posto per nascondersi, pieno di cibo e ripari e una gamma invitante di prodotti di consumo. Ma naturalmente era una trappola mortale, con una dozzina di punti d’accesso e pochi spazi per difendersi. L’eremita speranzoso probabilmente è morto poco lontano da dove si trovavano loro in quel momento. Il soldato Phillips guarda la scena con un’espressione pensierosa e distante. Si gratta la barbetta con la punta di un dito.

    Poi si accuccia, appoggia il fucile e prende il libro, scorrendo le pagine con il pollice. Deve farlo con molta delicatezza perché la colla vecchia di decenni è secca e le pagine si staccano. Khan è stupita. The Magic Wishing Chair probabilmente ricorda al soldato la propria infanzia; forse è assorto in una specie di riunione mistica con una parte nascosta di se stesso.

    Qualcosa cade sul pavimento. Un rettangolino di carta sottile, dorata. Sopra c’è una sola parola: RIZLA. «Lo sapevo», esulta Phillips. Getta via il libro, le pagine si sparpagliano come carte da gioco distribuite dal mazziere. Si avventa sullo zaino con determinazione, lanciando via le bottiglie d’acqua vuote e quell’arnese (un martello a granchio) e trova il suo tesoro: un pacchetto mezzo vuoto di sigarette Marlboro Light e un secondo pacchetto ancora sigillato. Valgono un sacco di soldi a Beacon, ma di sicuro quei piccoli portatori di cancro a bastoncino non arriveranno tanto lontano.

    Khan distoglie lo sguardo e osserva le pagine sparse del libro. Su una c’è il disegno di due bambini seduti su una sedia volante, aggrappati ai braccioli mentre si librano al di sopra della torretta rotonda di un castello. Sotto l’immagine c’è la didascalia: «Accidenti, la nostra sedia magica può portarci dappertutto!», gridò Peter.

    «Hai trovato quello che ti serviva, Khan?», le domanda Phillips. È allegro, espansivo ed eccitato al solo pensiero delle sigarette che fumerà.

    «Sì, Gary», risponde Khan ostentando disinvoltura. «Ho tutto quello che mi serve».

    Per fortuna il viaggio di ritorno verso Rosie è tranquillo ma, come l’andata, è lungo e stancante. Una volta superata la camera pressurizzata Khan è sfinita e l’unica cosa che desidera è stendersi nel suo letto fino alla fine della giornata. Però John Sealey vuole salutarla e – con la scusa di fare due chiacchiere – accertarsi che stia bene. Il ragazzo, Stephen Greaves, è più chiuso ma lei sa interpretare il suo linguaggio del corpo: ha bisogno di essere rassicurato ancor più di John, e poi deve, come sempre, ristabilire lo status quo attraverso i rituali che hanno messo a punto negli anni, da quando si conoscono – saluti e conversazioni di importanza puramente simbolica. Le parole non contano.

    «È andata bene a lavoro, Stephen?»

    «Non male, dottoressa Khan. Grazie».

    «Non c’è di che».

    «È stata una bella passeggiata?»

    «Molto. È proprio una bella giornata. Dovresti fare un giro anche tu prima che tramonti il sole».

    Si congeda in maniera gentile, prima da John e poi da Stephen, ed è finalmente libera. Il colonnello è nella cabina di pilotaggio. Il resto della squadra ha le proprie faccende da sbrigare e zero voglia di immischiarsi nelle sue.

    Visto che Phillips si è già impossessato della latrina, Khan va a farsi una doccia. Si chiude a chiave e si spoglia in fretta. È sudata ma non ha un cattivo odore, a parte quello amarognolo dell’anti-e. Anche perché in caso contrario se ne sarebbe accorta molto prima, naturalmente.

    Uno per uno apre i tre pacchetti, infilandosi la pellicola protettiva nelle tasche e ripiegando le scatole. In ogni confezione c’è una bacchetta di plastica sottile. Sono leggermente diverse tra loro, ma ogni bastoncino ha una finestrella più o meno a metà della lunghezza e una parte più spessa su un lato che indica dove afferrarlo.

    Si accuccia nella doccia, con le gambe leggermente divaricate, e fa quello che deve fare.

    La chimica è semplice, e quasi infallibile. La globulina anti-HCG è estremamente reattiva a certi ormoni umani, tra cui la gonadotropina. Preparata in modo corretto, cambia colore in presenza dell’ormone.

    E a volte l’ormone è presente nell’urina delle donne. Dopo aver fatto pipì sul lato giusto delle tre bacchette, aspetta in silenzio, guardando le finestrelle. Un risultato negativo non sarebbe troppo significativo. Lo strato proteico nella striscia all’interno potrebbe essersi deteriorato troppo per catalizzare. Un esito positivo, invece… significherebbe quello che ha sempre significato.

    Khan fa tripletta.

    Viene invasa da sentimenti contrastanti mentre fissa quei messaggi provenienti dall’interno inesplorato del suo corpo, una marea di meraviglia e sgomento e incredulità e infelicità, una tempesta in cui la speranza si tiene a galla come una zattera alla deriva.

    Sette settimane dall’inizio di una missione che durerà quindici mesi, dieci anni dalla fine del mondo, centocinquanta chilometri da casa: la dottoressa Samrina Khan è incinta.

    Ma non siamo a Betlemme, e non ci sarà nessuna mangiatoia.

    2

    Sono in dodici, ma si dividono ordinatamente in due gruppi da sei.

    La squadra scientifica è capeggiata dal dottor Alan Fournier, il comandante civile a capo della missione. È un uomo magro e meticoloso, quando parla ha il vizio di fermarsi a metà frase per riordinare le idee. È un’abitudine che si addice poco a un leader, ma a dire la verità nessuno lo considera tale.

    La scorta, che comprende soldati e ufficiali dell’Adunata di Beacon, è comandata dal colonnello Isaac Carlisle, noto come l’Uomo del Fuoco per via di una missione che prevedeva l’uso di sostanze chimiche infiammabili. Odia quel nome e quella missione. Cosa pensi di questa missione, invece, non è dato saperlo.

    Nella squadra scientifica ci sono tre uomini e due donne:

    Samrina Khan epidemiologa

    Lucien Akimwe chimico

    John Sealey biologo

    Elaine Penny biologa

    Stephen Greaves nessuno lo sa esattamente

    Anche la scorta è composta di due donne e tre uomini:

    Tenente Daniel McQueen tiratore scelto e secondo in comando

    Caporale Kat Foss tiratrice scelta

    Soldato Brendan Lutes ingegnere

    Soldato Paula Sixsmith autista

    Soldato Gary Phillips quartiermastro

    Le autorità di Beacon, ovvero il consiglio civile chiamato il Tavolo Principale e l’Adunata militare, non hanno scelto i migliori o i più brillanti, anche se hanno cercato di dare quest’impressione con grandi proclami e dichiarazioni ampollose. Ciò che in realtà hanno fatto, o hanno cercato di fare, è stato creare un gruppo equilibrato che avesse le maggiori probabilità di sopravvivenza. Sarebbe stato possibile allestire una scorta più numerosa, sarebbe stato sufficiente destinare più veicoli alla missione, ma anche un solo soldato in più avrebbe indebolito le difese di Beacon. McQueen e Foss, addestrati nei ranghi di tiratori scelti, sono soldati di élite, risorse preziose. Le loro abilità sono indispensabili per sfoltire gli hungrie che si affollano alle porte di Beacon ogni giorno. Per gli scienziati il discorso è diverso, ma ci sono numerose questioni pratiche in cui il loro lavoro è fondamentale. Inviandoli in missione, Beacon fa un investimento per il futuro. Ma questo investimento è stato passato al setaccio del pragmatismo.

    Dodici persone in un grosso mezzo blindato non rappresentano un rischio enorme, tutto sommato. Si portano dietro molte speranze, ma se non dovessero farcela, la loro perdita non sarebbe un danno troppo grave.

    Sono perfettamente consapevoli di essere sacrificabili.

    3

    Dopo sette settimane sono arrivati a Luton. Dopo sette mesi sono arrivati in Scozia.

    L’anno sta per concludersi, insieme al viaggio. Le belle speranze sono evaporate da tempo. Non hanno fatto nessun progresso, nessuna scoperta. Hanno prelevato ed esaminato migliaia di campioni, e ce ne sono altre migliaia all’orizzonte, ma nessuno della squadra scientifica crede più che quel lavoro serva a qualcosa. Per il bene degli altri ciascuno nasconde la propria rassegnazione, il cinismo e lo sconforto. La speranza ormai è di seconda mano.

    Hanno seguito il percorso del Charles Darwin, e sono riusciti a recuperare tutti i campioni nascosti tranne uno. Quello mancante è sui Cairngorm, vicino alla vetta della montagna Ben Macdui, ed è stato il dottor Fournier a prendere la decisione di lasciarlo dov’era. Ha detto di non avere intenzione di rischiare l’incolumità di Rosie su quei pendii ripidi, ma in quella frase tutti al posto di «l’incolumità di Rosie», hanno sentito «l’incolumità delle mie chiappe». In ogni caso è un chiaro segnale di resa.

    Il comandante civile e quello militare non sono adatti al ruolo che ricoprono. Si odiano, ed evitano il resto dell’equipaggio. Non vogliono che i loro uomini siano costretti a schierarsi, a prendere posizione nelle loro beghe. Spetta al tenente McQueen, il più delle volte, organizzare i turni della scorta, e alla dottoressa Khan o al dottor Sealey assegnare i compiti nelle missioni di recupero dei campioni.

    La gravidanza di Khan inizia a essere evidente. C’è stato un tempo in cui avrebbe potuto negare, fingere, se qualcuno avesse fatto domande. Quel tempo è finito, e presto la metteranno con le spalle al muro.

    E poi c’è Greaves, anche se tutti si chiedono che cosa ci faccia lì con loro. Chi avrà pensato che fosse una buona idea portarsi dietro un ragazzino in una missione del genere? Quando si deciderà il dottor Fournier a rimuoverlo formalmente dal suo incarico, invece di chiudere gli occhi di fronte alle sue inadeguatezze?

    Quando si arrenderanno? Quando faranno retromarcia?

    Quando finirà tutto questo?

    Domande retoriche che aleggiano ancora quando il sistema di comunicazione smette di funzionare. La radio sembra operativa ma Beacon – casa, punto di partenza, base e riferimento – smette di rispondere.

    Sono soli.

    Seconda parte

    Gestazione

    4

    Partono in tre ondate.

    Prima le mezze cartucce. Il tenente McQueen è l’unico a chiamarli così, uno scherzo un po’ pesante. I tre soldati fingono di trovarlo divertente, ma la dottoressa Khan si sente offesa per loro. Lutes è il miglior ingegnere di Beacon. Sixsmith prima della Catastrofe era una pilota commerciale, sa guidare un aereo come una macchina. Phillips ha il fisico di una statua classica e fa dei trucchi con le carte che ti fanno girare la testa anche dopo che te li ha spiegati. Non sono per niente delle mezze cartucce.

    Si inerpicano su per la collina a passi rapidi e irregolari. Cinquanta metri più avanti, si trincerano dietro un cespuglio di ginestra, che non offre alcuna protezione ma che da lontano li rende comunque meno visibili. Un dettaglio così insignificante potrebbe fare la differenza tra la vita e la morte.

    «Via libera», dice piano il soldato Phillips. Da quelle parti il suono si propaga velocemente. Non c’è bisogno di gridare, e al contrario ci sono parecchi motivi per non farlo.

    In assenza del colonnello Carlisle, McQueen è al comando. Fa un gesto circolare con il braccio piegato e la mano puntata in alto. A Khan sembra che indichi il cielo. Forse il paragone del dottor Fournier fra loro e re magi l’ha colpita più di quanto credesse.

    In realtà sta facendo segno alla squadra di scienziati che è giunto il loro turno. Cioè, solo due terzi del gruppo risponde al comando: la dottoressa Khan, Elaine Penny, Lucien Akimwe e John Sealey. Gli altri due membri della squadra sono assenti, esclusi dalla spedizione: Alan Fournier, in quanto capo del team scientifico e comandante civile della missione, è esentato e ha dispensato Stephen Greaves dal turno, perché non si fida della sua capacità di partecipare a un’azione coordinata e perché sa che neanche gli altri, a parte Khan, si fidano di lui.

    Khan ha sofferto più di Stephen per quell’umiliazione ma è felice della sua assenza. È sempre il suo ragazzo, anche se non è il sangue a legarli ma un sentimento altrettanto profondo e vincolante. Si è autoimposta il compito di tenerlo d’occhio, e non è mai riuscita a liberarsi del tutto di questo fardello. Non lo ammetterebbe neppure con John Sealey, ma vuole tenere Stephen lontano dalle mattanze selettive: sono uno spettacolo umiliante e brutale. Gli hungrie non sono più umani, ma lo sembrano ancora, e nonostante quello che ti può dire il cervello, vederli falciati come spighe di grano ti fa rivoltare lo stomaco.

    Arriva in cima alla collina e scende con il sedere per terra, cercando di fare presa sul terreno con le mani e con i piedi (rinuncia alla dignità ma non ha intenzione di rischiare di cadere). Il bambino che porta in grembo scalcia un paio di volte, forse per segnalarle il suo disappunto. Un attimo prima di arrivare ai cespugli intravede con la coda dell’occhio un gruppo di hungrie più in basso, lungo il pendio. Il modo più sicuro di non farsi aggredire è non guardarli direttamente. Se li guardi in faccia, attaccano. Se sudi fino a neutralizzare la barriera dell’anti-e o – Dio non voglia – ti scappa un peto mentre sei all’aperto, seguono la traccia olfattiva e attaccano.

    Ma ora è al sicuro, con Phillips da un lato e Sixsmith dall’altro, al riparo tra i loro fucili. Akimwe scivola accanto a lei, controllando a fatica la velocità. La colpisce su un fianco con la gamba e sconvolto mormora: «Mi dispiace Rina, scusami».

    Khan scuote la testa per dirgli che non fa niente, dopotutto non è fatta di porcellana, ma vorrebbe facesse più attenzione ai suoi movimenti. È sceso così velocemente che gli hungrie avrebbero potuto notarlo benissimo, e una volta che iniziano a seguirti non si fermano più. Magari in questo momento sono già in marcia verso di loro, con la testa china e le braccia che oscillano in quella brutta corsa che gli fa dondolare le mascelle spalancate. Ma continua a ripetersi che è solo suggestione. Se li stessero caricando in massa, Phillips, Sixsmith e Lutes avrebbero già aperto il fuoco e l’intero team starebbe battendo in ritirata in cima alla collina, scatenando l’inferno.

    Va tutto bene. Deve andare per forza tutto bene.

    Stanno arrivando i tiratori scelti, senza particolare fretta, e la loro grazia muscolosa fa sentire in imbarazzo Khan, che è ricoperta di polvere, in disordine e impaurita. Scendono dalla collina fianco a fianco, come se stessero facendo una scampagnata, loro due soli, portano con noncuranza i lunghissimi M407. I tre soldati hanno sempre il fucile pronto all’uso, ma il tenente McQueen e il caporale ostentano disinvoltura, fieri di essere disarmati. Kat Foss è alta quasi quanto il tenente, un predatore elegante con membra lunghe e aggraziate, i capelli corti e bianchi come uno sbuffo di vapore. L’unica donna che abbia mai fatto sentire Khan inadeguata, in difetto con il suo metro e cinquantotto.

    McQueen raggiunge gli altri e li fa scattare con una sola parola. «Bersagli». I membri della squadra scientifica sono ben addestrati e alzano le teste sopra il giallo trionfo delle ginestre. Sembrano un branco di conigli.

    È il momento del triage. Il giudizio finale. Le anime vengono poste sulla bilancia, si stabilisce chi andrà all’inferno. Sempre ammesso che in quella vallata siano rimaste altre anime a parte le loro. È una questione spinosa, non un semplice quesito etico: Khan non ci dorme la notte.

    Lascia vagare lo sguardo lungo la vallata. Uno spettacolo mozzafiato. È una giornata di nuvole sparse, il sole fa capolino di tanto in tanto, poi viene di nuovo inghiottito da un banco di cumuli. Uno di quei giorni in cui la minaccia della pioggia ti fa apprezzare appieno i brevi bagliori di luce concessi dal cielo. Le ombre delle nubi scivolano sui pendii più in alto coperti dagli alberi, è come se l’intera vallata fosse immersa sotto l’acqua. Più in basso, i verdi prati corrono verso il lago liscio come uno specchio malgrado il viavai celeste.

    In diversi punti e in diverse zone della vallata ci sono delle figure umane; hanno le braccia lungo i fianchi e le teste piegate ad angolo. In piedi o in ginocchio in mezzo ai cardi, al fango, alle felci, all’acqua. Indossano abiti sbiaditi e stracciati, colorati dalle macchie di sangue rappreso. Sembrano in tutto e per tutto sonnambuli in procinto di svegliarsi.

    Ed è proprio quello che sono, pensa Khan. Solo che non si sveglieranno mai. Le menti umane che una volta abitavano quei gusci vuoti dormiranno per sempre. Se aprissero gli occhi sarebbe qualcosa di completamente diverso a baluginare in quelle pupille.

    «Quei due laggiù», dice Elaine. «Ai piedi di quella grossa roccia. Hanno tutti e due un sacco di grigio».

    «Ed eccone un altro». Sealey alza una mano, lentamente, con cautela, per indicarlo. «Stessa traiettoria. In discesa. Buona linea di tiro».

    A Khan viene quasi da sorridere. Traiettorie. Linee di tiro. È così che parlano McQueen e Foss. John vorrebbe tantissimo giocare con i ragazzi fichi, ma lui sarà sempre un nerd, qualsiasi cosa dica o faccia, e mai un’arma letale. Le fa molta tenerezza, è così cortese, si impegna così tanto.

    «Per me vanno bene tutti e tre», dichiara, e Akimwe annuisce. «C’è materiale su cui lavorare», concorda.

    I cecchini si inginocchiano e preparano le armi. Non dicono una parola, non sprecano neanche un movimento. Nemmeno gli altri parlano. È il loro mistero, e tutti sanno che non devono interferire con i loro rituali e la loro liturgia. Khan è forse l’unica in tutta la squadra a essere turbata dalla facilità con cui uccidono. Forse è l’unica che fa eccezioni, quando si tratta di versare del sangue. Di certo è un’ipocrita. Non appena Foss e McQueen avranno finito, lei tagliuzzerà il corpo delle vittime sacrificali. Strumenti diversi, stesso obiettivo. La collina verdeggiante su cui si trova non è certo una metafora della sua irraggiungibile altezza morale. Soprattutto se pensa a cosa l’attende alla base una volta tornati dalla spedizione.

    Nessuno si aspetta l’Inquisizione spagnola, come dicevano i Monty Python. Ed è un peccato, perché arriva sempre.

    «Perché ce ne sono così tanti?», mormora Penny. «È un posto così sperduto». Contrae il viso lentigginoso in una smorfia, le succede sempre quando prova un’emozione. È la più trasparente di tutti, a eccezione di Stephen che naturalmente non ha alcuna maschera o difesa.

    «Guarda le tute che indossano», le fa notare Akimwe. «Per la maggior parte lavoravano allo stabilimento di analisi delle acque, all’altro capo del lago. Probabilmente sono stati tutti infettati lì».

    Khan cerca di non pensare a come devono essere andate le cose. Un hungrie che si fa strada nel grande bunker di cemento, morde il primo uomo o la prima donna che incrocia, diffonde l’infezione. I due all’improvviso si trovano nella stessa squadra, si aggirano per i corridoi seguendo l’aroma ricco delle prede fresche. Mordono, infettano, reclutano. Una letale reazione a catena che finisce solo quando nell’edificio non rimane più nessuno. Nessuno che non abbia l’organismo patogeno in circolo. Nessuno ancora umano e cosciente.

    «Dalla riva del lago», dice McQueen. «Comincia da lì».

    Foss è sdraiata sull’erba, con il collo premuto contro il calcio dell’ M407 e l’occhio sul mirino. Se fosse in piedi, sembrerebbe pronta a lanciarsi in un tango passionale. Preme il grilletto. È un gesto misurato, come un cenno ad avvicinarsi, né veloce né improvviso. Il fucile, su cui è montato un silenziatore così gigantesco che persino un giovane stallone soffrirebbe di invidia del pene, fa un rumore strano. Come un uomo che sputa un semino.

    Giù nella vallata, mezzo secondo dopo, una delle figure in piedi – uno dei tre prescelti – si accascia su un fianco, perdendo l’equilibrio perché il ginocchio della gamba destra è andato in frantumi. Poi cade in avanti nelle acque del lago. Lascia nell’aria degli spruzzi rosso-marroni.

    Il rumore della caduta li raggiunge un attimo dopo, un sussurro discreto nell’aria. Gli hungrie più vicini si voltano verso il rumore e il movimento, ma non sono stimoli sufficienti a farli passare dallo stato passivo a quello attivo.

    Tocca a McQueen. La sua posizione di tiro è su un ginocchio, rinuncia con sdegno alla maggiore stabilità garantita dal supporto del fucile. Spara, e il secondo obiettivo cade all’indietro come colpito da un pugno. Il proiettile gli ha attraversato il bacino, immobilizzandolo con grande efficacia. Rimane lì a terra, nello stesso punto in cui è caduto, senza uno spasmo. Muove solo la testa, gli occhi che vagano come a cercare l’artefice del colpo che l’ha abbattuto.

    Foss fa fuori il terzo e ultimo obiettivo, poi i due cecchini svuotano i caricatori per ripulire l’area intorno ai caduti.

    Lo scopo è prima di tutto evitare una fuga precipitosa. Se gli hungrie

    Ti è piaciuta l'anteprima?
    Pagina 1 di 1