Scopri milioni di eBook, audiolibri e tanto altro ancora con una prova gratuita

Solo $11.99/mese al termine del periodo di prova. Cancella quando vuoi.

Eredità Caravaggio
Eredità Caravaggio
Eredità Caravaggio
E-book395 pagine5 ore

Eredità Caravaggio

Valutazione: 0 su 5 stelle

()

Leggi anteprima

Info su questo ebook

«Formidabile. Conquista e seduce il lettore. Spettacolare.» Matteo Strukul

Autrice del bestseller mondiale Cospirazione Caravaggio

Fin da giovanissima, Artemisia Gentileschi si rivela un’artista prodigiosa. Quando ha solo diciassette anni, però, proprio colui che avrebbe dovuto prendersi cura di lei, il suo maestro Agostino Tassi, la stupra. La giovane decide di portare la questione davanti a un tribunale e Orazio Gentileschi, suo padre, acconsente a esami medici invasivi perché si accerti che la ragazza stia dicendo la verità. Tassi viene dichiarato colpevole, ma il papa lo perdona. E la reputazione di Artemisia è rovinata. Nonostante venga pubblicamente considerata alla stregua di una prostituta, costretta a sposare un pittore mediocre per sfuggire alle dicerie di Roma, Artemisia non dimentica Caravaggio, colui che ha creduto nel suo giovane talento. E così sfida i suoi detrattori fino a diventare la prima donna ammessa all’Accademia di Arte del Disegno di Firenze, e a ricevere commissioni da Cosimo II e persino da Carlo I d’Inghilterra. Nel mondo dell’arte interamente dominato dagli uomini, la coraggiosa Artemisia è una stella destinata a brillare. Geniale, ma osteggiata. Ferita, ma vittoriosa.

«Vi mostrerò ciò che è in grado di fare una donna.»

Un’autrice numero 1 in classifica in italia

«Alex Connor ci consegna un romanzo appassionante, scritto in uno stile feroce e magnifico. La figura di Artemisia Gentileschi è iconica e l'autrice ne racconta con passione e grazia il coraggio, la fragilità, la determinazione e il talento. Una narrazione formidabile che conquista e seduce il lettore, complice la straordinaria ricostruzione di un Seicento colmo di ombre, fascino e inquietudine. Spettacolare.» Matteo Strukul
Alex Connor
è autrice di thriller e romanzi storici ambientati nel mondo dell’arte, tutti bestseller. Lei stessa è un’artista e vive in Inghilterra. Cospirazione Caravaggio, uscito per la Newton Compton nel 2016, è diventato un bestseller ai primi posti delle classifiche italiane. Con Il dipinto maledetto ha vinto il Premio Roma per la Narrativa Straniera. Eredità Caravaggio è il terzo romanzo di una trilogia, iniziata con Caravaggio enigma e Maledizione Caravaggio.
LinguaItaliano
Data di uscita10 set 2018
ISBN9788822726186
Eredità Caravaggio

Correlato a Eredità Caravaggio

Titoli di questa serie (100)

Visualizza altri

Ebook correlati

Thriller per voi

Visualizza altri

Articoli correlati

Categorie correlate

Recensioni su Eredità Caravaggio

Valutazione: 0 su 5 stelle
0 valutazioni

0 valutazioni0 recensioni

Cosa ne pensi?

Tocca per valutare

La recensione deve contenere almeno 10 parole

    Anteprima del libro

    Eredità Caravaggio - Alex Connor

    Prologo

    Cornelia Stein

    Kensington, Londra

    Il 24 luglio del 2011, una collezione di mobili, dipinti, porcellane e libri fu spedita in Inghilterra da Napoli. I beni erano appartenuti al signor Massimo Luca e, visto che l’uomo non aveva eredi in Italia, il patrimonio era passato al ramo inglese della famiglia. Ovverosia a una donna, sua cognata, Cornelia Stein. Per Cornelia, vedova di settantun anni senza figli, l’eredità inaspettata era stata più una seccatura che una manna dal cielo, e dopo intere settimane dedicate a passare in rassegna gli oggetti, vendette la maggior parte dei quadri e dei pezzi di mobilia e mise le porcellane all’asta da Bonham’s.

    Avendo sposato un italiano, Cornelia sapeva parlare e leggere la lingua. Di conseguenza, essendo un’amante della lettura, tenne alcuni volumi di valore. Tuttavia, insieme ai pregevoli tomi, era giunta anche una notevole quantità di scritti personali e quaderni d’appunti di Massimo Luca. All’inizio, Cornelia ebbe la tentazione di gettare via gli scritti senza nemmeno aprirli, poi cominciò a leggerli. Il cinquantacinque percento delle carte riguardava noiose transazioni commerciali legate alla galleria d’arte di Massimo a Roma; un venti percento aveva a che vedere con la malattia e la morte della moglie; un altro venti percento descriveva nel dettaglio gli approfondimenti e gli articoli di Massimo sul mondo dell’arte, per la maggior parte accompagnati da ritagli di giornale. Restava quindi un altro cinque percento.

    Il cinque percento… che consisteva in un’unica busta color pelle di bufalo, voluminosa e consunta, sulla quale erano impresse le parole: Scritti privati di Edward Petersham. A.G..

    «Scritti privati di Edward Petersham». Cornelia esaminò la busta, vecchia di decenni, poi ci infilò dentro una mano per estrarre quattro taccuini. Erano rilegati in pelle di camoscio, con le copertine sbiadite che avevano assunto il colore del fieno marcito, pieni di parole fitte fitte da un margine all’altro del foglio, tanto che c’era a malapena spazio per una sillaba in più. Aggrottando la fronte, osservò con attenzione l’inchiostro scolorito – un tempo nero, ora marrone – e si rese conto che le frasi erano scritte in inglese, sebbene fossero punteggiate da esclamazioni in italiano.

    Cornelia era sagace. Non aveva la più pallida idea di chi fosse Edward Petersham, ma le bastò un’occhiata per capire che i taccuini erano antichi, e la data sulla prima pagina – Napoli, 1650 – sembrava confermarlo. Ma chi era il misterioso signor Edward Petersham, un inglese in Italia nel 1650? E cosa significavano le iniziali – A.G. – sulla busta?

    Il telefono squillò all’improvviso e Cornelia rispose: «Sì, pronto? Chi parla?»

    «Michael».

    «Michael», ripeté.

    «Sono io. Conosci un solo Michael».

    «Sciocchezze, ne conosco parecchi», replicò Cornelia, provocandolo mentre lanciava uno sguardo ai quaderni d’appunti lasciati sul divano. «Che vuoi?»

    «Pensavo di passare a trovarti».

    «Io ti adoro, Michael, sei come il figlio che non ho mai avuto, ma no. Non puoi passare stasera».

    «Perché no?»

    «Ho da fare», rispose Cornelia.

    «Con qualcuno che conosco?»

    «Direi proprio di no», replicò, osservando di nuovo i taccuini. «Sto solo riordinando alcune carte di Massimo».

    «Pensavo avessi finito».

    Non ne comprendeva il motivo, ma non le andava di approfondire la questione. Michael Jennings era il suo confidente da quasi sei anni; condividevano quasi tutto, ma Cornelia si scoprì restia all’idea di menzionare i taccuini.

    «Perché non mi permetti di aiutarti a riordinare quei maledetti documenti una volta per tutte, così poi ti porto fuori a cena?». Fece una pausa. «Che poi è un impegno troppo gravoso per te, occuparti del lascito patrimoniale».

    «Non fare l’impertinente!», esclamò lei in risposta. «Non sono mica rimbambita. La cosa davvero assurda è che mi sia stata lasciata un’eredità quando non ne avevo bisogno».

    «Mai storcere il naso di fronte a un’eredità».

    «Oh, non è granché», replicò Cornelia. «Devo soltanto rimettere in ordine gli ultimi documenti della galleria d’arte di Massimo e poi avrò terminato».

    «Deve averla venduta per una fortuna».

    «Che poi ha dilapidato. Massimo aveva il vizio del gioco d’azzardo. Faceva soldi, poi li perdeva». Scosse mestamente la testa. «Che imbecille… Se mio marito Gano fosse stato ancora in vita, non avrebbe mai permesso a suo padre di vendere».

    Alla menzione di Gano Luca, la temperatura si abbassò drasticamente. La percepirono entrambi: una pesante sensazione di disagio. Cornelia fu la prima a parlare.

    «Ad ogni modo, mi devo rimettere all’opera, Michael. Ci sentiamo domani».

    Pensierosa, riagganciò il telefono e tirò le tende sul calare della notte. Si sentì schiacciare da un senso di oppressione e rabbrividì, tanto da doversi tirare una coperta sulle gambe mentre si accoccolava sul divano. Il divano che il defunto marito aveva sempre detestato.

    Gano.

    Ga-no.

    Un nome così corto, eppure quelle due sillabe erano ancora pregne di minacce. No, si disse, "non mi guarderò indietro. Non mi guarderò indietro…". Si affrettò a prendere i taccuini, in cerca di uno svago per rassenerare la mente e allontanare i ricordi di un passato che stava cercando di dimenticare da una vita.

    Erano le nove e un quarto quando Cornelia Stein cominciò a leggere il primo taccuino; le nove e un quarto quando seguì un cammino che tornava indietro nei secoli e si ritrovò a spiare una conversazione tra un moribondo in esilio e la pittrice più famosa di tutti i tempi.

    Capitolo 1

    Artemisia Gentileschi

    Roma, 1610

    Le aveva tenuto la testa premuta sui cuscini, rischiando di soffocarla mentre la teneva giù. L’aggressione era stata talmente repentina che quasi non aveva avuto il tempo di reagire, se non rotolare giù dal letto e tentare di precipitarsi verso la porta, che lui aveva sbattuto con forza. Mentre urlava per chiedere aiuto alla coinquilina con cui condivideva la casa di famiglia, Artemisia lo colpì alla cieca, respingendolo.

    «Tuzia!», gridò. «Tuzia!».

    Sarebbe arrivata da un momento all’altro, Tassi si sarebbe spaventato e Artemisia avrebbe detto a suo padre di licenziare il suo insegnante privato.

    «Tuzia!».

    «Non verrà in tuo soccorso», disse Tassi con tono seccato. «È stata lei a farmi entrare».

    Incredula, Artemisia lo fissò. Tuzia era la sua confidente, la sua accompagnatrice, la coinquilina sposata alla quale faceva da tata ai figli. L’unica donna di cui si fidava, l’unica rimasta nella sua vita dopo la morte di sua madre, quando aveva dodici anni.

    «Fammi uscire da qui!», gridò, poi prese un coltello dal comodino e gli si avventò addosso. Lo ferì, e Tassi, sbigottito, le fece volare l’arma di mano, le afferrò le braccia e la costrinse ad aprire la bocca, forzandola con la lingua.

    Artemisia provò a mordergli il labbro, a voltarsi dall’altra parte, ma sentì la sua erezione premuta contro il fianco e andò nel panico, gli tirò un calcio nello stinco e si divincolò. Liberato un braccio, lo artigliò e gli graffiò il viso, vedendogli tirare indietro la testa di scatto. Inferocito, l’uomo la spinse di nuovo sul letto, si chinò su di lei e le premette la faccia sui cuscini. I denti affondarono nel labbro superiore, lacerandole la carne. Sentì il sapore del sangue in bocca mentre Tassi le sollevava la sottana, poi provò a tirarsi su e a toglierselo di dosso.

    Ma era troppo pesante ed eccitato e la stava penetrando da dietro. Artemisia strillò quando le schiacciò ancora di più la faccia sui cuscini. Avvertì la lacerazione interna, il sangue che cominciava a fluire. Poi, quando Tassi si svuotò dentro di lei e si lasciò cadere di peso sul letto, la pressione diminuì. Piangendo, abbassò la gonna e provò ad alzarsi, ma lui le afferrò il polso. Stava sudando – era estate piena a Roma –, le zanzare ronzavano dietro le persiane e il rumore delle voci si levava dal cortile sottostante.

    Nessuno era andato ad aiutarla. Tuzia, che credeva un’amica, aveva dato accesso in casa all’insegnante. Malgrado l’avesse implorata di non lasciarli da soli, l’alleata le aveva voltato le spalle. Artemisia non riusciva a mandare giù il tradimento; di Tassi, che era stato ingaggiato da suo padre affinché le insegnasse la prospettiva, non si era mai fidata, e non aveva mai potuto soffrire neanche il suo odioso collega, Cosimo Quorli. Destavano la sua diffidenza, avevano una cattiva reputazione. Quorli era un uomo viscido e perverso, Tassi era oggetto di tante dicerie. Ciononostante, suo padre l’aveva assunto e, a dispetto di tutti i timori di Artemisia, degli sforzi compiuti per evitare qualsiasi momento di intimità, Tuzia l’aveva servita ad Agostino Tassi su un piatto d’argento, come un bel vitello da latte.

    Le bruciavano i genitali e sentiva la calda umidità del sangue tra le gambe. Era finita; nessun uomo rispettabile avrebbe mai sposato una donna deflorata. La sua verginità era stata osannata e protetta, e l’irascibile genitore si era dato un gran da fare per assicurarsi che rimanesse casta e pura. Suo padre, stupido e ignorante: lo stesso uomo che aveva affittato alcune stanze a quella puttana di Tuzia.

    «Stai tremando…».

    «Toglimi le mani di dosso!», esclamò Artemisia, allontanandosi dal letto.

    Si chiese se non fosse il caso di correre da suo padre, ma esitò. Poteva soltanto immaginare la reazione di Orazio, impaziente e collerico com’era. Sarebbe stata colpa sua. Non certo opera di Tassi; doveva averlo incoraggiato in qualche modo. La responsabilità era soltanto sua. Poi l’avrebbe guardata nello stesso modo in cui osservava le prostitute del quartiere degli artisti, che si vendevano da piazza di Spagna fino a Santa Maria del Popolo. E se lo avesse detto agli sbirri, se avesse trovato il coraggio di andare dalla polizia romana, cos’avrebbe fatto Tassi a quel punto? Avrebbe raccontato a tutti di essersi scopato la figlia di Orazio Gentileschi. La ragazza che era stata incoraggiata da Caravaggio, la pazza che voleva diventare una pittrice.

    Con le gambe che le tremavano, Artemisia si appoggiò al davanzale della finestra mentre Tassi se ne stava sdraiato a pancia insù sul suo letto, con la mano a pochi centimetri da una striscia di sangue.

    «Sdraiati qua con me, Artemisia».

    Fissò il vuoto di fronte a sé, incapace di aprire bocca. Aveva diciassette anni, ed era tenuta a debita distanza dalle sgualdrine devastate dai vizi e dai mendicanti del quartiere degli artisti di Roma, così come dalle ragazze delle taverne e dalle cortigiane che ogni notte infrangevano il coprifuoco ed eludevano gli sbirri di pattuglia fuggendo nei vicoli e negli androni. Quelle donne erano ricercate quando erano fresche, con tutti i denti in bocca, perché li avrebbero persi nel giro di poco a causa delle malattie o della violenza. L’alcol le faceva azzuffare; l’alcol e i ruffiani che le aizzavano l’una contro l’altra. Artemisia le aveva sentite di notte, strillavano come volpi pronte ad accoppiarsi, e sapeva che la gelosia provocava la pugnalata al volto, lo sfregio, con cui si mirava a rovinare la carriera di una sgualdrina.

    Sarebbe diventata una di loro?

    «Sdraiati con me».

    «Bastardo…».

    Rise, divertito. «Ma io ti amo, Artemisia, lo sai che è così. Devi essertene accorta. Era inevitabile. Lo volevamo entrambi…».

    «No!», esclamò. «Io non volevo. Mi hai costretta. Mi hai stuprata».

    «L’amore passionale può diventare violento…».

    «È stato uno stupro!», lo rimbeccò. Aveva le labbra tumefatte e sentiva un bruciore intenso che la stava consumando dall’interno. «Se lo dicessi a mio padre…».

    Tassi si sedette, la melliflua ironia rimpiazzata dalla freddezza. «Non ti conviene, Artemisia. Orazio penserà che tu mi abbia incoraggiato».

    Quelle parole la zittirono all’istante e lo stupore le impose di ritrovare la calma. Non la stava abbindolando, perché sapevano entrambi che suo padre non le avrebbe creduto; avrebbe creduto a Tassi. Erano amici, due pittori di successo strisciati fuori dalle fogne del quartiere degli artisti per farsi assoldare a San Pietro. Due vincenti su diecimila pittori, tutti intenti a elemosinare un lavoro. Due su diecimila. Uomini che lavoravano insieme, bevevano insieme, combattevano insieme e passavano le nottate nei bordelli insieme. Uomini che tenevano in pugno il quartiere degli artisti e le donne che ci abitavano.

    Artemisia valutò le alternative a sua disposizione mentre sbirciava fuori attraverso la minuscola fessura tra le persiane chiuse. Quante volte aveva visto sua madre umiliata? Prudenzia, che attendeva il ritorno a casa del marito e poi andava dall’anziana in via Margutta per la lozione con cui debellare le piattole che le aveva attaccato Orazio. Prudenzia era stata costretta a badare alla casa in disordine, a cucinare, a dargli dei figli – proprio l’atto che l’aveva uccisa. Incapace di comprendere o di intervenire, Artemisia aveva osservato il prolungato declino della madre, la lucentezza della pelle che si tramutava in uno spento grigiore cereo, i seni cadenti succhiati dai bambini che non aveva mai desiderato dopo essere quasi morta dando alla luce la primogenita. Orazio non avrebbe mai saputo che sua moglie aveva fatto visita alla stessa vecchia megera in via Margutta alla ricerca di un metodo contraccettivo, prendendo una pozione che l’aveva fatta ammalare. Non avrebbe mai immaginato che aveva finto un’intossicazione alimentare per rimanere a letto a vomitare mentre lui si lamentava delle sue capacità culinarie.

    «Ci ucciderai tutti con questa robaccia. Pesce, con questo caldo! Cristo, pensavo che a quest’ora avessi imparato qualcosa», aveva inveito contro di lei. «Se mi sento male, sono soldi che vanno in fumo. Un giorno di lavoro perso, stupida puttana».

    Poi era uscito a bere con gli amici e sua madre aveva tirato un sospiro di sollievo, sapendo che avrebbe trovato una prostituta con cui passare la notte e che l’avrebbe lasciata in pace.

    Tassi aveva ragione. Non le avrebbe creduto nessuno. Artemisia sapeva come ragionava la gente, come funzionava la società romana. Vergini e sgualdrine. Le prime da acquistare come mogli, le seconde per il sesso. E si rese conto che adesso era diventata una via di mezzo. Non era più una vergine preziosa, ma più vicino a una sgualdrina, a meno che non si fosse garantita un futuro.

    «Mi hai disonorata», disse con titubanza. Le parole successive formularono un dato di fatto, una via d’uscita. «Adesso mi devi sposare».

    «Ma certo che ti sposerò, tesoro», rispose Tassi, allungando una mano verso di lei. «Io e te siamo destinati a stare insieme. Ma dobbiamo tenerlo nascosto a tuo padre».

    Si morse le labbra, poi annuì. Se Orazio avesse scoperto cos’era accaduto, c’era il rischio che la sbattesse fuori di casa. Doveva riflettere, escogitare un piano.

    «Non gli dirò nulla».

    «Me lo prometti?», la incitò Tassi. «Io e tuo padre stiamo lavorando insieme a San Pietro. Sarebbe imbarazzante per entrambi».

    Potrebbe ucciderti, pensò Artemisia, che non poteva mai prevedere le reazioni del padre. Come aveva detto di lui uno dei suoi mecenati: «Ha un tale caratteraccio, più un animale che un essere umano… Impossibile da frequentare». E aveva anche fama di essere un attaccabrighe. Aveva scontato una pena a Tor di Nona insieme a Caravaggio. Era stato incarcerato per aver scritto un libello diffamatorio contro Baglione, un rivale, componendo versi scurrili a causa dei quali il pittore sordo era diventato lo zimbello di Roma. Ripensò a tutte le notti passate dal padre a provocare gli sbirri con Caravaggio e Onorio Longhi, sempre pronti a sguainare la spada. Suscettibili, odiati, temuti.

    Anche lei temeva suo padre. Per quanto gli avesse spesso tenuto testa, in cuor suo aveva sempre avuto paura dello schiaffo in arrivo o della battuta sarcastica. No, non poteva chiedere aiuto a Orazio Gentileschi… La sua vita sembrava essersi capovolta all’improvviso e l’ambizione di diventare l’erede di Caravaggio le apparve ridicola. Se fosse stata un maschio, si sarebbe potuta dare alla vita spietata e immorale del quartiere degli artisti, ma non era un maschio, era una femmina, ed era alla mercé degli uomini. La sua unica via di fuga era un matrimonio obbligato con una persona che non amava, un uomo che le aveva fatto del male.

    E che gliene avrebbe fatto ancora.

    «Mi devi sposare…».

    «Lo farò, lo farò», la rassicurò Tassi, sapendo che, in Italia, un fidanzamento ufficiale gli avrebbe garantito sesso a volontà. «Fidati di me, Artemisia. Devi fidarti di me».

    Gli stava ancora dando le spalle, umiliata, messa all’angolo. La sua vita era finita, ridotta a poco più del sottile spicchio di luce sporca che filtrava dalle persiane chiuse.

    Capitolo 2

    Napoli, giugno 1650

    Non sapendo con certezza se qualcuno lo avesse pedinato, Edward Petersham percorse a passo svelto il passaggio sinuoso che odorava di rose appassite e umide di pioggia. Il profumo rievocò un ricordo e l’immagine di una donna che camminava impettita con un rotolo di seta del colore della buccia d’arancia sottobraccio, che si legava a una sfumatura più scura nella trama annacquata. Era successo trent’anni prima e la donna, pungente come una spina, l’aveva intrigato da quel primo, banale momento.

    Pungente come una spina…. Rose, spine, quel fiore intenso che si era rivelato essere un portento e racchiudeva segreti nascosti nel profumo e nelle pieghe dei suoi petali. Edward si fermò, si voltò, ma non lo stava seguendo nessuno. La vecchia diffidenza non lo abbandonava mai troppo a lungo. La fuga dall’Inghilterra nel momento in cui Cromwell aveva eliminato re Carlo I, rovesciando la monarchia e provocando una sanguinosa guerra civile, lo aveva portato in Italia. Edward non era stato uno dei tanti scontenti che avevano invocato l’usurpazione del sovrano incapace, stravagante e zoppo. Edward aveva prosperato a corte, e i suoi talenti come traduttore e storiografo erano stati apprezzati e lautamente ricompensati. All’interno del festoso palazzo, aveva chiuso gli occhi dinanzi alla realtà e si era ritrovato elogiato quando invece avrebbe dovuto essere criticato. Aveva scoperto di essersi lasciato sedurre con molto facilità dalle ricchezze, e se ne era vergognato quando la fortuna decise che con lui aveva finito.

    Procedendo ingobbito, si chinò sotto un basso passaggio ad arco ed entrò in un altro corridoio di pietra, illuminato a intervalli regolari dalle torce appese al muro. Il calore di Napoli era distante quanto una spiaggia dal cadavere di un naufrago. Con il fiato corto, Edward salì una rampa di scale che conduceva inaspettatamente a un’ampia galleria. Tossì, investito dall’odore astringente dell’olio di semi di lino e dei pigmenti che gli irritavano la gola, e si coprì la bocca con un fazzoletto.

    Sapeva che lo stava aspettando, ma non si voltò nemmeno quando si trovò a pochi passi da lei. Ed ecco di nuovo il profumo delle vecchie rose; non su di lei, ma al suo ricordo.

    Togliendosi il fazzoletto dalla faccia, mormorò: «Misia?».

    Artemisia Gentileschi si voltò con un pennello in una mano e una tavolozza nell’altra. L’abito era protetto da un grembiule di cotone grezzo, lungo dal collo a terra, e le maniche erano arrotolate sopra i gomiti. Anche se aveva cinquant’anni, la pelle olivastra era liscia, priva di rughe, perché era sempre stata lontana dal sole. Lo rammentava, proprio come rammentava il suo corpo a trent’anni, flessuoso come quello di una lontra, con le gambe robuste, quando erano stati amanti.

    Ma adesso erano invecchiati, e lei stava sorridendo e inarcando un sopracciglio con aria di sfida. «Sei l’unica persona che mi chiama Misia». Non fece alcun riferimento al lasso di tempo che avevano trascorso separati. Forse a lei non importava; forse non aveva notato il trascorrere degli anni. «Ti trovo in forma, Edward…». Agitò il pennello intinto di colore, indicando i suoi abiti scuri. «Anche se hai una certa aria da prete pentito».

    Tradusse mentalmente le parole in inglese, poi rispose in italiano.

    «Mentre tu sei colorata come sempre», rispose. «Non sapevo se avresti avuto voglia di vedermi. Hai ignorato le mie lettere».

    Mise giù la tavolozza e il pennello e si pulì le mani sul canovaccio sporco di pittura che teneva infilato nella cintura. «Non ho ricevuto alcuna lettera».

    «Ne ho mandate due».

    «Non le ho mai ricevute».

    «Non mi mentiresti mai, vero, Misia?», la punzecchiò. Dato che non rispondeva, aggiunse: «Non sapevo se quello che ti avevo scritto ti avesse infastidita».

    «Non so cosa dicessero le tue lettere».

    «Che desideravo scrivere la tua biografia».

    «Ah!», esclamò lei. «Adesso ricordo. Sì, in effetti ho ricevuto le tue lettere. Una biografia, dici? Perché la gente dovrebbe voler leggere la storia della mia vita?»

    «Sei famosa…».

    «Sono scandalosa. Sono ancora la sgualdrina di Roma, a così tanti anni di distanza», replicò con tono asciutto. «Perché sei venuto qui, Edward? Vuoi trarre profitto da una vecchia storia d’amore? È molto professionale da parte tua».

    Sbiancò, il volto pallido e imbarazzato. «Come puoi dire una cosa simile? Come puoi anche soltanto pensarla? Non ho mai parlato con anima viva dei nostri rapporti».

    «Rapporti? È un termine davvero molto inglese per descrivere l’atto sessuale», fu la sua risposta beffarda.

    «Perdonami, ho scelto la parola sbagliata. Dovrei migliorare il mio italiano».

    «E io, sventuratamente, non parlo la tua lingua», disse Artemisia, scrollando le spalle. «Se non hai mai confidato a nessuno qual è il tuo passato, perché ora vorresti metterlo nero su bianco?»

    «Voglio scrivere un libro su di te, sui tuoi successi, le tue opere, la tua vita…».

    «Ma la mia esistenza è fatta sia dalla carriera professionale che dalla vita privata. Vuoi dare solo mezzo libro ai tuoi lettori, Edward? Non penso che lo leggeranno in molti». Si appoggiò al banco di lavoro e si pulì di nuovo le mani. «La gente vuole lo scandalo, la diceria. Il pettegolezzo. Conosci le masse quanto le conosco io. Non fingere di non voler gettare di nuovo la mia reputazione in pasto ai lupi».

    «Non sono interessato allo scandalo…».

    «Fai parte della minoranza», replicò lei.

    «Voglio scrivere un resoconto della tua vita, offrire una testimonianza», insistette Edward, prendendo il bicchiere di vino che gli stava porgendo. L’imbarazzo era svanito, si stava sedendo. Gli faceva male la schiena a causa del lungo viaggio da Roma a Napoli. «Sei l’erede di Michelangelo Merisi da Caravaggio. La prima donna a essere stata ammessa all’Accademia delle Arti…».

    «L’Accademia delle Arti del Disegno».

    Edward annuì e proseguì.

    «Sei famosa, Misia. Ammirata, rispettata. Le tue opere sono commissionate dalle famiglie reali…».

    Levò le mani al cielo. «Pensi che non lo sappia? Pensi che non ricordi quando ci siamo rincontrati mentre stavo lavorando per il tuo re?». Si strinse nelle spalle. «Il re che ha perso la testa…».

    Il re non è stato l’unico, pensò Edward, che restava sempre incantato in sua presenza.

    «Una folla può uccidere per capriccio. Ho lasciato l’Inghilterra a tempo debito, la scritta era già apparsa sul muro. Il festino di Baldassarre stava già avendo luogo quando a Londra è apparsa la mano di Dio e ha detto al re che aveva i giorni contati».

    Gli occhi ombrosi di Artemisia sostennero lo sguardo di Edward senza battere ciglio. «Ma non è stato Dio, giusto? È stato Cromwell».

    «Sono fuggito…».

    «Per fortuna, ma avresti dovuto prendere la decisione di venire con me. Se non allora, in seguito. Mi hai scritto e mi hai raccontato cosa stava succendendo in Inghilterra, eppure sei rimasto là. Hai fiutato la minaccia, sapevi che stavi correndo un pericolo, eppure sei rimasto… Non l’ho mai capito».

    Abbassò lo sguardo. Se ne sarebbe dovuto andare con lei, ma aveva aspettato troppo, fedele a sua moglie, al suo re, anche se nessuno dei due aveva chiesto la sua lealtà né l’aveva premiata. Era rimasto. Con un amore irrealizzato, restando aggrappato con le unghie e con i denti al ricordo della storia clandestina con Artemisia, Edward aveva messo piede a corte, ignorando le minacce dell’usurpatore. Aveva immaginato una rapida ascesa, ma le sue capacità si erano esaurite a trent’anni, quando era stato intralciato dalla guerra.

    «Ti serve un biografo», ripeté.

    «Quindi saresti venuto qui per diventare il nuovo Vasari? Pronto a chiamarmi La Divina?». Lo stava prendendo in giro. «Non credo che qualcuno potrebbe mai considerarmi tale».

    «Dovrebbero, il tuo talento non teme rivali».

    «In certi ambienti. In altri, mi vedono ancora come una baldracca. Persino dopo tutto questo tempo. E non puoi scrivere la storia di una persona senza raccontare tutta la verità».

    Edward cambiò posizione sulla sedia, facendo una smorfia.

    «Stai male?»

    «Non è niente», mentì. «È stato un viaggio lungo e faticoso, tutto qua».

    «Stai invecchiando, Edward», lo canzonò di nuovo. «E anch’io. L’altra notte, be’, forse una settimana fa, ho sognato che mia madre veniva a farmi visita. È morta quando avevo dodici anni, ma riesco ancora a ricordarla in ogni dettaglio, riesco persino a sentire l’odore della sua pelle. Non si è trattenuta a lungo, ma sapevo che mi stava dicendo qualcosa di importante». Artemisia lanciò un’occhiata al suo ospite e sospirò. «Quindi sì, Edward, puoi scrivere la mia storia».

    Rimase sorpreso dal cambiamento repentino. «Cosa ti ha detto tua madre?»

    «Che la vita è il ciglio di un burrone e che, in qualunque momento, possiamo ritrovarci più vicini al baratro di quanto pensiamo».

    Edward mise giù il bicchiere e si sporse verso di lei. «Ti prego, dimmi che non sei malata».

    Artemisia rise. «No!».

    «Ma il sogno era un presagio di morte?»

    «Ogni sogno è un presagio di morte, perché moriremo tutti. Ogni giorno è un presagio di morte, perché andiamo tutti nella stessa direzione». Lo studiò con attenzione. «Edward, sembri spaventato. Non esserlo. Hai una famiglia. So che sei sposato e che hai due figli».

    «Mia moglie è morta e i miei figli sono rimasti in Inghilterra. Non avevano legami con la corte, per loro era più sicuro restare».

    «Sono pur sempre sangue del tuo sangue».

    «Per loro non ha importanza».

    L’artista inarcò le sopracciglia e rifletté. Edward Petersham, diventato vecchio e pensieroso, stava ricordando la vita che aveva vissuto – e quella a cui aveva rinunciato. Si chiese se si coricasse pieno di rimpianti e si agitasse insonne fino alle fredde luci dell’alba, tra le lenzuola madide di un letto vuoto da tempo.

    «Quindi sei solo? È questo il motivo per cui sei venuto qui? Stai cercando la persona che un tempo ti amava? Ti stai domandando se ti ama ancora?».

    Scosse la testa.

    «Non mi aspetto nulla da te, Misia. Non mi merito niente. L’unica cosa che chiedo è di potermi mettere al tuo servizio, che tu mi conceda di lasciare una testimonianza dei tuoi successi».

    «Privati e personali, Edward. Devi essere onesto».

    «Se è ciò che desideri».

    «Sì», replicò con convinzione. «È ciò che desidero. A una condizione».

    «Dimmi».

    «Che l’opera sia pubblicata solo dopo la mia morte», spiegò Artemisia con veemenza. «Se devo accettare che tu scriva queste memorie, la gente dovrà leggerle quando me ne sarò andata. Perché ricorda, loro potranno anche leggerle, ma sono stata io a viverle».

    Capitolo 3

    Edward non si era accorto che Artemisia lo stava osservando, ferma sotto l’ingresso a volta della sua camera da letto, che affacciava direttamente sul balcone e sullo studio che era stato messo a sua disposizione. C’era un’angolazione da cui riusciva a vederlo senza essere notata, e si era fermata lì, silenziosa e assorta nei suoi pensieri.

    Lei ed Edward Petersham erano stati amanti per un breve periodo, nella zona grigia del suo matrimonio fallito, quando aveva dovuto crescere i figli da sola. Non lo aveva amato più di chiunque altro – quella passione era stata riservata a Francesco Maria Maringhi, e allo scandaloso triangolo che aveva aggiunto altra polvere da sparo a una reputazione giù abbastanza esplosiva. Suo marito, Pierantonio Stiattesi, aveva scoperto la relazione ma l’aveva accettata, una decisione che aveva addolorato Artemisia, la quale aveva sperato di suscitare la gelosia nel consorte. Il loro matrimonio non era mai stato destinato a durare. E forse nemmeno a cominciare.

    Lo sguardo di Artemisia era ancora fisso su Edward. Si chiese come avrebbe reagito di fronte alla storia della sua vita, soprattutto quando avrebbe rammentato il famigerato processo per stupro. Si chiese se le andasse di rivivere quei momenti, poi si rese conto di non aver mai dimenticato niente. Neanche le sordide conseguenze. A un mese dalla fine del processo, era stata bandita e data in moglie a Pierantonio de’ Vincenzo Stiattesi, un mediocre artista fiorentino. Orazio, il padre ambizioso e inflessibile, aveva sancito che la figlia disonorata venisse cacciata da Roma. Si vergognava di lei, come i fratelli, ma Orazio aveva altri motivi

    Ti è piaciuta l'anteprima?
    Pagina 1 di 1