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Il monastero del male
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E-book175 pagine2 ore

Il monastero del male

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Info su questo ebook

Anno 999. Il monaco Galdinius, insieme con altri due confratelli, decide di trasformare la torre di Torba, nei pressi di Varese, in un monastero. Con l’aiuto dei contadini locali e in particolare del longobardo Wilfredo, capo del villaggio vicino, il monastero diventa il fulcro attorno a cui rifioriscono il territorio circostante e la comunità. Per ottenere un supporto nelle numerose attività intraprese, Galdinius chiede e ottiene dalla madre badessa del vicino convento di Caira che otto delle sue monache si trasferiscano a Torba. Tra loro c’è Brenda, esperta di rimedi naturali, medicamenti e misteriosi preparati. La monaca nasconde un oscuro segreto: è infatti una pedina in un piano fatale per il nuovo monastero… Alla vigilia dell’anno Mille, in un periodo storico fosco e violento, all’interno di un monastero misterioso prende vita un cupo intrigo di inganni e delitti.

Un monastero avvolto dal mistero.
Una rivelazione celata in un’antica pergamena.
Un’infernale trama di inganni e delitti alla vigilia dell’anno mille.

Cosa nascondono i ritratti delle monache senza volto?

Silvio Foini
vive e lavora in provincia di Como. Giornalista e scrittore, ha già pubblicato alcuni romanzi: La pattuglia dei disgraziati, Il profumo dei ricordi. È stato a lungo redattore del quotidiano online «LPL NEWS 24», e ha collaborato con testate giornalistiche locali. Nel 1996 il Presidente della Repubblica Scalfaro lo ha insignito dell’onorificenza di Cavaliere dell’ordine al merito della Repubblica Italiana.
LinguaItaliano
Data di uscita22 gen 2019
ISBN9788822728968
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    Il monastero del male - Silvio Foini

    1

    Torba. I primordi

    Lassù, ai piedi dei ghiacciai perenni sorgeva intorno all’anno 999 d.C. una antica torre monolitica costruita con pietre moreniche.

    A fondovalle, nel minuscolo agglomerato di capanne abitato da pastori si vociferava di cupe leggende riguardanti coloro che si erano fermati sotto la sua ombra: tre monaci giunti da oltre quelle aspre cime.

    Si raccontava che fossero comparsi una mattina sul crinale della montagna che sovrastava il lago di Vara.

    Alti, magri, le bianche barbe che si delineavano spiccando sui sai di colore marrone scuro si erano poi inginocchiati e avevano intonato lodi al Signore per ringraziarlo d’aver indicato loro quella terra nuova. Con loro un grosso cane dal mantello grigio.

    Terra molto inospitale invero, flagellata dal vento gelido che scendeva fischiando lugubre dai ghiacci eterni ove non aveva mai vissuto nessuno a memoria d’uomo.

    Si diceva che fossero giunti in quel luogo in attesa dell’ormai imminente anno Mille, posto come termine ultimo per la vita sulla Terra.

    Recitava infatti la Bibbia dei profeti: «Mille e non più Mille». Il tempo era prossimo quindi e tutto il mondo cristiano lo stava attendendo impotente e rassegnato.

    I tre avevano raggiunto la pianura attraversata dal fiume Ol, che nell’antica lingua dei Celti significava valoroso, importante.

    Il fiume si originava dalla montagna più prossima che sovrastava i sette laghi presenti nella pianura e i monaci si erano fermati dove una volta sorgeva l’antica torre di pietra posta a difesa del limes imperiale, di cui restava, dopo la fine dell’Impero Romano d’Occidente, un vecchio baluardo che i tre considerarono un luogo propizio alla meditazione nell’attesa del giorno in cui l’uomo avrebbe terminato per sempre il proprio cammino sulla terra.

    Il più anziano dei tre aveva nome Galdinus.

    Alto, intorno ai sessanta anni, magrissimo e con il volto scavato attorniato da una lunga e candida barba, indossava un saio che sicuramente aveva conosciuto tempi migliori e un paio di consunti sandali che ormai mostravano la nuda tomaia. Tuttavia, nonostante l’aspetto dimesso si poteva intravvedere in lui una eccezionale forza di spirito e la severa attitudine al comando. Le mani dalle lunghe dita portavano all’anulare della destra una ferrea coroncina del rosario.

    Aveva detto ai due compagni, frate Auro e frate Oblivio: «Qui il Signore dovrebbe manifestarsi in tutta la sua potenza e proprio qui se ciò avverrà, siederà sul Trono della Giustizia per separare il bene dal male, giudicare coloro che avranno la vita eterna e coloro che saranno destinati al fuoco dell’inferno. Credo che, se rimarremo qui, fra questi aspri boschi e i lupi, lo vedremo e imploreremo pietà affinché ci conceda la vita e ci permetta di erigere un nostro monastero in onore della Madre di Gesù».

    «Sempre che la Bibbia abbia ragione!», aveva aggiunto fra sé scrutando il cielo per coglierne dei possibili segni premonitori.

    I due monaci avevano ascoltato le parole del confratello ritenendole sagge. Avrebbero atteso la fine del mondo in questo romitaggio predicando fra i poveri pastori che abitavano nei dintorni in capanne dal tetto di paglia.

    Il sole era particolarmente caldo in quel periodo di primavera tanto che molta della neve che era scesa nell’ultimo inverno sulle montagne poco distanti si era disciolta gonfiando l’Ol che scorreva nei pressi delle capanne dei pastori che, edificate in vicinanza delle sue sponde, erano state rese inabitabili dall’esondazione.

    I monaci erano venuti in soccorso degli sfortunati e in cambio avevano chiesto loro di essere aiutati a costruire un monastero che poi li avrebbe accolti insieme agli armenti. I popolani avevano accettato trasportando le pietre dal fiume fino all’antica torre romana ove sarebbe sorto il monastero.

    I lavori erano stati affidati da Galdinus a Wilfredo, il capo riconosciuto del villaggio, diretto discendente di quel popolo che, trecento anni prima, sotto il re barbaro Alboino, era calato nel nord dell’Italia.

    Ci vollero sei mesi prima che le possenti mura arrivassero al tetto e ciò era avvenuto con indicibili fatiche degli abitanti nel territorio dell’antico castrum romano ormai ridotto a pietraia. Molte delle pietre che erano state usate da Wilfredo e dai suoi per erigere le mura perimetrali del monastero provenivano proprio

    da lì.

    Intanto i monaci avevano proseguito nella predicazione alla penitenza che, sostenevano, avrebbe fermato almeno in quel luogo la vindice mano del Signore Dio. Nelle povere casupole, la sera, le famiglie dei pastori levavano preghiere al cielo secondo l’indicazione di padre Galdinus; quindi, dopo una parca cena a base di minestre di farro e orzo, si coricavano per la notte con nella mente le immagini della distruzione che si sarebbe abbattuta su quelle povere lande per lo più ancor disabitate.

    Poco distante dall’antica torre, a nemmeno un’ora di cammino, sorgeva un altro monastero, condotto da monache benedettine e dedicato alla Madonna, in un territorio dal nome longobardo che significava Luogo di altura ma che il popolo chiamava Caira.

    Si diceva essere stato fondato nel 737 da una giovane chiamata Manigunda – nipote di re Liutprando – quale voto fatto alla Vergine in cambio della guarigione da una malattia invalidante. Ebbene, Manigunda bevve l’acqua di una fontana nei pressi di Caira e guarì. Liutprando, vista anche la sua propensione all’insediamento di monasteri in Longobardia per diffondere la cristianità, fu ben felice di accontentare la giovane nipote e concesse la fondazione del monastero di Santa Maria Assunta cui vennero donati dallo stesso re vasti possedimenti agricoli e mulini sulla riva destra dell’Ol. Questo era accaduto ben 262 anni prima.

    Galdinus decise di fare visita al vecchio monastero per chiedere consiglio sull’edificazione di quello che stava erigendo seguendo la consuetudine della zona.

    La badessa dell’epoca, madre Benedicta da Teuderad, fu ben felice di assecondare le richieste di Galdinus e anzi si affrettò a visitare la zona – che sorgeva a poca distanza da Caira – dove stava sorgendo il nuovo monastero. Fu prodiga di consigli sia per la futura amministrazione del territorio circostante che per le coltivazioni.

    «Reverendo padre», aveva detto rivolgendosi al monaco, «credo che nei tempi a venire lavoreremo congiuntamente per il Signore, se ci concederà ancora di seguitare a vivere e non porrà in atto il suo proposito. Ma ditemi», aveva proseguito, «voi credete davvero che Egli porrà la parola fine sui destini del mondo?».

    «Credo alle parole della sacra Bibbia», aveva risposto Galdinus, «ma ritengo anche che tali parole siano state scritte per le antiche genti al fine di incutere loro un sacro timore di Dio e fare in modo che venissero seguiti i suoi comandamenti che, a quanto pare, non erano molto presi sul serio. Non credo tuttavia nel mio cuore», aveva aggiunto, «che il Signore Dio desideri distruggere ciò che ha creato all’inizio dei tempi. Non penso voi siate al corrente di quanto era scritto su di una vecchia pergamena che conservavo nel mio vecchio convento e che purtroppo è andata distrutta. Parlava di una quasi fine del mondo accaduta nell’anno 540 d.C.».

    «In effetti», rispose Benedicta incuriosita, «non me ne è giunta mai nuova. Volete raccontarmi quel che accadde?».

    «Certo cara sorella. I fatti riportati erano questi: in quell’anno, o forse anche l’anno prima, nel cielo apparve una cometa dalla coda di fuoco che pareva dirigersi verso il nostro mondo. Tuttavia le preghiere di molti trovarono orecchio presso il Signore che evitò, bontà sua, quell’orribile evento.

    Però una fitta nuvola nera rimase per alcuni mesi a oscurare la luce del sole e ciò produsse molte catastrofi. Tutte le colture del tempo, già misere di per sé, non produssero frutto.

    Seguì quindi una feroce carestia che colpì il mondo abitato e per conseguenza si presentò in tutta la sua possanza la peste.

    A migliaia morirono dato che non v’era e non v’è tuttora alcun rimedio. Molti parlarono di castigo di Dio e furono indotti alla penitenza. Molti pagani si convertirono al cristianesimo».

    «Come si dice: non tutto il male vien per nuocere, vero?», rispose la badessa di Caira con una curiosa smorfia sulle labbra che si distesero poi in un sorriso.

    «Vero anche questo: a volte predicare nel nome di Gesù vale poco, ma quando la gente non sa più a che santo votarsi basta una sola parola e tutti si convincono.

    Vedete adesso che sconcerto fra il popolo? Quanto si prega in questo frangente! Adesso tutti sono ferventi cristiani».

    «Parole davvero condivisibili caro fratello», aveva convenuto la badessa, «nondimeno è molto meglio che adesso le genti credano vere le parole della sacra Bibbia e si avviino sulla strada giusta. Quando sorgerà il sole sul mattino dell’anno Mille potremo predicare quanto sia stupenda la grazia divina e quanto grande l’amore che Dio nutre nei confronti degli uomini che comunque non meriterebbero. Giusto?»

    «Certamente sorella Benedicta. Ma ora veniamo a noi e parliamo un po’ del monastero che intendo costruire: quale criterio ritenete sia il più consono da seguire? Per ora abbiamo eretto i muri perimetrali usando pietre tratte dal greto dell’Ol e in parte dalle rovine dell’antico castrum.

    Avete qualche buon suggerimento?».

    La badessa del monastero di Caira invitò il monaco Galdinus a seguirla. «Venite con me, vi mostrerò l’intera costruzione e come siano ubicati i vari luoghi così che ve ne facciate un’idea».

    Galdinus seguì la monaca ed entrò nel suggestivo monastero; con lei attraversò stanze e corridoi vedendo le celle in cui riposavano e pregavano le suore: il grande refettorio, la cucina, la chiesa interna in cui erano tumulati personaggi nobili che avevano contribuito alla bisogna del monastero stesso.

    Galdinus notò che sul muro dietro all’altare si aprivano due piccole feritoie e domandò alla badessa a cosa servissero.

    «Vede fratello, le mie consorelle non seguono la celebrazione della santa messa insieme ai fedeli. Siedono esattamente dietro il muro cui si poggia l’altare e quelle due feritoie servono al celebrante per farvi passare la mano che tiene l’ostia consacrata per dare loro la comunione».

    «Come mai questa separazione dai fedeli, madre?», volle informarsi Galdinus.

    «Si è sempre ritenuto fosse meglio per evitare distrazioni da una parte e dall’altra».

    La visita al monastero proseguì e Galdinus fu condotto a visitare l’orto dei semplici ove si coltivavano le erbe terapeutiche che nelle mani dell’esperta monaca erbolaia servivano ad alleviare molti disturbi.

    La badessa gli mostrò anche le pergamene che attribuivano al monastero di Santa Maria Assunta i vari ed estesi possedimenti decretati dalla diocesi di Pavia.

    Ciò che maggiormente impressionò il monaco però fu la sepoltura delle badesse che si erano succedute alla guida del monastero.

    Si trattava, come mostrò Benedicta, di nicchie aperte nella parete ove le defunte venivano poste in posizione seduta e dove si sarebbero decomposte.

    «Perdonate reverenda», aveva detto Galdinus, «ma per il fetore della decomposizione? Davanti c’è la navata centrale della chiesa e il lezzo dei cadaveri potrebbe passare attraverso le feritoie da cui il celebrante amministra il corpo di Cristo alle vostre consorelle!».

    La madre badessa piegò il capo sulla spalla sorridendo: «Guardi caro fratello che a quanto pare i fedeli non ci fanno troppo caso. Se percorrete le vie del villaggio qui fuori, di cattivi odori ne potete respirare a non finire! Porcilaie, stalle delle pecore, letame ammucchiato al lato delle strette vie…».

    Galdinus si strinse nelle spalle ma non obiettò nulla.

    Quando attorno al mio monastero sorgeranno le nuove abitazioni sarà proibito tenere animali accanto a dove vivranno le persone e, per quanto riguarda le sepolture, queste avverranno in luogo consono. Vada per quelle dei cavalieri e nobili che si faranno all’interno della chiesa ma con i dovuti modi e maniere, pensò il monaco.

    Lasciata la badessa, mentre tornava sui propri passi Galdinus ripensò a quanto aveva veduto a Caira e decise di illustrarlo a frate Auro e a frate Oblivio: desiderava conoscere anche i loro pareri e suggerimenti.

    Lui, oltre a essere il maggiore dei tre, era stato l’abate del monastero sorto trent’anni avanti Oltralpe; quando questo era stato raso al suolo dalla barbarie della soldataglia dei Geti e i suoi dodici confratelli trucidati, aveva deciso con i due superstiti di attraversare le montagne alla ricerca di un altro luogo in cui riedificare un nuovo monastero seguendo la regola di san Benedetto, Ora et labora. Frate Galdinus rammentava spesso ai due confratelli le basi della regola del santo fondatore del loro ordine monastico, non tanto perché i due non la ricordassero, ma per tenerla viva. L’abate o padre guardiano tiene le veci di Cristo al monastero e deve esser considerato il ritratto stesso di san Benedetto. Egli deve essere al contempo un tenero padre ma anche un severo maestro, un educatore che deve aiutare, non dominare sui confratelli, prestando orecchio anche ai più giovani, dato che Dio rivela sovente al più umile le soluzioni migliori.

    Quella sera mentre prima di compieta consumavano un frugale pasto portato loro

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