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L'ombra del faro (eLit): eLit
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L'ombra del faro (eLit): eLit
E-book398 pagine5 ore

L'ombra del faro (eLit): eLit

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Info su questo ebook

Arrivata a Kiss River, Gina Higgins scopre con disappunto che il faro che ha cercato con tanta determinazione è ormai in rovina. Ma a lei non mancano l'ostinazione e il coraggio, così si sistema nella casa che un tempo era stata del guardiano del faro, ora abitato dall'introverso Clay e da sua sorella, la disinibita Lacey. In questo luogo carico di storia, Gina trova un diario del 1942. Vengono a galla verità lontane, ancora scottanti, ricordi dolorosi e ferite mai rimarginate. Presente e passato si intrecciano come fili di una fitta trama, offrendo l'occasione di una nuova vita.

LinguaItaliano
Data di uscita30 ott 2015
ISBN9788858937655
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    Anteprima del libro

    L'ombra del faro (eLit) - Diane Chamberlain

    Titolo originale dell’edizione in lingua inglese:

    Kiss River

    Mira Books

    © 2003 Diane Chamberlain

    Traduzione di Claudia Terraneo

    Questa edizione è pubblicata per accordo con

    Harlequin Books S.A.

    Questa è un’opera di fantasia. Qualsiasi riferimento a fatti o

    persone della vita reale è puramente casuale.

    © 2004 Harlequin Mondadori S.p.A., Milano

    eBook ISBN 978-88-5893-765-5

    www.harlequinmondadori.it

    Questo ebook contiene materiale protetto da copyright e non può essere copiato, riprodotto, trasferito, distribuito, noleggiato, licenziato o trasmesso in pubblico, o utilizzato in alcun altro modo ad eccezione di quanto è stato specificamente autorizzato dall’editore, ai termini e alle condizioni alle quali è stato acquistato o da quanto esplicitamente previsto dalla legge applicabile. Qualsiasi distribuzione o fruizione non autorizzata di questo testo così come l’alterazione delle informazioni elettroniche sul regime dei diritti costituisce una violazione dei diritti dell’editore e dell’autore e sarà sanzionata civilmente e penalmente secondo quanto previsto dalla Legge 633/1941 e successive modifiche.

    Questo ebook non potrà in alcun modo essere oggetto di scambio, commercio, prestito, rivendita, acquisto rateale o altrimenti diffuso senza il preventivo consenso scritto dell’editore. In caso di consenso, tale ebook non potrà avere alcuna forma diversa da quella in cui l’opera è stata pubblicata e le condizioni incluse alla presente dovranno essere imposte anche al fruitore successivo.

    1

    Dal condizionatore della vecchia auto usciva un’aria calda e soffocante. Se Gina fosse riuscita a dimenticare almeno per un attimo la ragione di quel viaggio, il pensiero del costo della riparazione sarebbe bastato a farla rabbrividire. Invece si limitò ad abbassare il finestrino e a lasciare che la tiepida brezza marina entrasse nell’auto. Respirò profondamente l’aria salmastra, così diversa da quella del Pacifico a cui era abituata. L’umidità le aveva increspato i capelli e i ricci scuri le ricadevano sulla fronte, ma non le importava. Dopo aver guidato per sei giorni e aver dormito per sei notti sul sedile dell’auto, dopo le docce rubate a palestre di cui non era socia e dopo un susseguirsi di pasti ai fast food, era quasi arrivata.

    Il lungo ponte che stava attraversando era intasato dal traffico. Avrebbe dovuto aspettarselo. Era un venerdì sera di fine giugno e la zona degli Outer Banks, nel Nord Carolina, era una meta turistica rinomata. Non sarebbe stato facile trovare una stanza per la notte. Non aveva prenotato. Era abituata alla costa nordoccidentale del Pacifico, dove il litorale scosceso e l’acqua troppo fredda scoraggiavano i viaggiatori.

    Le auto in coda avanzavano lente e Gina ne approfittò per consultare la cartina aperta sul volante. Procedendo a passo d’uomo, scese dal ponte, oltrepassò una scuola e un campo sportivo, poi, quando molte auto svoltavano a destra per imboccare la statale 12, lei girò a sinistra ed entrò nell’area che sulla cartina era indicata come Southern Shores.

    Attraverso il finestrino aperto le arrivava il rumore dell’oceano, ma non riusciva ancora a vederlo. Sentiva le onde infrangersi sulla spiaggia, sotto le case con il tetto a terrazza che si alternavano ad abitazioni moderne e a vecchi cottage. Nonostante la lunga coda di auto, gli Outer Banks ora si estendevano davanti a lei selvaggi e incontaminati. Era un paesaggio molto diverso da quello che aveva immaginato mentre leggeva il diario.

    A mano a mano che procedeva lungo la strada serpeggiante, la vegetazione s’infittiva, fra le querce e altre piante che non conosceva. Si avvicinava a Duck, una cittadina pittoresca e dall’aria costosa, poi avrebbe attraversato una località chiamata Sanderling, quindi avrebbe raggiunto una riserva naturale e subito dopo avrebbe dovuto trovare le indicazioni per Kiss River. Il faro distava ancora alcuni chilometri, ma Gina ogni tanto scrutava il cielo nella speranza di vederlo spuntare fra le cime degli alberi. In realtà sapeva che non poteva essere visibile da quella distanza, nonostante fosse il faro più alto di tutto il Paese, ma non riusciva a smettere di cercarlo.

    Una volta entrata a Duck, Gina ebbe più tempo di quanto ne desiderasse per osservare la cittadina e i suoi negozi, visto che le auto in coda erano praticamente ferme. Di quel passo sarebbe arrivata a Kiss River con il buio. Aveva sperato di essere lì per le cinque, invece erano quasi le sette e il sole calava già all’orizzonte. Si chiese se il faro restasse aperto anche di notte. Per quanto ne sapeva, forse non era neppure accessibile al pubblico. Sperava che fosse ancora in funzione. Le sarebbe piaciuto poter vedere Kiss River sotto la luce intermittente del faro. Pensò che probabilmente, anche nel caso in cui fosse possibile visitarlo, non sarebbe stato permesso entrare nella stanza della lanterna. Avrebbe dovuto escogitare qualcosa. Del resto in quei giorni aveva scoperto di essere piuttosto brava a mentire. La prima volta che si era intrufolata in una palestra per farsi una doccia, all’inizio del viaggio, era imbarazzata e a disagio, terrorizzata all’idea che la scoprissero e la sbattessero fuori. Quando era entrata nel club di Norfolk, invece, quasi non si ricordava nemmeno di essere un’intrusa. Il fine giustifica i mezzi, pensò.

    Così, anche se era vietato accedere alla stanza della lanterna, avrebbe trovato comunque il modo di entrarci. Era quello lo scopo del suo viaggio. Avrebbe parlato con qualcuno, il guardiano, la guida o chiunque avesse incontrato, e si sarebbe inventata una scusa. Avrebbe detto che doveva fare delle ricerche, che stava scrivendo un articolo sul faro, oppure che era una fotografa. In un modo o nell’altro, sarebbe arrivata fino alla lente di Fresnel.

    La strada che attraversava il parco naturale le sembrò interminabile, ma almeno il traffico era diminuito. Molte delle auto avevano svoltato nelle strade secondarie, dirette alle case sulla spiaggia. Ora si procedeva più spediti e non c’erano quasi più curve. Gina consultò di nuovo la cartina. Non doveva mancare molto all’indicazione per il faro. La strada per Kiss River avrebbe piegato a destra, per inoltrarsi tra le querce rosse e i pini marittimi, anche se forse il paesaggio era cambiato dal tempo in cui era stato scritto il diario. Forse gli alberi erano stati abbattuti per far posto alle case dei turisti.

    Finalmente intravide una stradina che procedeva verso est e che si insinuava fra gli alberi. Gina accostò per consultare la cartina. Non c’erano cartelli e nulla faceva pensare che in fondo alla strada ci fosse qualcosa, ma doveva essere da quella parte. Sulla cartina si vedeva la costa protendersi verso il mare. Non c’erano fiumi a Kiss River, era solo un promontorio, con un nome stravagante e un faro. Però il faro era pur sempre un’attrazione turistica. Strano che non ci fossero cartelli.

    Si domandò se non fosse meglio proseguire lungo la strada principale e cercare un altro bivio, ma poi pensò che forse il cartello era stato abbattuto dal vento o da una auto finita fuori strada. Decise di fidarsi della cartina e svoltò a destra.

    Pochi metri più avanti, la strada curvò a sinistra e la vegetazione divenne ancora più fitta. Era quasi buio ormai e l’auto sobbalzava di continuo sulle buche e sui sassi. Dal finestrino aperto, Gina sentiva il brusio dei grilli e delle rane. Più avanzava, più il suono si faceva insistente.

    All’improvviso vide uno slargo in mezzo al bosco e la strada si interruppe. Gina si fermò e accese la luce all’interno dell’auto. La cartina indicava la presenza dello slargo, dal quale partiva una stradina più piccola che portava al faro. Guardò a sinistra e vide un sentiero, ma il passaggio era ostruito da una catena arrugginita, su cui era appeso un cartello: NON OLTREPASSARE.

    C’è qualcosa di strano, pensò. Anche se il faro fosse stato chiuso al pubblico, il terreno circostante e la casa del guardiano dovevano comunque essere accessibili.

    Controllò di nuovo la cartina. Non c’erano altre strade simili, che terminavano in uno slargo. Doveva essere quella giusta. Guardò il sentiero al di là della catena, era buio e ostruito dai rami degli alberi.

    Non si era mai considerata un tipo coraggioso, benché negli ultimi mesi avesse scoperto delle risorse che non immaginava di avere. Scese dall’auto e si chiuse la portiera alle spalle. Aveva una torcia elettrica nel bagagliaio, ma le pile si erano scaricate da qualche parte nel Kentucky, così portò con sé solo la cartina e la macchina fotografica e si diresse verso lo slargo. Un’estremità della catena era appesa a un albero, l’altra era fissata a un paletto. Lo aggirò e si incamminò lungo il sentiero.

    Anche se non era la direzione giusta, pensò, non c’era nulla di male a tentare. Il peggio che potesse succederle sarebbe stato slogarsi una caviglia inciampando in una radice o finire nella proprietà di qualche sconosciuto. Si sarebbe scusata e avrebbe chiesto indicazioni per raggiungere il faro. Poi però si ricordò dei cavalli. In quella zona c’erano cavalli selvatici, e cinghiali. Lo aveva letto sul diario. Cercò di ignorare i battiti accelerati del cuore e si concentrò sui rumori intorno a lei, in ascolto di un eventuale nitrito o dello schiocco di rami spezzati. In quel punto la vegetazione era così fitta da attutire ogni suono, si sentiva solo il brusio incessante dei grilli. D’un tratto, Gina realizzò che più tardi sarebbe dovuta tornare indietro per quello stesso sentiero, e sarebbe stato ancora più buio.

    Quanta strada aveva percorso? Non più di cinquecento metri, probabilmente. Si fermò e scrutò fra gli alberi. Sulla cartina il sentiero sembrava abbastanza breve, a quel punto avrebbe già dovuto vedere la cima del faro. Riprese a camminare e sentì un rumore, come un lamento. Le ci volle qualche minuto, prima di capire che era l’oceano. Sembrava vicino.

    Davanti a lei il sentiero curvava leggermente verso destra. In quel punto la vegetazione era meno fitta e fra i rami degli alberi Gina intravide una luce. Accelerò il passo e all’improvviso si ritrovò fuori dal bosco, in uno slargo coperto di sabbia. Forse in passato era stato il parcheggio per i visitatori del faro. Comunque, una cosa era certa: adesso il faro di Kiss River non era più aperto al pubblico.

    Attraverso gli alberi e gli arbusti che circondavano il parcheggio, Gina vide una parete curva di mattoni bianchi. Capì subito che qualcosa non andava. C’era un sentiero stretto che passava in mezzo agli alberi e lo imboccò. I rami le graffiarono le braccia nude. Giunta alla fine, si fermò e guardò con orrore davanti a sé.

    «No!» gridò.

    Di fronte a lei si innalzava il faro, ma mancava tutta la parte superiore. La stanza della lanterna non c’era più e della torre non restavano che i tre quarti dell’altezza originaria. In cima, i gradini di ferro della scala interna sporgevano di qualche metro sopra la struttura diroccata.

    Gina rimase ferma, come intontita, incapace di reagire. Non c’era da meravigliarsi che non ci fossero cartelli, che lì intorno non ci fosse anima viva. Doveva essere stato l’oceano a distruggere il faro. Anche adesso, nonostante la sabbia umida sotto i suoi piedi indicasse che la marea era ancora bassa, le onde si accanivano contro la base della torre. Una tempesta, pensò. Questo è il risultato di una maledetta tempesta.

    Fu presa dal panico. Era arrivata fin lì per niente. Chiuse gli occhi e si lasciò sopraffare dal rumore delle onde che si infrangevano contro la parete e dagli spruzzi salati che le bagnavano il viso.

    Riaprì gli occhi e avanzò di qualche passo verso la torre. Vide una casa, a una ventina di metri sulla sinistra. La casa del guardiano del faro. Doveva essere abbandonata da anni, però non c’erano assi inchiodate alle finestre e sotto il portico spiccavano due sedie bianche.

    Gina guardò di nuovo la torre, poi si sfilò i sandali, li raccolse ed entrò in acqua. Era più fredda di quanto pensasse. Camminò piano fra le onde, con l’acqua che le arrivava alle ginocchia. A ogni passo, i piedi affondavano nella sabbia.

    Salì i tre scalini di cemento che conducevano al vano di ingresso della torre. Nonostante la delusione per aver trovato il faro in rovina, Gina era emozionata. Conosceva quel posto. Lo conosceva bene. Sapeva, per esempio, che un tempo all’ingresso c’era una pesante porta di legno, e che poteva capitare di sentire il batter d’ali di qualche uccello entrato nella torre. Proprio come quello che sentì non appena fu all’interno.

    Dopo qualche passo si trovò in una stanza circolare, con il pavimento di piastrelle ottagonali bianche e nere. Di fronte a lei, la scala di ferro disegnava una linea diagonale sulla parete bianca. Attraversò la stanza a piedi scalzi, lasciò cadere i sandali vicino al primo gradino e cominciò a salire.

    A mano a mano che procedeva, la spirale della scala diventava sempre più stretta. Riusciva a intravedere uno scorcio di cielo color porpora e, quando abbassava lo sguardo, il pavimento sotto di lei che si faceva sempre più piccolo e scuro. Le mancava il respiro. Soffriva di vertigini e quando si fermò per riprendere fiato si strinse alla parete gelida. Attraverso il vetro smerigliato della finestra scorse la casa del guardiano. Riprese a salire, senza mai staccarsi dalla ringhiera, cercando di non guardare in basso.

    Sopra di lei, la scala si innalzava di alcuni metri oltre l’apertura e si stagliava nel cielo notturno. Gina si appoggiò alla parete. L’idea di salire su quegli ultimi gradini senza protezione la terrorizzava, ma voleva tentare. Avrebbe potuto sedersi sullo scalino più alto e guardare l’oceano. Forse avrebbe scoperto che la lente si trovava proprio sotto di lei, nell’acqua bassa alla base del faro.

    Si costrinse a fare un altro passo, poi un altro ancora, aggrappata alla ringhiera con entrambe le mani. Quando arrivò all’ultimo gradino, si voltò più lentamente che poté e si sedette. Da quella posizione dominava ogni cosa. L’oceano si estendeva sotto di lei come un enorme tappeto color porpora frangiato di bianco. Osservò il muro frastagliato ai suoi piedi. Sembrava che la cima della torre fosse stata strappata via dal morso di un gigante.

    Attenta a non perdere l’equilibrio, si chinò in avanti ed estrasse la fotografia dalla tasca posteriore dei calzoncini. La premette contro il ginocchio e osservò la bambina ritratta nella foto. Era piccola per la sua età, non sembrava che avesse un anno. Aveva la pelle del colore del grano, i capelli neri cortissimi e gli occhi grandi e scuri. Lo sguardo era triste.

    Gina chiuse gli occhi, cercò di trattenere le lacrime. «Troverò il modo, tesoro» disse ad alta voce. «Te lo prometto.»

    Rimase seduta a lungo, a osservare le ultime tracce di luce che venivano inghiottite dal cielo notturno. Riusciva a pensare solo alla bambina della foto. Non si pose il problema di come avrebbe fatto a scendere al buio da quella scala stretta e ripida, di come avrebbe potuto ritrovare la macchina nel cuore del bosco, o di dove avrebbe passato la notte.

    All’improvviso qualcosa catturò la sua attenzione. Si voltò e restò senza fiato.

    Le luci della casa del guardiano erano accese e ciascuna finestra risplendeva nel buio in un caleidoscopio di colori.

    2

    Clay O’Neill fermò la jeep davanti alla catena. Scese dall’auto, aprì il lucchetto e spostò la catena su un lato della strada. Cercò di ricordare se sua sorella fosse a casa quella sera. Era venerdì, e di solito il venerdì Lacey andava alla riunione dell’anonima alcolisti. Decise di non riagganciare la catena, le avrebbe risparmiato la fatica.

    Mentre ritornava verso la jeep, notò l’auto parcheggiata sul lato opposto dello slargo. Qualcuno doveva averla lasciata lì per raggiungere la spiaggia attraverso il bosco. Era piuttosto strano, però. Non capitava spesso di vedere gente da quelle parti. Non appena ripartì, Clay si dimenticò della macchina per concentrarsi sulla guida ed evitare le buche lungo il sentiero; qualche settimana prima aveva quasi rotto il semiasse contro una grossa radice. Inoltre doveva decidersi a tagliare i rami più bassi, che graffiavano il tetto della jeep.

    Uscito dal bosco si trovò di fronte la casa del guardiano, con i vetri colorati che risplendevano nel buio. Capiva perché Lacey si ostinasse a programmare l’accensione delle luci con un timer. Di solito tornava dal lavoro prima di lui e detestava trovare la casa buia. Clay all’inizio aveva protestato, era uno spreco di energia, ma si era arreso quasi subito. In fondo doveva molto a Lacey. E poi quei vetri colorati mettevano allegria. E gli ricordavano sua madre. Anche lei era stata una decoratrice di vetrate e trovare la casa illuminata al suo arrivo lo rassicurava come il suono di una vecchia ninna nanna.

    Parcheggiò sulla sabbia che delimitava il parcheggio vicino alla casa, scese dall’auto e aprì la portiera posteriore per prendere le borse della spesa.

    Quando fu in cucina, appoggiò le borse sul ripiano di legno e sentì Sasha trotterellare giù dalle scale. Il labrador nero entrò nella stanza e si fermò ai suoi piedi. Clay si chinò per salutarlo.

    «Ciao, Sasha» disse, mentre gli accarezzava la pancia. «Scommetto che hai voglia di fare un giro.»

    Sasha si avvicinò alla porta e si girò verso il padrone, scodinzolando. Povero cane, ultimamente ti abbiamo trascurato, pensò Clay. Aprì lo sportello del frigorifero.

    «Fammi mettere via queste cose e arrivo» annunciò.

    La cucina era il primo locale che lui e Lacey avevano sistemato quando si erano trasferiti lì, sei mesi prima, subito dopo Capodanno. Era una piccola stanza quadrata, con il parquet e i mobili in legno di pino. Il tavolo, rivestito di porcellana, si trovava proprio al centro della stanza, circondato da quattro sedie di legno di quercia. Non era particolarmente elegante, ma era accogliente e soprattutto, come il resto della casa, riproponeva l’atmosfera di un tempo.

    Clay aveva finito di sistemare la spesa e stava per uscire con Sasha, quando guardò fuori dalla finestra. Da lì si vedeva il faro. Il sole era tramontato e il cielo ormai era scuro, ma riusciva ancora a distinguere il profilo della torre. Osservò con più attenzione e si accorse che c’era qualcosa di insolito. Si avvicinò al vetro colorato. Conosceva a memoria ogni curva e ogni linea del faro, ma questa volta sulla diagonale della scala c’era una strana sporgenza. Ci mise un po’ a capire che c’era qualcuno seduto sul gradino più alto, su quello che considerava il suo rifugio privato.

    Non poteva trattarsi di Lacey, la sua auto non era nel parcheggio. Doveva essere un estraneo. Era raro vedere qualcuno da quelle parti. I turisti si erano dimenticati da tempo di Kiss River e la strada era stata sbarrata da quando la tempesta aveva distrutto il faro, dieci anni prima. Si poteva raggiungere il faro dalla spiaggia, ma non era facile, perché l’oceano si era portato via quasi tutta la sabbia. Scrutò l’orizzonte alla ricerca di una barca, nel caso che quel turista fosse arrivato via mare, ma non vide nulla, anche se era troppo buio per averne la certezza. Poi si ricordò dell’auto parcheggiata nello slargo.

    «Andiamo, Sasha» mormorò, mentre apriva la porta e usciva.

    Prese la torcia elettrica appoggiata su una delle sedie del portico e si incamminò verso la torre. Sasha corse subito a nascondersi fra gli alberi.

    La persona seduta sulla scala era una donna, ne era certo. Il vento le scompigliava i capelli lunghi mentre lei se ne stava lì a osservare l’oceano. Era un’incosciente, pensò Clay. Quella scala era pericolosa al buio, per chi non la conosceva bene.

    Le onde si infrangevano alla base della torre e sollevavano schizzi di schiuma argentata sotto i raggi della luna. Clay entrò nell’acqua gelida e si tenne a una certa distanza dalla torre, in modo che la donna potesse vederlo.

    «Salve!» gridò, ma in quel momento una grossa onda si abbatté sulla spiaggia.

    La donna non si voltò, probabilmente non l’aveva sentito.

    Avvicinò le mani alla bocca e chiamò di nuovo: «Ehi! Lassù!».

    Al suo richiamo Sasha si avvicinò di corsa; questa volta la donna si sporse oltre la parete della torre e guardò verso di lui. A quella distanza era impossibile distinguerne i lineamenti. Forse disse qualcosa, ma lui non la sentì.

    «È pericoloso!» gridò Clay. «Farebbe meglio a venire giù.»

    La donna si alzò, ma a quel punto Clay cambiò idea. Era troppo buio all’interno della torre perché scendesse da sola.

    «Aspetti lì!» Sollevò una mano e le fece segno di non muoversi. «Vengo a prenderla. Ho una torcia.»

    Ordinò a Sasha di rimanere sulla spiaggia ad aspettarlo, poi camminò nell’acqua fino a raggiungere i gradini di cemento. Una volta dentro il faro, accese la torcia e si avvicinò alla scala. La conosceva come le sue tasche e non ci mise molto ad arrivare in cima. Lo faceva quasi ogni giorno. La torre era un rifugio perfetto.

    Quando sbucò fuori dal profilo irregolare della cima del faro, fu investito dalla brezza salata. La donna si alzò di nuovo e cercò di indietreggiare. Clay pensò che forse aveva paura di lui. Una reazione comprensibile. Era buio e non c’erano vie di fuga.

    «Potrebbe farsi male, scendendo al buio» si affrettò a dire. Le mostrò la torcia.

    «Oh, grazie» rispose lei. Spostò i capelli che le coprivano il viso.

    Era bellissima. Magra, forse troppo, con i capelli lunghi e scuri e gli occhi grandi, che al buio parevano neri. Aveva l’aria fragile e Clay ebbe l’impressione che una folata di vento potesse portarla via.

    Come se gli avesse letto nel pensiero, la donna barcollò e si aggrappò alla ringhiera. Su quella scala si era sospesi nell’aria, al di sopra della torre, ed era facile avere le vertigini. Le prime volte che Clay si era arrampicato fino a lì con Terri si era sentito male. La scala era solida, ma ci voleva un po’ ad abituarsi.

    «Si sieda» mormorò. «Aspetteremo finché se la sentirà di scendere.»

    La donna si sedette senza dire una parola, il più vicina possibile alla ringhiera, e la strinse con entrambe le mani. Clay si sedette su un gradino più in basso.

    «Come mai è venuta quassù?»

    La guardò e sperò che la domanda non suonasse come un’accusa. Alle spalle della donna il cielo era diventato blu scuro, quasi grigio. Non c’erano stelle.

    «Io...» Si interruppe. «Cos’è successo qui?» Staccò una mano dalla ringhiera e indicò con un ampio gesto il faro e la zona circostante. «Cos’è successo al faro?»

    «Una tempesta» rispose Clay, «più di dieci anni fa.»

    «Dieci anni.»

    La donna scosse la testa. Guardò il mare, in silenzio, e a Clay sembrò di scorgere un bagliore nei suoi occhi.

    «Io sono Clay O’Neill.»

    La donna gli sorrise. «Gina Higgins.» Indicò dietro di lei, verso la casa del guardiano. «È stata trasformata in un museo?» chiese.

    «No.» Dal punto in cui si trovavano, la casa sembrava una cattedrale, con le finestre multicolori. «È rimasta disabitata per molti anni» spiegò. «Poi è stata comprata da un’associazione per la tutela dei beni storici, di cui faccio parte. Io e mia sorella abbiamo deciso di trasferirci lì e dare una mano con i lavori di restauro.»

    I lavori procedevano a rilento, ma a Clay andava bene così. Non era stata fissata una scadenza e lui non aveva certo fretta.

    Gina guardò la casa. «I vetri colorati...»

    «Mia sorella» disse. «Li ha fatti lei, ma decoreranno la casa solo finché resteremo qui. Non rientrano nei lavori di restauro.»

    «Sono bellissimi» osservò Gina.

    Clay annuì. «Sì, è piuttosto brava.»

    «Che cosa ne sarà della casa quando sarà pronta?»

    «Per il momento non si sa.»

    Clay si aggrappò alla ringhiera, si alzò e guardò oltre la cima della torre, in cerca di Sasha. Lo vide intento ad annusare un mucchio di alghe e tornò a sedersi.

    «Forse diventerà un museo» continuò. «Forse un bed and breakfast. O una residenza privata. Non si sa ancora. Per il momento comunque l’accesso al faro è vietato. Come sei arrivata qui?» Di punto in bianco aveva deciso di darle del tu.

    «Dalla strada, dove c’è la catena. Ho ignorato il cartello di divieto» disse imbarazzata. «Mi dispiace.»

    «Non si può passare perché è pericoloso» spiegò lui, «ma sei sana e salva, quindi poco male. Facevi una passeggiata o cercavi qualcosa? La maggior parte della gente non sa nemmeno che il faro c’è ancora.»

    «Sono una storica dilettante con una passione per i fari» rispose Gina. Toccò la macchina fotografica appesa al collo. «Ero curiosa di vedere il faro di Kiss River e scattare qualche foto. Dov’è la parte che manca? Dove si trova la lente di Fresnel?»

    Lo pronunciò Freznal, invece di Franell. Strano per un’esperta di fari. Però aveva detto di essere una dilettante, forse aveva letto il nome da qualche parte ma non l’aveva mai sentito dire da qualcuno.

    «La lente di Fresnel è da qualche parte sul fondo dell’oceano.» Clay pronunciò il nome in modo corretto e la vide arrossire, nonostante fosse buio.

    «Perché non l’hanno ripescata?» chiese lei. «Ha un gran valore, no?»

    Clay annuì. «Sì, ma molte persone sono contrarie.» Perfino suo padre, che in passato si era battuto per salvare il faro, si era opposto con tutte le sue forze al recupero della lente. «L’ente del turismo e l’associazione per la salvaguardia dei fari degli Outer Banks sono favorevoli, ma la gente del posto pensa che le cose debbano rimanere dove le ha messe la natura, e non vogliono attirare più turisti di quelli che ci sono già. E poi, chi lo sa, magari la lente si è rotta in mille pezzi.»

    «Ma potrebbe essere ancora intera, o comunque riparabile» osservò lei. Sembrava che cominciasse a innervosirsi. «È un crimine abbandonare sul fondo del mare un oggetto di tale valore storico. Dovrebbe essere esposta in un museo.»

    Clay si strinse nelle spalle. In realtà non gli importava molto della lente. Anzi, non ci aveva neanche mai pensato. Non gli sembrava il caso di scaldarsi tanto per un pezzo di vetro.

    «Era grande, vero?» chiese Gina.

    «Sì. Pesava almeno tre tonnellate. Che sia intera o in mille pezzi, tirarla su sarebbe un’impresa. E poi, una volta recuperata, bisognerebbe lasciarla per mesi in una soluzione elettrolitica, per evitare che le parti metalliche si disintegrino a contatto con l’aria.»

    «No, non serve» ribatté Gina. «Le parti metalliche sono di ottone, no? Con l’ottone il bagno elettrolitico non è necessario.»

    Aveva ragione e Clay fu stupito che lo sapesse.

    «Se pesava tre tonnellate» continuò Gina, «non deve essersi allontanata molto dal faro, non credi?»

    Clay guardò l’abisso nero sotto di loro. Molto tempo prima, lui e Terri venivano spesso a Kiss River. Si sedevano sulla scala, aspettavano la bassa marea e cercavano la lente sul fondale. Non erano mai riusciti a scorgerla.

    «È stata una tempesta molto violenta» disse. «E dopo quella ce ne sono state altre, quasi altrettanto forti. La costa è cambiata molto da allora. Una volta il livello dell’acqua non era così alto. La spiaggia è stata spazzata via, la lente potrebbe essere ovun...»

    «Ehi!»

    La voce proveniva dalla spiaggia e il vento la portò fino a loro. Clay si sporse e vide la luce di una torcia.

    «Ciao, Lacey» rispose. «Scendiamo subito.» Si voltò verso Gina e si alzò. «È mia sorella» le spiegò. «Ora te la senti di scendere?»

    Gina annuì. Clay le porse la mano mentre si alzava, ma lei non la prese. La precedette e tenne la torcia rivolta all’indietro, per illuminarle i gradini.

    «Stai attenta a dove metti i piedi» avvertì. «Non è facile mantenere l’equilibrio al buio.»

    Procedeva piano, consapevole che dietro di lui Gina era letteralmente incollata alla ringhiera, e ci misero un po’ ad arrivare in fondo. Poi scesero i tre scalini di cemento ed entrarono in acqua. Sasha corse verso di loro sollevando spruzzi gelati, mentre raggiungevano la spiaggia dove li aspettava Lacey.

    Gina si chinò subito ad accarezzare Sasha, conquistandosi così qualche punto agli occhi di Clay. Il labrador si rotolò nella sabbia e si sdraiò a zampe all’aria per godersi le coccole.

    «Questo è Sasha» disse Clay. «E questa è mia sorella, Lacey. Lacey, ti presento Gina...?» Non ricordò il cognome.

    «Higgins.» Gina si alzò in piedi e si pulì le dita sporche di sabbia sui calzoncini, prima di dare la mano a Lacey.

    «Sei un’amica di Clay?» chiese Lacey, mentre le stringeva la mano.

    A Clay non sfuggì la nota speranzosa nella voce della sorella.

    Gina sorrise. «No» rispose. «In realtà sono un’intrusa. Ero in cima al faro e quando si è fatto buio tuo fratello è venuto a salvarmi. Tutto qua.»

    «Davvero?» Lacey guardò Clay, sospettosa.

    «È arrivata dalla strada» spiegò lui.

    «Ho aggirato la catena» aggiunse Gina. «Mi dispiace, volevo solo vedere...»

    «Niente di grave» la interruppe Lacey. Agitò la

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