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Corpi: La terza indagine di Sara Linton
Corpi: La terza indagine di Sara Linton
Corpi: La terza indagine di Sara Linton
E-book552 pagine7 ore

Corpi: La terza indagine di Sara Linton

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Info su questo ebook

Una tragica fatalità. Un caso apparentemente semplice. Ma qualcosa non torna...

Sara Linton, medico legale e pediatra di una piccola cittadina della Georgia, viene convocata sulla scena di quello che a prima vista sembra un caso di suicidio nel campus del college locale. Sul corpo mutilato della giovane vittima non ci sono indizi particolari, e l'ateneo sembra ansioso di evitare uno scandalo, ma per Sara Linton e Jeffrey Tolliver, il capo della polizia di Heartsdale, c'è qualcosa che non torna. E quando nel giro di pochi giorni si verificano altri due suicidi, e subito dopo una giovane donna subisce una brutale aggressione, i loro sospetti trovano conferma: c'è un assassino a piede libero nel campus. E la chiave per incastrarlo potrebbe essere nelle fragili mani di Lena Adams, una ex poliziotta che ora lavora per la sicurezza del campus. Ma come può garantire la sopravvivenza delle prossime vittime, lei che è a stento in grado di proteggere se stessa?
LinguaItaliano
Data di uscita10 apr 2020
ISBN9788858999035
Corpi: La terza indagine di Sara Linton
Autore

Karin Slaughter

Autrice regolarmente ai primi posti nelle classifiche di tutto il mondo, è considerata una delle regine del crime internazionale. I suoi quindici romanzi, che sono stati tradotti in trentatré lingue e hanno venduto più di 30 milioni di copie, comprendono la fortunata serie che per protagonista Wil Trent, L'orlo del baratro, che ha ricevuto una nomination al prestigioso Edgar Award, e Quelle belle ragazze, il suo primo thriller psicologico. Nata in Georgia, attualmente vive ad Atalanta.

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    Anteprima del libro

    Corpi - Karin Slaughter

    DOMENICA

    1

    Sara Linton osservava l’entrata del Dairy Queen, guardando sua sorella, agli ultimi mesi di gravidanza, che ne usciva con in mano due coppette di gelato ricoperto di cioccolato. Mentre Tessa attraversava il parcheggio si alzò il vento, che le sollevò il vestito viola sopra le ginocchia. Lei cercò di tenerlo giù senza rovesciare i gelati, e Sara la sentì imprecare avvicinandosi alla macchina.

    Trattenendo a stento le risa, Sara si protese verso lo sportello aperto e le chiese: «Hai bisogno di aiuto?».

    «No» rispose lei, infilandosi a fatica nell’auto. Si sedette e le porse una coppetta. «E potresti anche smetterla di sghignazzare.»

    Sara sussultò vedendola togliersi i sandali e poggiare i piedi nudi sul cruscotto. La sua BMW 330i aveva meno di due settimane, e Tessa aveva già lasciato un pacchetto di noccioline pralinate a squagliarsi sul sedile posteriore e rovesciato della Fanta sul tappetino davanti al posto del passeggero. Se non fosse già stata quasi all’ottavo mese, l’avrebbe strozzata.

    «Come mai ci hai messo tanto?» le chiese.

    «Dovevo fare pipì.»

    «Di nuovo?»

    «In effetti no, ma provo un’attrazione irresistibile per i bagni del Dairy Queen» rispose Tessa, seccata. Si sventolò una mano davanti al viso. «Dio, che caldo.»

    Sara non fece commenti e abbassò la temperatura del climatizzatore. Come medico, sapeva che Tessa era semplicemente vittima degli ormoni, ma a tratti le veniva voglia di rinchiudere sua sorella in una scatola e non aprirla finché non si fosse sentito il pianto di un bambino.

    «C’era un sacco di gente, là dentro» riuscì a dire Tessa tenendo in bocca una generosa quantità di gelato e sciroppo al cioccolato. «Santo cielo, ma non ce l’hanno una casa?»

    «Mmh» fece Sara.

    «E poi c’è una tale sporcizia. Guarda il parcheggio» continuò Tessa agitando il cucchiaio in aria. «Tutti buttano a terra la spazzatura senza pensare a chi dovrà raccoglierla. Come se immaginassero che tanto passerà la fatina dell’immondizia, o che so io.»

    Sara borbottò qualche parola d’assenso, mangiando il gelato mentre sua sorella continuava la sua sequela di lamentele su tutti i clienti del Dairy Queen, dall’uomo che parlava al cellulare alla donna che aveva fatto la fila per dieci minuti e poi, una volta raggiunto il bancone, non aveva ancora deciso quali gusti voleva. Dopo un po’ Sara lasciò vagare la mente, guardandosi intorno e riflettendo sulla settimana piena che l’attendeva.

    Qualche anno prima aveva accettato il lavoro part-time come medico legale della contea per raggiungere la cifra che le occorreva per rilevare la quota del suo collega, che stava andando in pensione, alla Heartsdale Children’s Clinic, solo che gli impegni all’obitorio avevano cominciato a ostacolare quelli alla clinica. In genere il lavoro per la contea non le portava via molto tempo, ma la settimana precedente un’udienza in tribunale l’aveva allontanata dai suoi pazienti per due giorni, costringendola ad allungare l’orario dei giorni successivi per recuperare.

    Il lavoro all’obitorio aumentava sempre di più, e ormai si era resa conto che entro un paio d’anni avrebbe dovuto scegliere tra i due. Sarebbe stata una decisione davvero difficile da prendere.

    Il posto di coroner era una sfida, qualcosa di cui Sara aveva avuto un bisogno disperato tredici anni prima, quando aveva lasciato Atlanta per tornare nella contea di Grant. In parte era convinta che le si sarebbe atrofizzato il cervello senza i continui rompicapi che la medicina legale presentava. Tuttavia, c’era una sorta di consolazione nel curare i bambini, e Sara, che non poteva averne, sapeva che avrebbe sentito la mancanza del contatto con loro. Non riusciva mai a capire quale fosse per lei il lavoro migliore. In generale, una giornataccia in uno dei due rendeva l’altro quello ideale.

    «Ce la fa a salire!» strillò Tessa, abbastanza forte da attirare la sua attenzione. «Ho trentaquattro anni, non cinquanta. Ti pare una domanda che un’infermiera possa fare a una donna incinta?»

    Sara la fissò. «Cosa?»

    «Non hai sentito nemmeno una parola, eh?»

    «Ma sì, certo che ho sentito» le rispose cercando di essere convincente.

    Tessa si fece scura in volto. «Stai pensando a Jeffrey, vero?»

    Sara fu sorpresa da quella domanda. Per una volta il suo ex marito era l’ultimo dei suoi pensieri. «No.»

    «Non mi dire bugie» ribatté Tessa. «Venerdì tutti hanno visto la ragazza delle insegne alla stazione di polizia.»

    «Doveva fare la scritta sulla nuova auto della polizia» rispose Sara, sentendosi avvampare.

    Tessa le rivolse uno sguardo incredulo. «Non è la scusa che ti ha rifilato l’altra volta?»

    Sara non le rispose. Ricordava ancora benissimo il giorno in cui era tornata a casa in anticipo dal lavoro e aveva trovato Jeffrey a letto con la proprietaria del negozio di insegne della città. L’intera famiglia Linton era rimasta sorpresa e al tempo stesso infastidita quando aveva ricominciato a frequentarlo, e anche se in fin dei conti Sara era d’accordo con loro, non riusciva proprio a dare un taglio netto alla relazione con lui. Quando si trattava di Jeffrey, la logica l’abbandonava.

    «Devi fare attenzione, con lui. Tienilo un po’ sulle spine» l’ammonì Tessa.

    «Non sono una sciocca.»

    «A volte sì.»

    «Be’, anche tu» ribatté lei, sentendosi una stupida ancor prima di aver pronunciato quelle parole.

    Nell’abitacolo piombò il silenzio, interrotto solo dal ronzio dell’aria condizionata. Alla fine Tessa disse: «Avresti dovuto rispondere: chi lo dice lo è».

    Sara avrebbe voluto tanto riderci su, ma era troppo irritata. «Tessie, non sono affari che ti riguardano.»

    Sua sorella scoppiò in una gran risata che le rimbombò nelle orecchie. «Tesoro, credo proprio che la questione sia affare di tutti. Sono sicura che quella pettegola di Marla Simms si sia attaccata al telefono ancor prima che la puttanella fosse scesa dal furgone.»

    «Non chiamarla così.»

    Tessa agitò ancora il cucchiaio in aria. «E come dovrei chiamarla? Sgualdrina

    «No» rispose lei, seria. «Non chiamarla in nessun modo.»

    «Be’, secondo me qualche parolina ben scelta se la merita.»

    «È stato Jeffrey a tradirmi. Lei ha solo approfittato di una buona opportunità.»

    «Sai una cosa?» riprese Tessa. «In vita mia ho approfittato di un sacco di buone opportunità, ma non ne ho mai cercate che fossero già sposate.»

    Sara chiuse gli occhi, sperando che sua sorella tacesse. Non aveva alcuna voglia di parlare di quella storia.

    Tessa continuò: «Marla ha detto a Penny Brock che è ingrassata».

    «E come mai tu hai parlato con Penny Brock?»

    «Sono andata a sistemarle lo scarico della cucina» disse lei, togliendosi il cucchiaino di bocca con uno schiocco. Tessa aveva smesso di lavorare full-time con il loro padre nell’impresa di servizi idraulici di famiglia quando il pancione aveva cominciato a impedirle di infilarsi in spazi angusti, ma era ancora in grado di liberare uno scarico.

    «Da quel che dice Penny, è diventata grande come una casa» ribadì Tessa.

    Anche se non avrebbe voluto, Sara non riuscì a evitare di provare un senso di trionfo, seguito da un’ondata di colpa per aver gioito all’idea che a un’altra donna si fossero ingrossati i fianchi. E il sedere. La ragazza delle insegne era già ben in carne tempo addietro.

    «Guarda che ti ho vista sorridere» le disse Tessa.

    Era vero: le facevano male le guance per lo sforzo di tenere la bocca serrata.

    «È orribile.»

    «E da quando?»

    «Da quando…» Sara non finì la frase. «Da quando mi fa sentire una povera idiota.»

    «Be’, sei quello che sei ed è tutto quello che sei, come direbbe Braccio di Ferro.» Tessa concentrò ogni sforzo nel grattare la coppetta di plastica con il cucchiaino ripulendola di ogni traccia di gelato. Fece un gran sospiro, come se all’improvviso la sua giornata fosse diventata un vero incubo. «Potrei finire il tuo?»

    «No.»

    «Ma sono incinta!» protestò lei.

    «Non è colpa mia.»

    Tessa tornò a grattare la sua coppetta. Tanto per dare ancor più fastidio, cominciò a sfregare la pianta del piede sull’intaglio del cruscotto in legno.

    Passò un minuto intero prima che Sara cadesse preda del senso di colpa da sorella maggiore. Cercò di combatterlo mangiando altro gelato, ma le si bloccò in gola.

    «Tieni, bambinona.» Porse a Tessa la sua coppetta.

    «Grazie» fece lei in tono dolce. «Che ne dici se ne prendiamo un altro po’ per dopo?» suggerì. «Però potresti andare tu questa volta? Non voglio che mi prendano per una mangiona, e poi…» Sorrise con aria innocente e batté le palpebre. «Diciamo che potrei aver fatto incavolare il ragazzo al bancone.»

    «Non l’avrei mai sospettato.»

    Tessa continuò a battere le palpebre. «È che c’è gente davvero permalosa.»

    Sara aprì lo sportello, felice di avere una scusa per scendere dalla macchina. Si era allontanata di un metro quando Tessa abbassò il finestrino.

    «Lo so» disse Sara. «Doppio cioccolato.»

    «Sì, però aspetta.» Tessa tacque un attimo per leccare del gelato che colava dal lato del suo cellulare, prima di porgerglielo dal finestrino. «È Jeffrey.»

    Sara parcheggiò su un terrapieno ghiaioso tra un’autopattuglia e la macchina di Jeffrey, accigliandosi quando sentì dei sassi che schizzavano via dal terreno cozzando contro la fiancata della sua auto. L’unico motivo per cui aveva cambiato la decappottabile a due posti per quel modello più grande era poter avere lo spazio per un seggiolino. Ma tra Tessa e tutto il resto, quella BMW rischiava di finire dal demolitore ancor prima che nascesse il bambino.

    «Ci siamo?» chiese Tessa.

    «Sì.» Tirò il freno a mano e guardò il letto del fiume asciutto di fronte a loro. In Georgia la siccità durava dalla metà degli anni Novanta, e l’ampio corso d’acqua che un tempo scivolava in mezzo alla foresta come un serpente pigro e lento si era trasformato in poco più di un ruscelletto. Ne rimaneva solo una carcassa ormai secca e spezzettata, e il ponte che lo attraversava, alto una decina di metri, sembrava senza senso, sproporzionato, anche se Sara ricordava bene quando la gente andava lassù a pescare.

    «È là il corpo?» domandò Tessa indicando un gruppo di persone in semicerchio.

    «Probabile» rispose lei, domandandosi se fossero nel terreno di proprietà del college. La contea di Grant comprendeva tre città: Heartsdale, Madison e Avondale. La prima, nella quale sorgeva il Grant Institute of Technology, era il fiore all’occhiello della contea, e qualsiasi crimine avvenisse nei confini della città era considerato molto più grave. All’interno del campus, poi, sarebbe stato addirittura un incubo.

    «Che cosa è successo?» domandò curiosa Tessa, anche se non aveva mai mostrato il minimo interesse per l’attività di Sara prima di allora.

    «È proprio quello che devo scoprire» le fece notare Sara, cercando il fonendoscopio nel cruscotto. In quello spazio ristretto, la mano di Sara si posò sulla pancia di Tessa. Sara la lasciò lì un momento.

    «Oh, sorellina» fece Tessa con un filo di voce, prendendole la mano. «Ti voglio tanto bene.»

    L’improvvisa commozione di Tessa le fece venire da ridere, ma per qualche strano motivo si inumidirono gli occhi anche a lei. «Anch’io ti voglio bene, Tessie.» Le strinse forte la mano, dicendo: «Resta in macchina, non ci vorrà molto».

    Jeffrey le andò incontro mentre chiudeva lo sportello. Aveva i capelli scuri pettinati con cura all’indietro, ancora un pochino umidi sulla nuca. Indossava un abito color antracite, dal taglio perfetto, con il distintivo dorato della polizia infilato nel taschino della giacca.

    Sara portava dei pantaloni della tuta che avevano visto giorni migliori e una maglietta che aveva rinunciato a essere bianca più o meno all’epoca della presidenza di Reagan. Aveva le scarpe da ginnastica senza calzini, i lacci larghi in modo da poterle mettere e togliere col minimo sforzo possibile.

    «Non c’era bisogno di mettersi in ghingheri» la prese in giro lui, ma Sara notò la tensione nella sua voce.

    «Che cosa è successo?»

    «Non ne sono sicuro, ma c’è qualcosa che non mi torna…» Si interruppe, guardando la macchina. «C’è anche Tess?»

    «Eravamo insieme ed è voluta venire…» Sara non finì la frase, perché in effetti non aveva nessuna spiegazione a parte il fatto che lo scopo della sua vita in quel momento era far felice sua sorella, o quanto meno impedirle di piagnucolare.

    Jeffrey capì la situazione. «Immagino che non valesse la pena discuterci?»

    «Ha promesso di restare in macchina» disse lei, e in quel preciso momento sentì sbattere la portiera alle sue spalle. Si mise le mani sui fianchi e si voltò, ma Tessa le stava già facendo dei cenni per giustificarsi.

    «Devo andare» disse, indicando una serie di alberi in lontananza.

    «Vuole tornare a casa a piedi?» chiese Jeffrey.

    «Ha bisogno di fare pipì» spiegò lei, osservandola mentre affrontava la collina, diretta verso la zona boscosa.

    La guardarono insieme che s’inerpicava per la salita ripida, le mani giunte sotto la pancia, come se portasse un cesto. «Te la prenderai, se mi metterò a ridere quando rotolerà giù?»

    Sara rise con lui invece di rispondere alla domanda.

    «Pensi che abbia bisogno di aiuto, lassù?» le chiese lui.

    «Se la caverà» rispose Sara. «Un po’ d’esercizio le farà bene.»

    «Sicura?» insisté Jeffrey, preoccupato.

    «Sta bene» lo rassicurò lei, sapendo che Jeffrey non aveva mai frequentato donne incinte in vita sua. Forse temeva che Tessa potesse entrare in travaglio prima di raggiungere gli alberi in cima alla collina. Magari fosse stato così.

    Sara si avviò verso la scena del crimine, ma si fermò quando si accorse che lui non la stava seguendo. Si voltò, sicura di sapere cosa stava per succedere.

    «Sei andata via presto, stamattina» le disse.

    «Ho pensato che avessi bisogno di dormire.» Tornò indietro e prese un paio di guanti di lattice dalla tasca della giacca di Jeffrey, chiedendogli: «Che cosa hai notato di strano?».

    «Non ero poi così stanco» le disse con lo stesso tono sfacciato che avrebbe usato quella mattina, se l’avesse trovata accanto a sé.

    Sara giocherellò con i guanti cercando di farsi venire in mente una risposta. «Dovevo far uscire i cani.»

    «Potresti cominciare a portarli da me.»

    Sara puntò lo sguardo sull’autopattuglia. «È nuova?» domandò, fingendosi curiosa. La contea di Grant era piuttosto piccola. Sara aveva saputo della nuova macchina della polizia ancor prima che la parcheggiassero di fronte alla centrale.

    «È arrivata da un paio di giorni.»

    «La scritta è fatta bene» aggiunse lei, mantenendo un tono disinvolto.

    «Eh già» rispose lui, un’espressione fastidiosa che aveva cominciato a usare di recente quando non sapeva cos’altro dire.

    Sara non aveva alcuna intenzione di lasciar correre. «Ha fatto proprio un bel lavoretto.»

    Lo sguardo di Jeffrey non vacillò, come se non avesse niente da nascondere. Sara ne sarebbe stata colpita, se lui non avesse fatto esattamente quella faccia quando le aveva assicurato che non la stava tradendo.

    Gli rivolse un sorriso teso e ripeté, tornando al caso: «Che cosa hai notato di strano?».

    Jeffrey emise un respiro rapido e infastidito. «Lo vedrai da te» rispose, avviandosi verso il fiume.

    Sara camminava al suo passo normale, ma Jeffrey rallentò quel tanto che bastava per farsi raggiungere. Era in collera, ma lei non si era mai lasciata intimidire dal suo malumore.

    «È uno studente?» gli chiese.

    «Probabile» le rispose ancora in tono secco. «Abbiamo controllato le tasche. Non aveva documenti, ma da questo lato del fiume la proprietà è del college.»

    «Fantastico» borbottò Sara, domandandosi quanto tempo ci avrebbe messo Chuck Gaines, il nuovo capo della sicurezza del campus, ad arrivare e mettere in dubbio ogni loro azione. Chuck era un gran seccatore, ma la prima regola che Jeffrey aveva imposto come capo della polizia di Grant era quella di non creare malumori nel college. Chuck lo sapeva meglio di chiunque altro, e ne approfittava tutte le volte che poteva.

    Sara notò una bionda molto attraente seduta su un gruppetto di rocce. Accanto a lei c’era Brad Stephens, un giovane agente che molto tempo prima era stato un suo paziente.

    «Ellen Schaffer» la informò Jeffrey. «Faceva jogging diretta verso il bosco. Ha visto il corpo mentre attraversava il ponte.»

    «Quando lo ha trovato?»

    «Circa un’ora fa. Ha dato l’allarme col cellulare.»

    «Va a correre col cellulare?» chiese Sara, ma forse non doveva sorprendersi. Ormai la gente non andava nemmeno più al bagno senza portarsi dietro il telefono per non annoiarsi.

    Jeffrey disse: «Cercherò di parlare di nuovo con lei dopo che avrai esaminato il corpo. Prima era troppo sconvolta. Forse Brad riuscirà a calmarla un po’».

    «Conosceva la vittima?»

    «Sembra di no» rispose. «Forse si è trovata solo al posto sbagliato nel momento sbagliato.»

    Gran parte dei testimoni avevano la stessa sfortuna: in pochi istanti vedevano qualcosa che sarebbe rimasto impresso nelle loro menti per il resto della vita.

    Per fortuna, da quel che Sara riusciva a vedere del corpo al centro del letto del fiume, la ragazza se l’era cavata con poco.

    «Vieni» disse Jeffrey, sostenendola mentre si avvicinavano alla riva.

    Il terreno era collinare, con una pendenza che scendeva verso il fiume. Per via delle scarse piogge si era scavato un sentiero nel terreno, ma il limo era morbido e poroso.

    Sara immaginò che il letto del fiume fosse ampio almeno dodici metri in quel punto, ma più tardi Jeffrey l’avrebbe fatto senz’altro misurare. Sotto i loro piedi la terra era compatta, e lei sentì infilarsi nelle scarpe da ginnastica la polvere e l’argilla sollevate camminando verso il corpo. Una decina di anni prima, in quel punto sarebbero stati immersi nell’acqua fino al collo.

    Sara si fermò a metà strada prima di raggiungere la scena e alzò lo sguardo verso il ponte. Era una semplice campata in cemento con un parapetto basso. Esternamente, nella parte inferiore, c’era una sporgenza di circa cinque centimetri, e qualcuno aveva tracciato con la vernice spray nera le parole morte ai negri e una grossa svastica.

    Sara provò un’immensa amarezza. «Carino» disse in tono sarcastico.

    «Trovi anche tu?» rispose Jeffrey, altrettanto disgustato. «Il campus ne è pieno.»

    «Quando è cominciato?» chiese Sara. Le scritte sembravano sbiadite, potevano essere lì da un paio di settimane.

    «E chi lo sa?» disse lui. «Il college non ha fatto nemmeno una segnalazione.»

    «Se l’avessero fatto, sarebbero stati costretti a prendere provvedimenti» gli fece notare lei, guardandosi indietro in cerca di Tessa. «Hai idea di chi sia stato?»

    «Studenti» fece Jeffrey, imprimendo alla parola una nota di disprezzo mentre riprendeva ad avanzare. «Sarà un gruppetto di Yankee idioti che pensano sia divertente venire al Sud a spargere un po’ di suprematismo bianco.»

    «Detesto i razzisti da quattro soldi» borbottò Sara, stampandosi in volto un sorriso quando si avvicinarono a Matt Hogan e Frank Wallace.

    «Buon pomeriggio, Sara» la salutò Matt. Aveva in mano una macchina fotografica istantanea e qualche Polaroid nell’altra.

    Frank, il vice di Jeffrey, le disse: «Abbiamo appena finito di fare le foto».

    «Grazie» rispose Sara, infilandosi i guanti.

    La vittima era distesa proprio sotto il ponte, a faccia in giù nel terreno. Aveva le braccia larghe e i pantaloni e i boxer arrotolati intorno alle caviglie. A giudicare dalle dimensioni e dalla mancanza di peluria sulla schiena liscia e sulle natiche, era un ragazzo, probabilmente sui vent’anni. I capelli biondi gli arrivavano fino al colletto ed erano divisi nella parte posteriore della testa. Poteva sembrare addormentato, se non fosse stato per il sangue e i tessuti che gli sbucavano dall’ano.

    «Ah» disse, cominciando a capire cosa non convincesse Jeffrey.

    Seguendo la procedura, Sara si inginocchiò e appoggiò il fonendoscopio sulla schiena del ragazzo privo di vita. Sentì le costole muoversi per la pressione, ma nessun battito.

    Si rimise lo strumento intorno al collo ed esaminò il cadavere, dichiarando ciò che vedeva. «Non c’è segno del genere di trauma che ci si aspetta nei casi di sodomia forzata. Niente lividi, niente lacerazioni.» Gli guardò le mani e i polsi. Il braccio sinistro era torto in una posizione innaturale, e lei notò una brutta cicatrice rosata che gli correva lungo l’avambraccio. A giudicare dall’aspetto, doveva essersi ferito dai quattro ai sei mesi prima. «Non è stato legato.»

    Il ragazzo indossava una maglietta verde scuro che Sara sollevò per verificare se ci fossero altri segni evidenti di trauma. Alla base della colonna vertebrale c’era un lungo graffio che lacerava la pelle, ma non abbastanza profondo da sanguinare.

    «Che cos’è?» chiese Jeffrey.

    Sara non rispose, anche se c’era qualcosa di strano in quel graffio.

    Sollevò la gamba destra del ragazzo per spostarla di lato, ma si fermò quando si accorse che il piede era rimasto fermo. Fece scivolare la mano sotto la gamba dei pantaloni per tastare le ossa della caviglia, poi la tibia e il perone: fu come stringere un sacchetto pieno di farina. Controllò l’altra gamba, trovandola in uno stato simile. Le ossa non erano solo rotte: si erano polverizzate.

    Si sentirono chiudere degli sportelli e Sara udì Jeffrey mormorare: «Cazzo».

    Pochi istanti dopo Chuck Gaines arrivò sull’argine, la camicia dell’uniforme marrone scuro tesa allo stremo sul petto mentre affrontava la discesa. Sara lo conosceva fin dalle elementari, quando lui le dava il tormento prendendola in giro per tutto: l’altezza, i buoni voti, il rosso dei suoi capelli. In quel momento si sentì felice di vederlo tanto quanto lo era da bambina.

    Lena Adams era accanto a Chuck con indosso un’uniforme identica, ma che era almeno due taglie troppo grande per la sua figura esile. I pantaloni erano tenuti su da una cintura e, con gli occhiali da sole da aviatore e i capelli infilati sotto un berretto da baseball dalla visiera enorme, sembrava un bambino che si era messo per gioco i vestiti del padre, soprattutto quando perse l’equilibrio e raggiunse il fondo del letto del fiume scivolando sul sedere.

    Frank si mosse per aiutarla, ma Jeffrey lo fermò con un’occhiataccia. Lena era stata una detective – una di loro – fino a sette mesi prima, e lui non l’aveva perdonata per essersene andata ed era determinato a far sì che nessun altro dei suoi uomini lo facesse.

    «Maledizione!» esclamò Chuck facendo di corsa gli ultimi passi. Nonostante fosse una giornata fresca, aveva un velo di sudore sopra il labbro e il viso rosso per lo sforzo di scendere fin laggiù. Chuck era molto muscoloso, ma aveva comunque un’aria malsana. Sudava sempre, e un leggero strato di grasso dava alla sua pelle un aspetto teso e arrossato. Il suo volto era rotondo, gli occhi un po’ troppo grandi. Sara non riusciva a capire se fosse colpa degli steroidi o dello scarso allenamento, ma dava l’idea che potesse venirgli un infarto da un momento all’altro.

    Chuck le strizzò l’occhio con aria galante e la salutò: «Ehilà, Rossa», poi tese la mano grassoccia a Jeffrey. «Come procede, capo?»

    «Chuck» rispose lui, stringendogli la mano con riluttanza. Lanciò a Lena uno sguardo rapido, poi tornò a concentrarsi sulla scena. «Ci hanno chiamati circa un’ora fa. Sara è appena arrivata.»

    «Ciao, Lena» disse Sara.

    Lei rispose con un cenno del capo, ma Sara non riuscì a indovinare la sua espressione dietro gli occhiali scuri. Jeffrey non fece nulla per nascondere quanto disapprovasse il loro scambio, e se fossero stati da soli, lei gli avrebbe fatto presente che il suo era un comportamento da sciocco.

    Chuck batté le mani, come a voler dare sfoggio della propria autorità.

    «Allora, cosa abbiamo, doc?»

    «Forse un suicidio» rispose Sara, cercando di ricordare quante volte gli avesse detto di non chiamarla doc. Forse erano tante quante le volte in cui gli aveva chiesto di non chiamarla Rossa.

    «Ah sì?» fece lui, allungando il collo. «Ma non ti sembra che gli abbiano fatto anche un servizietto?» aggiunse, indicando la parte inferiore del corpo. «A me pare di sì.»

    Sara si sedette sui talloni senza rispondere. Diede un altro sguardo a Lena, chiedendosi come stesse. Aveva perso la sorella un anno prima, in quello stesso mese, e durante le indagini aveva vissuto l’inferno. Anche se c’erano un bel po’ di cose in lei che non le piacevano, non avrebbe augurato a nessuno di avere a che fare con Chuck Gaines.

    Lui parve rendersi conto che nessuno gli prestava attenzione. Batté ancora le mani e ordinò: «Adams, vai a controllare la zona periferica. Vedi se trovi qualche traccia».

    Sorprendentemente, lei obbedì e si incamminò lungo il letto del fiume.

    Sara guardò verso il ponte, schermandosi gli occhi dal sole. «Frank, potresti andare lassù a controllare se ha lasciato un biglietto o qualcos’altro?»

    «Un biglietto?» ripeté Chuck.

    Sara si rivolse a Jeffrey. «Immagino sia saltato dal ponte» disse. «È atterrato sui piedi. Si vedono i segni in cui le scarpe hanno colpito il terreno. L’impatto gli ha tirato giù i pantaloni e gli ha spezzato quasi tutte, se non tutte, le ossa di piedi e gambe.» Guardò l’etichetta dei jeans, controllando la taglia. «Sono un modello largo, e la forza da quell’altezza è stata notevole. Immagino che il sangue sia causato dal distaccamento degli intestini. Come vedi, parte del retto si è rivoltata ed è fuoriuscita dall’ano.»

    Chuck emise un basso fischio, e Sara lo guardò senza riflettere. Lo vide muovere le labbra mentre leggeva la scritta razzista sul ponte. Poi le fece un gran sorriso e le chiese: «Come sta tua sorella?».

    Sara vide Jeffrey serrare la mascella e digrignare i denti. Devon Lockwood, il padre del bambino di Tessa, era nero.

    «Sta bene, Chuck» rispose lei, costringendosi a non cedere alla provocazione. «Perché me lo domandi?»

    Lui le sorrise di nuovo, assicurandosi che lo vedesse mentre osservava il ponte. «Così.»

    Sara continuò a fissarlo, incredula che fosse cambiato così poco dal liceo.

    «La cicatrice sul braccio» intervenne Jeffrey. «Sembra recente.»

    Sara fece uno sforzo e guardò il braccio della vittima, ma quando rispose aveva la gola serrata dalla collera. «Sì.»

    «Sì?» ripeté Jeffrey, e c’era senza dubbio una domanda dietro quella parola.

    «Sì» ribadì lei, dandogli a intendere che sapeva difendersi da sola.

    Sara fece un lungo respiro per calmarsi, prima di rispondere: «La mia migliore ipotesi al momento è che sia stato un gesto deliberato, un taglio che segue la linea dell’arteria radiale. Deve essere stato portato all’ospedale».

    All’improvviso, Chuck mostrò interesse per i progressi di Lena. «Adams!» strillò. «Controlla di là.» Indicò in una direzione che l’allontanava dal ponte, opposta a quella che aveva preso lei.

    Sara posò le mani sui fianchi del ragazzo morto e chiese a Jeffrey: «Mi aiuti a voltarlo?».

    Mentre aspettava che si mettesse i guanti, diede uno sguardo verso gli alberi, cercando Tessa. Non c’era traccia di lei. Per una volta provò un senso di sollievo, immaginandola nella sua auto.

    «Pronto» dichiarò Jeffrey, le mani sulle spalle del cadavere.

    Sara contò fino a tre e insieme girarono il corpo con la massima cautela.

    «Oh, cazzo» squittì Chuck, alzando il tono di voce di tre ottave. Arretrò in tutta fretta, come se il corpo avesse preso fuoco all’improvviso. Jeffrey si alzò rapido, con un’espressione orripilata in volto. Matt emise un suono molto simile a un conato e si voltò di spalle.

    «Bene» fece Sara, non avendo idea di cos’altro dire.

    La pelle della parte finale del pene della vittima era stata strappata via quasi del tutto. Un lembo di pelle di una decina di centimetri pendeva dal glande, e una serie di piercing a manubrio bucavano la carne a intervalli irregolari.

    Sara si inginocchiò accanto alla zona pelvica, esaminando il danno. Sentì qualcuno inspirare l’aria tra i denti quando tirò la pelle rimettendola nella posizione normale e studiò i margini frastagliati con cui era stata strappata via dall’organo.

    Jeffrey fu il primo a parlare. «Che diavolo è quella roba?»

    «Body piercing» rispose lei. «Si chiama frenum ladder.» Sara indicò le stanghette di metallo. «Sono piuttosto pesanti. L’impatto deve aver tirato via la pelle come un calzino.»

    «Cazzo» mormorò Chuck di nuovo, fissando la ferita.

    Jeffrey era incredulo. «Se l’è fatto da solo?»

    Sara scrollò le spalle. Il piercing ai genitali non era affatto diffuso nella contea di Grant, ma in clinica aveva avuto a che fare con una quantità di infezioni causate dal piercing sufficiente a essere informata dell’esistenza di quella pratica.

    «Gesù» bofonchiò Matt tirando un calcio al terriccio e continuando a dare le spalle a tutti loro.

    Sara indicò un anellino dorato alla narice del ragazzo. «Qui la pelle è più spessa, quindi non è venuta via. Il sopracciglio…» Controllò il terreno, individuando un altro anello dorato che era rimasto conficcato nell’argilla nel punto in cui era caduto il corpo. «Forse la chiusura si è aperta all’impatto.»

    Jeffrey indicò il petto. «E quello?»

    C’era un rivoletto di sangue che si fermava a circa cinque centimetri dal capezzolo destro del ragazzo, che era spaccato in due. Sara fece un tentativo e srotolò la vita dei jeans. Incastrato tra la zip e i boxer c’era un terzo anello. «Piercing al capezzolo» spiegò, prendendolo. «Hai un sacchetto per questo?»

    Jeffrey tirò fuori un piccolo sacchetto di carta per le prove e glielo tenne aperto, chiedendo con enorme disgusto: «È tutto?».

    «Credo di no» rispose lei.

    Prese la mandibola del ragazzo tra indice e pollice e gli aprì la bocca. Infilò le dita dentro con attenzione, badando a non tagliarsi. «È probabile che avesse un piercing anche alla lingua» spiegò a Jeffrey, tastando il muscolo. «La punta è recisa in due. Lo saprò quando farò l’autopsia, ma immagino che lo troverò nella gola.»

    Spostò il peso sui talloni, togliendosi i guanti e osservando il corpo nell’insieme invece che nelle singole parti. Era un ragazzo di aspetto normale, a parte la scia di sangue che gli colava dal naso e andava ad allargarsi intorno alle labbra. Un pizzetto biondo-rossiccio gli abbracciava il mento in carne, e aveva basette sottili e lunghe che gli incorniciavano la mascella come un nastro colorato.

    Chuck fece un passo avanti per vederlo meglio e spalancò la bocca. «Oh, cazzo. Questo è… Merda…» mugugnò, dandosi dei colpi alla testa. «Non mi ricordo il nome. Sua madre lavora al college.»

    Jeffrey incurvò le spalle alla notizia. Il caso era appena diventato dieci volte più complesso.

    Dal ponte, Frank gridò: «Ho trovato un biglietto».

    Sara ne fu sorpresa, anche se era stata proprio lei a mandare Frank a cercarlo. Aveva avuto a che fare con un buon numero di suicidi, durante la sua carriera, e in quello c’era qualcosa che non quadrava.

    Jeffrey la scrutava con attenzione, come se potesse leggerle nel pensiero. Le chiese: «Credi si sia buttato?».

    Sara non voleva ancora trarre conclusioni. «Così sembrerebbe, giusto?»

    Lui aspettò un attimo, poi decise. «Setacceremo la zona.»

    Chuck stava per offrirsi volontario, ma lui lo prevenne. «Chuck, puoi restare qui insieme a Matt e fare una foto del volto? Voglio mostrarlo alla donna che ha trovato il corpo.»

    «Ah…» Chuck parve cercare una scusa, non perché non volesse restare lì, ma perché non sopportava di accettare ordini dal capo della polizia.

    Jeffrey fece un cenno a Matt, che si era deciso a voltarsi di nuovo. «Fai qualche foto.»

    Matt rispose con un cenno rigido, e Sara si domandò come avrebbe fatto a scattare delle fotografie senza guardare il corpo. Chuck, dal canto suo, non riusciva a distogliere lo sguardo. Forse non aveva mai visto un cadavere. Sapendo che razza di persona era, Sara non fu sorpresa dalla sua reazione. Dalle emozioni che tradiva il suo viso, sembrava che stesse guardando un film.

    «Vieni» le disse Jeffrey, aiutandola ad alzarsi.

    «Ho già chiamato Carlos» gli disse Sara, riferendosi al suo assistente all’obitorio. «Dovrebbe arrivare subito. Dall’autopsia ne sapremo di più.»

    «Bene» disse Jeffrey. Si rivolse a Matt. «Cerca di farne una in cui si veda bene il viso. Quando Frank torna giù, digli di venire da me alle macchine.»

    Matt gli fece il saluto, sempre senza parlare.

    Sara si infilò il fonendoscopio in tasca mentre si avviavano lungo il letto del fiume. Lanciò un’occhiata verso l’auto, cercando Tessa. Il sole si rifletteva sul parabrezza, trasformandolo in uno specchio luminoso.

    Jeffrey aspettò di essere dove Chuck non potesse sentirli e le chiese: «Che cos’è che non stai dicendo?».

    Sara tacque per un attimo, non sapendo come descrivere le proprie sensazioni. «C’è qualcosa che mi turba.»

    «Potrebbe essere colpa di Chuck.»

    «No» rispose. «Chuck è un cretino. Lo conosco da trent’anni.»

    Jeffrey si concesse un sorriso. «E allora cos’è?»

    Sara si voltò a guardare il ragazzo a terra, poi di nuovo il ponte. «Il graffio sulla schiena. Come se l’è fatto?»

    «Sul parapetto del ponte?» suggerì lui.

    «E come? Non è abbastanza alto. È probabile che ci si sia seduto sopra e abbia portato i piedi dall’altra parte.»

    «C’è una sporgenza sotto il parapetto» le fece notare Jeffrey. «Potrebbe averci sfregato la schiena mentre cadeva.»

    Sara continuava a fissare il ponte, cercando di immaginare come fossero andate davvero le cose. «So che sembra sciocco, ma se fossi stata al suo posto, non avrei voluto andare a sbatterci contro mentre cadevo giù. Mi sarei messa in piedi sul muretto e sarei saltata di sotto, lontano dalla sporgenza. Lontano da tutto.»

    «Forse invece si è calato sulla sporgenza e si è graffiato.»

    «Controllate se ci sono frammenti di pelle» suggerì lei, anche se dubitava che avrebbero trovato qualcosa.

    «Che mi dici del fatto che è atterrato sui piedi?»

    «Non è inconsueto come pensi.»

    «Credi che l’abbia fatto di proposito?»

    «Il salto?»

    «Quella roba lì» disse lui, indicandosi il basso ventre.

    «Il piercing?» chiese Sara. «Credo lo avesse da un po’. Era ben cicatrizzato.»

    Jeffrey trasalì. «E perché una persona dovrebbe farsi una cosa del genere?»

    «Dicono che aumenti la stimolazione sessuale.»

    Lui era scettico. «Per l’uomo?»

    «Anche per la donna» rispose Sara, nonostante l’idea la facesse rabbrividire. Guardò di nuovo verso la macchina, sperando di scorgere Tessa. Sara aveva la visuale libera sul punto in cui avevano parcheggiato. A parte Brad Stephens e la testimone, non si vedeva nessuno.

    «Dov’è Tessa?» chiese Jeffrey.

    «E chi lo sa?» rispose lei, infastidita. Si pentì di non aver portato sua sorella a casa, invece di permetterle di andare con lei.

    «Brad» chiamò Jeffrey mentre si avvicinavano alle auto. «Hai visto Tessa scendere dalla collina?»

    «No, signore» rispose lui.

    Sara guardò sul sedile posteriore della sua macchina pensando di trovarci la sorella rannicchiata per schiacciare un pisolino. Ma era vuoto.

    «Sara?» disse Jeffrey.

    «Va tutto bene» rispose lei, pensando che forse Tessa aveva cominciato a scendere la collina e poi aveva scoperto di dover tornare su. Nelle ultime settimane sembrava che il bambino ballasse il tip tap sulla sua vescica.

    «Vuoi che vada a cercarla?» le propose lui.

    «Si sarà seduta da qualche parte a riposare.»

    «Sicura?»

    Lei lo liquidò con un gesto della mano, imboccando lo stesso sentiero che aveva preso Tessa salendo la collina. Gli studenti del college andavano a correre nei sentieri del bosco, che portavano da un lato della città all’altro. Dirigendosi a est per un chilometro e mezzo circa, Sara si sarebbe ritrovata alla clinica pediatrica. A ovest c’era la superstrada, mentre a nord sarebbe finita all’altro capo della città, nei pressi della casa dei Linton. Se Tessa aveva deciso di tornare a piedi senza dirlo a nessuno, l’avrebbe strozzata.

    La salita era più ripida di quanto le fosse sembrato, e si fermò in cima alla collina per riprendere fiato. C’era immondizia ovunque, lattine di birra sparse come foglie morte. Guardò in giù, verso il parcheggio, dove Jeffrey stava interrogando la donna che aveva trovato il corpo. Brad Stephens la salutò con la mano e lei rispose al saluto, pensando che se lei era rimasta senza fiato dopo la salita, Tessa doveva aver fatto una gran fatica. Forse si era fermata per riprendersi prima di tornare giù. Forse aveva trovato qualche animale selvatico. Forse era entrata in travaglio. A quell’ultimo pensiero, Sara si voltò verso la linea degli alberi, seguendo un sentiero che si snodava nel bosco. Dopo qualche metro si guardò intorno, in cerca di un qualsiasi segno di sua sorella.

    «Tess?» la chiamò, cercando di non cedere alla collera. Doveva essersi messa a gironzolare perdendo la cognizione del tempo. Tessa aveva smesso di portare l’orologio da qualche mese perché i polsi le si erano gonfiati troppo per il cinturino metallico.

    Sara si addentrò tra gli alberi, alzando la voce e chiamandola ancora: «Tessa?».

    Nonostante la giornata assolata, la foresta era immersa nell’oscurità, con i rami degli alti fusti che si intrecciavano tra loro come le dita nei giochi dei bambini, schermando quasi tutta la luce. Tuttavia Sara si portò comunque una mano sopra gli occhi, come se così facendo potesse vederci meglio.

    «Tess?» ritentò, poi contò fino a venti.

    Nessuna risposta.

    Una brezza mosse le foglie sopra di lei e Sara avvertì un formicolio sconcertante dietro la nuca. Si sfregò le braccia nude e fece qualche altro passo seguendo il sentiero. Dopo circa cinque metri trovò una biforcazione. Entrambi i sentieri erano ben visibili, e lei notò varie impronte di scarpe da ginnastica nel terreno. Si inginocchiò, cercando di individuare quella piatta dei sandali di Tess tra tutte le altre a righe e zig-zag, quando sentì un suono dietro di sé.

    Saltò su. «Tess?» Ma era solo un procione che si mostrò spaventato tanto quanto lei. Si fissarono per qualche attimo, poi l’animale trotterellò via nel bosco.

    Sara si mise in piedi, battendo le mani tra loro per scrollarsi di dosso la polvere. Prese il sentiero di destra, poi tornò alla biforcazione e disegnò una freccia nel terreno con il tacco della scarpa per indicare da che parte era andata.

    Non appena tracciò il segno, Sara si sentì una sciocca, ma decise che avrebbe riso di quella precauzione più tardi, mentre riaccompagnava Tessa a casa.

    «Tess?» chiamò, spezzando un ramoscello da un ramo basso mentre procedeva tra gli alberi. «Tess?» disse ancora, poi si fermò, in attesa, senza avere nessuna risposta.

    Più avanti vide che la stradina faceva una curva secca e poi si divideva di nuovo. Si chiese se fosse meglio andare a chiedere aiuto a Jeffrey, ma decise di lasciar perdere. Una parte di lei si sentiva una stupida per averci anche solo pensato, ma un’altra parte, più profonda, non riusciva a placare il terrore.

    Avanzò ancora, chiamando sua sorella per nome. Giunta al bivio si schermò di nuovo gli occhi con la mano, guardando in entrambe le direzioni. I due viottoli si allontanavano gradualmente tra loro, quello a destra aveva una svolta netta circa venti metri più avanti. Il bosco lì era più scuro, e Sara dovette fare uno sforzo per vedere. Cominciò a disegnare una freccia verso il percorso a sinistra, ma poi le balenò qualcosa nella mente, come se gli occhi ci avessero messo un po’ a riferire un’immagine al cervello. Scrutò il sentiero a destra e vide una pietra dalla forma strana subito prima della curva netta. Fece qualche passo avanti, poi corse, perché si era accorta che la pietra in realtà era un sandalo di Tessa.

    «Tessa!» gridò, raccogliendolo da terra e stringendoselo al petto mentre girava su se stessa alla ricerca frenetica di sua sorella. Sara lasciò cadere la scarpa, colta da un capogiro. La gola le si serrò e il terrore che aveva represso fino a quel momento le piombò addosso, investendola. In una radura, poco più avanti, Tessa era supina, con una mano sulla pancia, l’altra distesa lungo il fianco. Aveva la testa voltata in una posizione innaturale, le labbra appena dischiuse, gli occhi serrati.

    «No» ansimò Sara, correndo verso di lei. Non distava più di cinque metri, ma le parvero chilometri. Un miliardo di possibilità le sfrecciarono nella testa mentre correva verso di lei, ma nessuna la preparò a quello che si trovò di fronte.

    «Oh Dio» esclamò. Scivolò a terra, sentendo cedere le ginocchia. «Oh no…»

    Tessa era stata pugnalata almeno due volte alla pancia e una al petto. C’era sangue dappertutto, che trasformava il viola scuro del suo vestito in un nero bagnato e viscido. Sara guardò il viso di sua sorella. Lo scalpo

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