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Una famiglia per il dottore: Harmony Bianca
Una famiglia per il dottore: Harmony Bianca
Una famiglia per il dottore: Harmony Bianca
E-book157 pagine2 ore

Una famiglia per il dottore: Harmony Bianca

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Info su questo ebook

Al REPARTO MATERNITÀ queste dottoresse compiono dei veri e propri miracoli. Ma il miracolo più grande è quello che stravolgerà la loro vita per sempre.
Emily Evans è appena riuscita a costruirsi una famiglia realizzando così il suo sogno. Lo stesso sogno che aveva distrutto la relazione con il suo ex marito inducendolo a lasciarla per sempre. Adesso Oliver è tornato ma Emily si rende subito conto che il suo desiderio di paternità è rimasto lo stesso di prima: praticamente inesistente! Lavorare ogni giorno fianco a fianco con i piccoli pazienti del Reparto Maternità rinnova l'attrazione fra loro ma anche la consapevolezza di ciò che li divide. Emily sa che soltanto una famiglia potrà lenire le ferite di Oliver. Il problema è riuscire a convincerlo a farne parte.
LinguaItaliano
Data di uscita10 dic 2020
ISBN9788830522558
Una famiglia per il dottore: Harmony Bianca
Autore

Marion Lennox

Marion Lennox is a country girl, born on an Australian dairy farm. She moved on, because the cows just weren't interested in her stories! Married to a `very special doctor', she has also written under the name Trisha David. She’s now stepped back from her `other’ career teaching statistics. Finally, she’s figured what's important and discovered the joys of baths, romance and chocolate. Preferably all at the same time! Marion is an international award winning author.

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    Anteprima del libro

    Una famiglia per il dottore - Marion Lennox

    978-88-3052-255-8

    1

    Tardi, tardi, tardi!

    Era la terza volta in una settimana che arrivava tardi al lavoro. Il suo capo le avrebbe staccato la testa se fosse stata dell'umore, ma per fortuna Isla, capo ostetrica del Melbourne Victoria Hospital, girava per i corridoi con un sorriso estatico stampato sulla faccia da quando si era fidanzata.

    Em rabbrividì. «Chi ha bisogno del matrimonio?» domandò ad alta voce mentre guidava l'auto verso il parcheggio al quinto piano. Avrebbe dovuto fare domanda per un posto auto ai piani inferiori, soprattutto perché era quasi sempre in ritardo, ma il vecchio fuoristrada richiedeva uno spazio più ampio del normale. Uno dei suoi colleghi guidava la moto e insieme avevano noleggiato due posti. Era un accordo perfetto.

    Salvo per il fatto che si trovava al quinto piano e lei era di nuovo in ritardo. Avrebbe dovuto già trovarsi in reparto da un quarto d'ora, ma Greta era di nuovo malata. Stava andando tutto troppo in fretta. Doveva riportare la bambina dal cardiologo, ma durante l'ultima visita, il medico aveva detto...

    Em si rifiutò di tornare col pensiero alle sue parole. Era impensabile. Si passò una mano tra i riccioli ribelli, sperando di distrarsi. Prima di arrivare in reparto doveva legarli, pensò. Dove aveva messo le forcine?

    Ma non funzionò. La sua mente si rifiutava di lasciarsi distrarre e l'avvertimento del cardiologo le risuonava ancora nelle orecchie.

    «Emily, mi dispiace, ma non c'è più tempo.»

    Quella mattina la bambina l'aveva abbracciata forte e per Em era stato davvero arduo uscire per andare al lavoro. Per fortuna c'era sua madre, che adorava fare la nonna e che aveva promesso di chiamarla se Greta non fosse migliorata entro l'ora di pranzo.

    Qualcosa non andava, Em ne era consapevole. Il cardiologo era stato fin troppo franco, ma vederlo coi propri occhi era stato comunque un duro colpo per lei. Nel finesettimana aveva portato entrambi i bambini nel loro posto preferito, il parco giochi del Giardino Botanico. Lì c'era un ruscello che Greta adorava fin da quando gattonava ancora e solo sei mesi prima vi era entrata coi piedi, ridendo e schizzando l'acqua. Stavolta, invece, non era riuscita nemmeno ad avvicinarsi. Em era rimasta seduta con lei sulla riva, sforzandosi di farla ridere, ma la piccola non aveva smesso di singhiozzare.

    S'impose di non pensarci. La macchina davanti a lei arrancava su per la rampa con snervante lentezza ed Em sbuffò di sollievo quando si tolse di mezzo al quarto piano. Scalò la marcia e a velocità sostenuta svoltò a sinistra per infilarsi nel proprio parcheggio, come aveva fatto centinaia di volte.

    Solo che stavolta al posto della motocicletta di Harry lo spazio era occupato da una macchina sportiva d'epoca, rosso scuro e scintillante, e anziché il parcheggio fluido che aveva programmato, Em centrò il veicolo in pieno.

    La sua macchina era dotata di bull bar, perciò era assai robusta, ma la cosina che aveva urtato non lo era affatto. Aveva completamente ammaccato la portiera della macchina sportiva.

    Oliver Evans, ginecologo e chirurgo prenatale, stava raccogliendo la ventiquattrore e la giacca del completo dal sedile del passeggero. Quel giorno avrebbe incontrato gli amministratori dell'ospedale, perciò aveva scelto un abbigliamento formale. Immerso nella lettura di alcune annotazioni, si era a stento accorto dell'auto che sopraggiungeva alle sue spalle. Quando la sentì svoltare dalla rampa era già troppo tardi: la fiancata sinistra era praticamente andata.

    Fu solo grazie ad anni di pratica che Em riuscì a mantenere la calma. Non urlò, non scoppiò in lacrime e non imprecò. Si limitò a fissare il vuoto davanti a sé. Conta fino a dieci, si disse e quando non funzionò, alzò la posta fino a venti.

    Non c'erano dubbi su quanto era successo: lo spazio di due parcheggi che di solito condivideva con la moto di Henry ora era sensibilmente diminuito. Henry era partito e quella doveva essere la macchina del suo sostituto. Gli aveva appena dato il benvenuto distruggendo la sua auto. «Assicurazione, assicurazione, assicurazione» ripeté tra sé. Ripeteva spesso le cose tre volte. Di solito aiutava, ma stavolta non funzionò. Sfinita, appoggiò la fronte sul volante e chiuse gli occhi.

    La sua macchina era distrutta.

    Oliver scese e incredulo contemplò il danno alla sua amata Morgan. L'auto d'epoca era bassa, bellissima e... fragile.

    Aveva parcheggiato proprio al centro del posto auto per evitare i soliti conducenti noncuranti che aprivano la portiera e gli graffiavano la carrozzeria. Ma quello che stava guardando era infinitamente peggiore di un graffio.

    Oliver amava la sua macchina. L'aveva comprata cinque anni prima, come consolazione dopo la separazione. L'aveva aiutato a rappacificarsi col mondo. L'aveva curata, speso una piccola fortuna in manutenzione e aveva trovato un garage molto costoso in cui parcheggiarla mentre era all'estero. L'ansia di fare ritorno in Australia era stata mitigata solo dal pensiero di riunirsi alla sua Betsy.

    Ma ora, qualche idiota con un mostruoso veicolo, per giunta munito di bull bar, l'aveva distrutta.

    «Che cosa diavolo credeva di fare?» esordì a quel punto. Non riusciva a vedere il guidatore, ma nel frattempo scaricava la sua rabbia sul fuoristrada.

    Era la macchina più brutta e sgraziata che si fosse mai vista. Per di più era intatta, o meglio, non aveva riportato danni da quell'impatto, perché per il resto era un rottame pieno di ammaccature. Visto lo stile di guida, non c'era da stupirsene.

    Gli sarebbe piaciuto prenderla a calci! Un attimo dopo però, Oliver si chiese perché il guidatore non si fosse ancora mosso. Nello spazio di pochi secondi, entrò in modalità medica. Forse il conducente aveva avuto un attacco di cuore ed era svenuto. Forse si trattava di un malore anziché di semplice stupidità. La portiera del guidatore era bloccata contro la fiancata della Morgan, perciò si diresse a quella del passeggero.

    Il motore fu spento. Quindi chiunque fosse alla guida era vivo. Bene. O quasi.

    «Sarà meglio che stia avendo un attacco di cuore» esclamò, incapace di bandire la rabbia dal suo tono. «Le conviene avere un'ottima scusa per aver rovinato la mia auto con questo mucchio di metallo arrugginito! Le dispiacerebbe scendere e spiegarsi?»

    No!

    La situazione era già abbastanza critica, ma sembrava che volesse peggiorare. Em conosceva quella voce. Una voce dal passato. Di certo si trattava della sua immaginazione, tuttavia non aprì gli occhi per timore di una conferma. Era esausta, in ansia per Greta, era in ritardo e aveva appena fatto un incidente. Non la si poteva biasimare se sentiva le voci.

    «Hei, sta bene?» La voce roca dell'uomo, furiosa all'inizio, ora sembrava preoccupata.

    Ma era la stessa voce e quella non era un'immaginazione. Era tutto tremendamente, spaventosamente reale. Ma anche le voci si somigliavano, cercò di convincersi, sull'orlo dell'isteria. Doveva pur esserci qualcun altro al mondo con quella voce!

    La portiera del passeggero venne aperta e un attimo dopo una figura maschile riempì l'abitacolo. Una mano si posò su quelle di lei, ancora aggrappate al volante. «Signorina, è ferita? Posso aiutarla?»

    Em conosceva quel tono premuroso. Era proprio lui, Oliver. L'uomo che aveva amato con tutto il cuore ma che cinque anni prima l'aveva lasciata per darle modo di rifarsi una vita.

    Un'ondata di emozioni la sommerse: rabbia, sorpresa, sofferenza. Aveva avuto cinque anni di tempo per andare avanti ma, che fosse o no una pazzia, sentiva che Oliver era ancora una parte di lei. Gli aveva sfasciato la macchina e lui era lì.

    Con un enorme sforzo di volontà aprì gli occhi, sollevò la testa e guardò dritto negli occhi suo marito.

    Emily.

    La vedeva, ma il cervello si rifiutava di registrarla. Emily! Per una frazione di secondo pensò di sbagliarsi. Quella che aveva davanti era una donna diversa, più matura, un po'... più stanca. Jeans sbiaditi e riccioli spettinati. Non c'erano dubbi però che fosse proprio lei. Sua moglie. La sua Em.

    Non che fosse davvero sua, non più. Cinque anni prima se n'era andato, lasciandola a una nuova vita, e ora non aveva più nulla a che fare con lui.

    Eppure era di fronte a lui e lo guardava, con occhi che riflettevano la sua stessa incredulità. Gli aveva sfasciato l'amata macchina, doveva essere arrabbiato o infelice, ma era come se non riuscisse a provare nulla.

    «Em?» Oliver era chiaramente incredulo.

    Che cosa si diceva a un marito che non si vedeva da cinque anni? Non c'era un manuale d'istruzioni per situazioni del genere.

    «C... ciao» fu tutto ciò che riuscì a balbettare.

    «Hai appena distrutto la mia macchina.» Non che il suo esordio fosse molto più intelligente.

    «Avresti dovuto essere una motocicletta» replicò lei, riflettendo che quell'affermazione era ancora più stupida. Quella conversazione non stava andando da nessuna parte.

    «Hai una macchia di latte sulla spalla» le fece notare Oliver.

    Incredibile che fosse la prima cosa che notava, pensò lei. L'uniforme era nella sua borsa, non la indossava mai prima di uscire di casa perché le possibilità che restasse immacolata erano pari a zero. Perciò portava ancora i jeans e la vecchia giacca a vento che aveva a colazione. Greta aveva bevuto il suo latte prima di sentirsi male e lei l'aveva tenuta in braccio per calmarla prima di lasciarla. Stranamente, quella macchia di latte la faceva sentire esposta.

    «Ci sono due seggiolini per bambini nella tua macchina.»

    Oliver suonava ancora incredulo. Macchie di latte, seggiolini. Quella che stava guardando doveva essere una donna ben diversa dalla moglie che aveva lasciato cinque anni prima.

    Lui invece era sempre lo stesso. Alto, snello e favoloso. Gli stessi occhi scuri, le stesse rughette ai lati quando sorrideva, cosa che faceva spesso. La stessa bocca ampia e gli stessi capelli scuri e ondulati. Tante volte aveva tentato di disfarsi dei ricci, ma senza successo. Emily ricordò la sensazione di passare le dita tra quelle ciocche.

    Che pensiero inappropriato. Lui era il suo ex marito, anche se non si erano mai preoccupati di divorziare ufficialmente. In ogni caso, lei era andata avanti.

    E gli aveva sfasciato la macchina.

    «Stai usando il parcheggio di Harry» gli fece notare in tono d'accusa, indicando l'auto sportiva. Era bellissima, o almeno lo era ciò che ne restava. Una decappottabile d'epoca.

    Lui aveva sempre amato le macchine. Em ricordava ancora il giorno in cui avevano venduto l'ultima delle sue auto sportive per acquistare una familiare. Più piccola di quella che guidava adesso, ma altrettanto solida. Erano andati direttamente dalla concessionaria al negozio per bambini per comprare il seggiolino.

    Lei era incinta di sei mesi. Avevano fatto ritorno a casa con l'identico sorriso compiaciuto sui volti. Oliver aveva desiderato una famiglia tanto quanto lei, o almeno così aveva creduto. Quanto era successo dopo aveva dimostrato che non lo conosceva così bene.

    «Mi è stato assegnato questo posto auto» stava dicendo lui e lei si sforzò di tornare al presente. «Quinto piano, posto undici. È il mio.»

    «Sei qui in visita?»

    «No, da oggi lavorerò qui.»

    «Non è possibile!»

    Lui non replicò. Piuttosto, scese dalla macchina, infilò le mani nelle tasche dei pantaloni, lanciò un'occhiata alla sua povera Morgan e poi tornò a guardarla.

    «Perché no, Em?»

    «Perché io lavoro qui.»

    «Questo è l'ospedale col reparto neonatale migliore di Melbourne. Sai bene che è ciò che faccio.»

    «Eri andato negli Stati Uniti.» Em si sentiva come intorpidita, incapace di ragionare con logica. Era certa che il suo ex marito fosse dall'altra parte del mondo e non desiderava affatto trovarselo lì.

    «Mi sono specializzato in chirurgia prenatale in America.» Era una conversazione quasi surreale. Lui appoggiato a una delle colonne di cemento la guardava

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